www.left.it, 28 febbraio 2014 Nel rumore di fondo dell’eterno pettegolezzo intorno ai nuovi potenti si è più volte ripetuto che quando Matteo Renzi è a Roma, dorme all’Hotel Bernini Bristol, dell’amico Bernabò Bocca, senatore di Forza Italia e genero di Geronzi. Quel Bocca che, intervistato da Vittorio Zincone nel settembre scorso, si scagliava contro i «divieti» dei soprintendenti, auspicava la realizzazione di due campi da golf a Capalbio e invocava il messianico intervento dei privati. Bocca è nel consiglio di amministrazione di Civita, il più grande concessionario del patrimonio culturale, dunque sapeva cosa diceva. E uno si chiede: ma quando, la sera, Renzi e Bocca si trovano a fare due chiacchere in albergo, se parlano di politica culturale, sono d’accordo o no? Tutto indica che la «profonda sintonia» che Renzi ha dichiarato di avere con la destra di Berlusconi in tema di riforma della Costituzione (sic!), vige anche in tema di beni culturali. Il nuovo presidente del Consiglio ha detto più volte di voler abolire le soprintendenze («Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?», così nel suo libro Stil novo, a p. 23), e, nella manciata di parole che ha dedicato alla cultura in chiusura del comizio di paese con cui ha chiesto la fiducia al Senato il 24 febbraio, è riuscito a dire solo che «se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati». Anche da questo punto di vista, il governo Renzi-Alfano si pone in perfetta continuità con quello Letta-Alfano. Alla vigilia della sanguinosa staffetta che lo ha cancellato, Enrico Letta aveva presentato Impegno Italia, sedicente manifesto di una svolta possibile. L’unico punto dedicato alla «cultura» (il 41esimo, su 50) prevedeva di «rafforzare la gestione economica dei beni artistici e culturali. Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati». Se si ricorda che il presidente di Civita si chiama Gianni Letta, si comprenderà forse perché il governo Enrico Letta avvertisse questa urgenza. Ma il problema va ben oltre il contingente conflitto di interessi. Infatti, il documento di Letta è stato fatto proprio dalla direzione Pd che lo ha defenestrato, ed è proprio quella l’unica cosa detta da Renzi al Senato. Una vera telepatia unisce dunque Renzi a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva «il vicedisastro» e «una delusione continua», e che ora ha messo alla guida del ministero per i Beni culturali, pardon al ministero del Petrolio. Intervistato dal Sole 24 Ore all’indomani della nomina, Franceschini non ha infatti trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: «Penso che il ministero della cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo». E ancora: «La cultura è il nostro petrolio». Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d’occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: «Dario Franceschini = Dir frasi canoniche». Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: «Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica». Partiva allora il tormentone dei “giacimenti culturali”, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: «I Paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali Paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa». La politica culturale, ancora una volta, non cambia verso. |