«Qualche sera fa in una trasmissione televisiva è stato intervistato un uomo che vive in quei luoghi [Rosarno]. Gli veniva chiesto che cosa pensasse della sua situazione. Con tono pacato e in un impeccabile italiano ha detto soltanto: "Ho perduto la speranza". No, questa non può essere la società nella quale accettiamo di vivere». La Repubblica, 17 giugno 2016
Come queste diverse dimensioni possano comporsi e intrecciarsi non è questione facile, che tuttavia non può essere affrontata con le categorie abituali. Se si considera proprio il rapporto centro/ periferie, non ci si può semplicisticamente rifugiare nello schema borghesia/classe operaia, la cui inadeguatezza è rivelata, ad esempio, dalle analisi sui votanti per il Movimento 5Stelle — prevalentemente giovani, con notevole scolarizzazione, professionalmente caratterizzati. Si potrebbe essere tentati di concludere che siamo di fronte ad una nuova incarnazione di quello che Paul Ginsborg, considerando l’opposizione al berlusconismo nel primo decennio di questo secolo, definì “ceto medio riflessivo”. Ma rispetto a quelle esperienze, peraltro difficilmente riconducibili tutte al medesimo denominatore, finora sembrano mancare la consapevolezza di agire come unico gruppo sociale, l’esercizio comune e organizzato di virtù civiche pubblicamente contrapposte al malgoverno.
Sono i paradossi di una situazione che ha visto proprio il disconnettersi tra politica e società, con una ossessiva ricerca del bene assoluto della decisione che travolge ogni altra esigenza e porta verso una concentrazione oligarchica del potere. Così stando le cose, ogni rifiuto dell’oligarchia diviene un segno importante per la permanenza della logica democratica. Si è giustamente detto che la democrazia rischia di ridursi da “due a uno”, identificata con chi detiene il potere di governo in un momento determinato, sì che l’alternativa viene poi presentata come impossibile o addirittura come pericolosa. Il voto del 5 giugno deve essere considerato anche da questo punto di vista, dunque come una indicazione per un recupero della pienezza della democrazia.
L’esistenza della società si fa ancora più evidente se il voto delle periferie, ma non di queste soltanto, viene considerato anche come l’espressione di un disagio sociale sempre più diffuso, che ha la sua origine in un impoverimento non soltanto economico, ma derivante da una riduzione dei diritti. Commentando proprio i risultati elettorali, Piero Ignazi ha giustamente richiamato l’attenzione su una strategia che restringe l’attenzione per i diritti a quelli “libertari” e ignora quelli sociali. Strategia non nuova, nella quale si coglie una illusione “compensativa” di cui le vicende storiche hanno mostrato l’infondatezza e che contrasta con l’ormai riconosciuta indivisibilità dei diritti. Quando ci si domanda se sia ricominciata una stagione dei diritti, com’è avvenuto dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, non si possono dare risposte che prescindano da uno sguardo d’insieme, dunque da una considerazione primaria anche dai diritti sociali.
Lavoro, salute, istruzione, abitazione e trasporti ci portano nel cuore della vita quotidiana, dove il rapporto tra i cittadini e le istituzioni viene percepito nella sua materialità. Qui il ritorno ad una contrapposizione tra società e individui può produrre politiche che portano ad una distribuzione delle risorse non solo a pioggia (o, come ora si dice, lanciate da un elicottero), ma che poi si traduce nell’abbandono di razionali strategie politiche e si affida ad un individualistico “fai-da-te” affidato a bonus, contributi, benefici occasionali. Ma così non si recupera la fiducia dei cittadini, ma si istituzionalizza una loro condizione di dipendenza, con inevitabili conflitti tra gruppi per la spartizione di risorse scarse, In questo senso il voto dei cittadini continuerà ad interrogarci, perché ciò di cui parliamo si chiama eguaglianza, dignità, solidarietà. L’Europa distoglie il suo sguardo, e Andrea Bonanni ha ben raccontato le ragioni di una rinuncia a politiche costituzionali dei diritti nella quale il populismo ha trovato e continua a trovare il suo alimento.