la RepubblicaFirenze, 17 maggio 2017
CI sono almeno due aspetti nella incredibile vicenda della colata di cemento porta-cessi che deturpa lo spazio sacro all’ombra del quercione di Barbiana.
Il primo non ha a che fare specificamente con don Lorenzo, ma parla della nostra povera Italia del 2017. Un’Italia che non ha amore per se stessa. Un’Italia ricca e ignorante: inchiodata al presente, senza conoscenza del passato e senza desiderio di futuro. Un’Italia che sacrifica i suoi beni comuni non rinnovabili sull’altare degli eventi, della visibilità mediatica, di un ritorno effimero calcolato su poche ore. Un terreno cementificato ci mette duemila anni per tornare vivo. E un paesaggio sfigurato è un’eredità che toglie ogni scelta a chi viene dopo di noi.
Il paradosso è che l’unica voce davvero forte che si sta battendo contro questo consumismo del creato è proprio quella di Papa Francesco: nel cui nome ora si cementifica Barbiana!
L’Istituto per il Sostentamento del Clero ha agito senza chieder nulla alla Fondazione che custodisce e fa vivere esemplarmente Barbiana. E l’ha fatto perché è ‘padrone’ del terreno. Ma il Papa ha detto a più riprese: «Siamo custodi, non padroni del creato!». Mentre «padroni in casa propria» è stato lo slogan ufficiale (letteralmente) di tutte le ultime leggi del cemento: dalla Legge obiettivo di Berlusconi (2001) allo Sblocca Italia Renzi-Lupi (2014).
E Francesco ha anche scritto (nella enciclica Laudato sii) che non si può modificare l’ambiente senza il consenso di chi ci vive: «Nel dibattito devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato. Bisogna abbandonare l’idea di “interventi” sull’ambiente, per dar luogo a politiche pensate e dibattute da tutte le parti interessate. La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità».
Esiste poi anche lo Stato italiano: e c’è davvero da stupirsi dell’accondinscendenza della Soprintendenza di Firenze, perché mettere lì dei cessi, è – sul piano culturale – come metterli in mezzo al piazzale dei Uffizi, o sull’arengario di Palazzo Vecchio. Forse sarebbe il caso di emettere un provvedimento, in autotutela, che revochi i permessi e ordini la rimessa in pristino dei luoghi. Prima che sia un tribunale, a farlo. E poi c’è un secondo aspetto, tutto milaniano. Diciamocelo chiaro: c’è una parte della gerarchia della Chiesa italiana che non avrebbe proprio nessuna voglia di riabilitare don Milani.
Ora tutti piegano la testa al Papa evangelico, in un nuovo conformismo ipocrita. Ma sotto l’ossequio carrieristico covano sentimenti del tutto contrari: anche a Firenze, come è ben noto. E allora è impossibile non leggere una specie di perfida, subdola rivincita nell’idea di mettere dei cessi esattamente nel luogo dove don Milani faceva scuola.
E di farlo – nel più perfetto stile curiale – coprendo il sapore del veleno col miele della celebrazione postuma. Come avrebbe risposto don Lorenzo? Nessuno lo sa, e nessuno può permettersi di dirlo. Ma sappiamo cosa ha scritto. Per esempio, che alla scuola di Barbiana: «non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva polemica su questo punto. […]. Lucio che aveva trentasei mucche nella stalla (da sconcimare ogni mattina) disse: ”La scuola sarà sempre meglio della merda”».
Ecco, oggi mettiamo la merda esattamente al posto della scuola. Vorrà dire qualcosa?