». il manifesto, 6 novembre 2016 (c.m.c.)
Era un Matteo Renzi che nella sua second life vuole essere Carlo Conti, e l’accoppiata Boschi-Nardella che gioca a chi le spara più grosse con risultati spassosi, gli unici momenti effervescenti della seconda giornata della Leopolda si vivono in piazza San Marco. Qui, a chilometri dalla vecchia stazione, il migliaio di movimentisti che hanno raccolto l’appello “Firenze dice No” cerca di avviare comunque un corteo, vietato dalla Questura che per l’occasione ha fatto le cose in grande: 800 agenti presidiano la kermesse renziana, altre centinaia in assetto antisommossa bloccano ogni pertugio che da San Marco porti anche lontanamente in direzione della Leopolda.
La missione impossibile di andare perlomeno in direzione del Duomo si risolve in cinque, dieci minuti di tensione. Da una parte i manifestanti, a volto scoperto per il 99%, che gettano arance, mandarini, ortaggi e qualche sasso verso le forze dell’ordine, con fumogeni e petardi a fare da contorno. Dall’altra parte si risponde con due, tre robustissime cariche a suon di sfollagente, e un bel po’ di lacrimogeni che fanno tanto atmosfera. Risultato: tre agenti contusi, altrettanto ammaccati una ventina di giovani manganellati, un singolo fermato. «Scontri drammatici», titolano i telegiornali a reti unificate. «Prove generali della nuova democrazia dopo la riforma costituzionale?», annota Nicola Fratoianni di Sinistra italiana.
Ecco la manifestazione vista con gli occhi del sindaco Nardella: «Manifestare il dissenso è un diritto, sfasciare una città è ignobile e inaccettabile«. Lo «sfascio della città» non esiste: il corteo si incammina poi verso piazza Santissima Annunziata – unico luogo permesso dalla Questura per manifestare – e da lì si dirige verso l’Arno passando per piazza d’Azeglio, Sant’Ambrogio e Borgo la Croce. Vie dello shopping, illuminate e con tutti i negozi aperti. E intatti. La manifestazione si chiude di fatto in piazza Beccaria, quando comincia a piovere troppo forte e il caotico traffico del sabato, a stento bloccato per qualche minuto dai vigili, esonda come l’Arno del 4 novembre 1966.
Di fronte al giochino pomeridiano della Leopolda – le “Bufale del No” – condotto dal duo Boschi-Richetti e con i quattro prof del Sì (Ceccanti Minelli Vassallo Clementi) a far la parte del notaio Peregrini, non c’è da stupirsi che fra il pubblico sia tutto una smanettare di smartphone, per vedere in streaming cosa sta succedendo fuori. Nondimeno l’ineffabile ministra Boschi offre autentici pezzi di bravura: «Meglio cinque minuti in più per leggere il nuovo articolo 70 della Costituzione, e cinque anni in meno per approvare una legge». I bastonati dal jobs act, dalla legge Fornero e dalle altre leggine approvate anche dal Pd a tambur battente, dal fiscal compact al pareggio di bilancio in Costituzione, si sentiranno presi per i fondelli. Ma tant’è.
Ancora Maria Elena Boschi superstar, in risposta alla molto presunta “bufala” secondo cui la riforma sarebbe stata scritta sotto la spinta delle banche d’affari: «Il referendum è decisivo. La riforma la scriviamo noi, cittadini e cittadine, non gli speculatori e i banchieri». Evidentemente, per Boschi, l’ormai celebre report di Jp Morgan sulle costituzioni troppo “socialiste” dei paesi del Mediterraneo è solo un fake, messo in giro da chi non ama il governo. Gran finale sulla legge elettorale: «Dopo che non si faceva da dieci anni, noi ci siamo riusciti».
L’allieva Boschi non riesce comunque a superare il maestro Renzi, che doveva parlare solo la domenica ma si è subito accorto che la kermesse stentava. Di qui la decisione di salire sul palco già nella serata di venerdì, per accontentare una platea di umore ben diverso rispetto agli anni dell’assalto al cielo di Palazzo Chigi. Il bis in apertura della sessione “costituzionale”, con l’immancabile attacco alla minoranza Pd: «Sono tanti quelli che l’hanno votata, e poi hanno cambiato idea…». Come lui con la tramvia (nemmeno mezzo metro in cinque anni da sindaco…), quando accusa la sindaca romana Raggi «di bloccare le metropolitane, le tramvie, di bloccare il paese».
Prigioniero della sua immagine allo specchio, l’inquilino di Palazzo Chigi batte e ribatte sullo stesso tasto: «Per ripartire bisogna cambiare la Costituzione». E via con gli interventi di “imprenditori, professionisti, studenti” che magnificano l’opera riformatrice del governo e innalzano il mantra: «Cambiamento, cambiamento, cambiamento». Del resto, se fino ad oggi ha funzionato, perché non continuare?