Se l’iniziativa dei parlamentari non azzera quella di un comitato promotore, tanto meno può produrre questo effetto la pronuncia della Cassazione sull’iniziativa medesima. La pronuncia della Corte è meramente strumentale al prosieguo del procedimento per quanto riguarda la specifica richiesta. Quello che conta è il diritto garantito ai soggetti promotori dalla Costituzione e dalla legge. E quindi per l’indizione del referendum non può non tenersi conto dei tre mesi previsti per la raccolta delle 500 mila firme.
D’altra parte, se volessimo ritenere perentorio e scaduto il termine per l’indizione del referendum, ne verrebbe l’impossibilità di indirlo. La mancanza del voto popolare avrebbe come conseguenza inevitabile che la legge Renzi-Boschi non vedrebbe mai la luce. Ai sensi dell’art. 138 Cost. la legge di revisione approvata a maggioranza assoluta dei componenti è promulgata ed entra in vigore, qualora venga chiesto il referendum, solo a seguito di un voto popolare positivo. Se il voto è negativo, questo effetto non si produce. Lo stesso ovviamente accadrebbe se il voto mancasse del tutto. Possiamo discutere sulla qualificazione giuridica, Ma la riforma non esisterebbe come tale.
Lasciamo perdere. E pensiamo al da farsi per il voto che ci sarà, quando farà comodo al governo. La raccolta delle firme sui referendum istituzionali – legge Renzi-Boschi e Italicum – non ha avuto successo, ma ha comunque mobilitato centinaia di migliaia di persone, e ha fatto nascere un gran numero di comitati locali in tutto il paese. È su queste forze che dovremo contare nella campagna che sta per iniziare.
Va detto però che una campagna per la raccolta delle firme è cosa ben diversa da quella per il voto referendario. La persona che viene a un banchetto per firmare è già almeno in parte informata, o è disposta ad ascoltare e informarsi. Si ha la possibilità di argomentare le proprie ragioni e di controbattere quelle degli avversari. C’è un contatto ravvicinato che si conclude con la firma. Tutto questo in larga misura viene meno nella campagna elettorale in senso stretto. Nel 2006 votarono sulla riforma del centrodestra oltre 25 milioni di italiani (il 53,84% degli aventi diritto), e i no furono oltre 15 milioni (61,64%). Con una platea così vasta già sappiamo che non è il fine argomento giuridico a dare la vittoria. Non illudiamoci che possa far presa oltre una cerchia comunque relativamente ristretta l’illustrazione delle aporie, delle contraddizioni, delle omissioni, degli errori tecnici e di scrittura. Soprattutto quando dall’altra parte vengono argomenti rozzi che strizzano l’occhio all’antipolitica.
E allora? Bisogna far passare il messaggio che difendere la Costituzione conviene, è utile nel vivere quotidiano. Difendere la Costituzione non per il ricordo di ieri, ma per i bisogni di oggi. Partendo dalla constatazione che l’attacco è già cominciato con la riduzione dei diritti che la Costituzione garantisce – lavoro, salute, istruzione, ambiente – e la crescita esponenziale delle diseguaglianze. Le riforme in campo sono volte a consolidare e perpetuare le fratture sociali, economiche, territoriali, mettendo il bavaglio al dissenso e riducendo oltre ogni ragionevole misura la rappresentatività delle assemblee elettive. Puntano a un governo oligarchico e autoreferenziale, espressione di una minoranza che non sarà certo dalla parte dei più deboli. La vittoria del no può capovolgere questo indirizzo e aprire vie nuove per la politica italiana. La domanda è: Volete esserci e contare, tutti i giorni, e non un solo giorno ogni cinque anni, in cui votate per mettere i vostri diritti di cittadinanza in mano a chi comanda?