La Repubblica, 24 giugno 2016 (c.m.c.)
Valutando i risultati dei ballottaggi, Matteo Renzi ha voluto subito sottolineare che la capacità attrattiva dell’M5S dipendeva dal fatto che era stato percepito come soggetto del “cambiamento”. Ed ha aggiunto che da questo portava con sé la conclusione che il governo doveva insistere con ancor maggiore determinazione sulla strada delle “riforme”.
Ma proprio le parole adoperate per una diagnosi così sbrigativa mostrano gli equivoci politici che la caratterizzano e l’intenzione di sfuggire alle domande più stringenti che le elezioni hanno proposto.
Non si può certo dimenticare il fatto che il Presidente del Consiglio ha sempre insistito in maniera martellante proprio sul cambiamento che il suo governo avrebbe già determinato in tutte le materie più significative.
Perché l’opinione pubblica non ha dato rilievo a questo fatto proprio nel momento in cui il governo si presentava al giudizio dei cittadini? Non credo che ci si possa rifugiare nell’argomento del difetto di comunicazione, visto che proprio la comunicazione ha costituito l’ossessione di Renzi, sì che si potrebbe, se mai, addirittura azzardare l’ipotesi che la sua presenza in ogni luogo e in ogni tempo, il suo tono perennemente assertivo abbiano provocato una reazione di rigetto da parte degli elettori.
Se, però, si ragiona seriamente sull’accoppiata “cambiamento”/” riforme”, diventa più aderente alla realtà la conclusione che vede nel voto amministrativo il rifiuto del cambiamento incarnato dalle politiche governative. Due cambiamenti a confronto, dunque, uno dei quali prospetta un cambio di passo.
Non facile, perché la dimensione locale non rende agevole la messa a punto di politiche che abbiano in qualche modo un significato alternativo rispetto a quelle governative. Ma pure con gli interventi consentiti dalle specifiche competenze dei comuni è ben possibile dare concreti e visibili segnali di un diverso modo di selezionare le domande sociali, di determinare priorità corrispondenti agli interessi e ai bisogni che sono state rese visibili dal voto.
Due sono le dimensioni da prendere in considerazione. Riferimenti come quelli alla trasparenza, alla partecipazione, alla legalità dell’agire pubblico hanno trovato un denominatore comune nel rifiuto di ogni logica oligarchica, che non è solo un retaggio del passato, ma il tratto caratteristico del modo in cui si sono venuti organizzando i partiti. Qui si coglie la spinta a ripensare le forme del rapporto tra i cittadini e la politica, anzi la stessa cultura politica.
Non è una esigenza astratta. Le oligarchie producono un duplice effetto di esclusione — delle persone legittimate ad aver voce effettiva nella politica e delle domande sociali da prendere in considerazione.
Le riforme del governo Renzi sono profondamente segnate da questo duplice limite, del quale le persone hanno potuto direttamente misurare il peso considerando la subordinazione dei loro diritti sociali al primato attribuito al calcolo economico. Di questo, di un nuovo protagonismo delle persone e dei loro diritti hanno cominciato a rendersi conto diversi tra i commentatori dei risultati elettorali, con riferimenti e parole che, come eguaglianza e solidarietà, rinviano a una diversa idea di società.
Anzi, mostrano come la certificata morte della distinzione tra destra e sinistra abbia avuto come esito politico una ideologizzazione ben orientata, che ha attribuito alla logica di mercato le sembianze di un invincibile diritto naturale. Sottolineare questo dato di realtà non significa invocare uno sguardo rivolto al passato, il recupero di vecchie categorie. Pone la ben diversa questione di costruire il futuro secondo principi e diritti nei quali ci si possa comunemente riconoscere.
Poiché un altro dei luoghi comuni che hanno afflitto, e ancora affliggono, la discussione italiana, è rappresentato da una contrapposizione schematica tra conservatori e innovatori, bisogna pur ricordare che non basta proporre un qualsiasi cambiamento per essere automaticamente ascritti alla benemerita categoria degli innovatori. È indispensabile individuare i criteri necessari per valutare la compatibilità del cambiamento con libertà e democrazia. Non vi è dubbio che, altrimenti, dovremmo attribuire a Donald Trump la medaglia dell’innovatore.
I risultati elettorali dovrebbero spingere a una riflessione in questa direzione, non solo per ricondurre alla rilevanza dei criteri costituzionali le politiche di riforma di nuovo promesse, ma per valutarne l’effettivo carattere innovativo. Proprio considerando i valori di riferimento, ben può dirsi che in Italia (e non solo) si sia venuto costituendo un blocco sociale fondato sul primato di interessi e ceti che concretamente revocano indubbio la rilevanza primaria di eguaglianza e solidarietà.
Una politica così fatta assume le sembianze della restaurazione, e non può essere definita che conservatrice. A questa conclusione, consapevoli o no, giungono molti commentatori di questi giorni che insistono sui guasti drammatici della diseguaglianza, senza dire una parola sul fatto che questa diseguaglianza non nasce da dinamiche incontrollabili, ma è l’effetto di politiche deliberate, perseguite con determinazione pari all’arroganza.
Poiché, tuttavia, il perno di una rinnovata stagione di riforme è, per quasi quotidiana insistenza del Presidente del Consiglio, quella legata alla riforma costituzionale, anche questa deve essere valutata considerando i criteri che i risultati elettorali suggeriscono.
La confusione è massima, perché la debolezza culturale del ristrettissimo ceto di governo ha messo spietatamente in luce l’uso strumentale delle istituzioni. Dopo aver personalizzato al massimo la campagna referendaria, ora Matteo Renzi sembra incline a seguire altre strade, non perché si sia reso conto degli effetti distorsivi della trasformazione di un referendum in plebiscito (altro palese segnale conservatore), ma per una convenienza elettorale che non può distogliere da una valutazione nel merito della riforma e della sua innegabile connessione con la legge elettorale.
Proprio l’invocata discussione sul merito si sta rivelando impietosa. Ricordo, da ultimo, l’analisi di Ugo De Siervo, che non mostra soltanto con chiarezza come la sbandierata semplificazione del procedimento legislativo sia contraddetta dalla farraginosità delle procedure previste, ma sottolinea anche l’alterazione di delicati equilibri e prerogative costituzionali.
Vengono pure rafforzati i meccanismi di esclusione, come accade con l’eccessivo accentramento delle competenze statali rispetto a quelle delle regioni, che evoca la riduzione della rappresentanza dei cittadini prevista dall’Italicum (ancora un tratto conservatore). Proprio l’analisi puntuale, di dettaglio, fa così emergere “gravi rischi di un complessivo peggioramento della nostra democrazia”.
Questo è il contesto nel quale si svolgeranno le discussioni dei prossimi mesi. I risultati elettorali lo hanno reso più chiaro, hanno individuato poteri e responsabilità delle diverse forze politiche, che devono esser ben consapevoli anche della necessità di non farsi incantare da un altro argomento che viene speso nella discussione pubblica, secondo il quale, poiché non si toccano formalmente articoli del prima parte delle Costituzione, i principi e diritti lì considerati non correrebbero rischi.
Non è così. Poiché la garanzia dei diritti è affidata alle leggi, nel momento in cui in cui queste vengono variamente manipolate, la soglia di quelle garanzie si abbassa. La discussione dei dettagli della riforma si fa giustamente impietosa, non può dar spazio a convenienze di breve periodo. Se si incrina il patto fondamentale tra i cittadini, la convivenza civile, la buona politica, il reciproco riconoscimento tra i cittadini diventano sempre più difficili.