». Il manifesto, 8 luglio 2016 (c.m.c.)
Quando mancano tre mesi al referendum sulla riforma costituzionale, la Confindustria, il presidente del Consiglio e l’immancabile presidente della Repubblica emerito si scatenano preannunciando, nell’ipotesi di vittoria del No, sfracelli indicibili, tra i quali spicca – tragedia senza pari – il ritorno del giovane e incompreso premier alla natia Firenze. Ce ne faremo una ragione. Ma, intanto, è utile ricordare gli sconquassi che una vittoria del Sì provocherebbe sul sistema politico (ben più rilevanti delle personali fortune di Matteo Renzi e del suo entourage).
Le costituzioni contemporanee (non a caso definite “rigide”, cioè modificabili solo con maggioranze qualificate e procedure rafforzate), tracciano il quadro delle regole condivise all’interno del quale si svolgono il confronto e, occorrendo, lo scontro politico. Sono, in altri termini, l’elemento unificante di una collettività.
Così è stato per la nostra Carta del ’48, che ha trasformato un paese diviso e lacerato (dal ventennio fascista, dalla guerra e dallo stesso referendum istituzionale) in una casa comune, riconosciuta come propria pur nelle profonde differenze ideali, politiche, economiche e sociali dalla generalità dei cittadini.
Questa impostazione ha guidato tutti i processi parlamentari finalizzati al cambiamento della Carta fino alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita con legge 24 gennaio 1997 e presieduta dall’onorevole D’Alema, i cui lavori si conclusero senza alcun intervento modificativo perché, come annunciò il presidente della Camera nella seduta del 9 giugno 1998, la Commissione «ha preso atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione».
Tutt’altro il disegno che ha ispirato la riforma approvata nell’aprile scorso da un Parlamento eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale: iniziativa del Governo (pur privo di competenza al riguardo, tanto che, per esempio, in sede di assemblea costituente l’allora presidente del Consiglio De Gasperi intervenne una sola volta e, ostentatamente, dal suo seggio di deputato e non nel ruolo di capo del Governo), iter parlamentare caratterizzato da artifici e colpi di mano, spaccatura verticale nel voto delle Camere (con prevalenza del voto favorevole per poche unità).
Non è un fatto del tutto nuovo. Così vennero approvate, dal centrosinistra, le modifiche costituzionali del 2001 (relative al titolo V) e, dal centrodestra, quelle del 2006 (relative alla forma del Governo e dello Stato). Ma si trattò allora di interventi limitati o bocciati, poi, dall’esito referendario.