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Alberto Statera
L’ultimo sacco di Venezia
2 Dicembre 2005
Terra, acqua, società
Manovre in Laguna. Da la Repubblica del 1 dicembre. 2005

L’evoluzione della specie si compie in Laguna. In principio fu la razza padana, il prode Chicco Gnutti, Telecom, la madre di tutte le privatizzazioni, la pasticceria-cult Zilioli di Brescia, le Mille Miglia su auto d’epoca. Poi vennero i furbetti del quartierino, uno straordinario mix di caratteristi che, incedendo da Nord Ovest a Nord Est, esondò su Padova con il tentativo di scalata all’Antonveneta, ma con baricentro romano. I baci in fronte al governatore della Banca d’Italia, le coccole telefoniche alla sua signora, l’impagabile Stefano Ricucci che in un consesso di avvocati parrucconi, tenero, esclamava: «Aho, ma che state a fa’ i fro. col cu. degli altri?». Cioè il suo. Alfine, sempre più a Est, la compagnia di giro si evolve, si scompone, si ricompone con protagonisti vecchi e nuovi. Non sono più i tempi di Volpi e Cini, della Sade, quando in Borsa a Piazza Affari si diceva: «Aspettiamo di vedere cosa fanno a Venezia». Sono duecento anni che Venezia è in decadenza, ripeteva Bruno Visentini, uno degli ultimi grandi veneziani. E Cesare Merzagora annuiva dal suo appartamento al Gritti. La contessina Tiepolo, a chi le chiedeva da quanti anni abitasse a Venezia rispondeva: «Da mille anni». Ma in Laguna da qualche mese sono sbarcati tutti, ma proprio tutti.

Immobiliaristi, palazzinari, architetti, finanzieri di primo e secondo pelo, speculatori, grandi gruppi, piccoli gruppi aggressivi e/o avventurosi.

Porta d’ingresso i monconi di base del nuovo ponte di Calatrava che giacciono da mesi e mesi a far patelle in attesa della geniale struttura di cui si son perse le tracce, o l’eterno suk del Tronchetto, il parcheggio d’ingresso i cui gestori quando non si suicidano falliscono. Vengono in tanti per far che? Per candidarsi al ruolo di mecenate invocato dal sindaco Massimo Cacciari, che non ha più una lira in cassa, vessato dai tagli di Berlusconi e Tremonti? Figurarsi. O per partecipare, piuttosto, all’ultimo presunto business che offre l’Italia in corsa verso la deindustrializzazione, che si chiama opere pubbliche, trasporti, restauri, ristrutturazioni, calcio, scommesse e turismo? Va chiesto, necessariamente, a Enrico Marchi, l’uomo che da Venezia pensava di essere ormai così forte da poter sfidare quelli che qui ancora chiamano i poteri forti e di diventare grande sulle spoglie di Cesare Romiti.

Nato a Conegliano, classe 1956, laurea alla Bocconi in Economia aziendale, giovane liberale con Giancarlo Galan, ex Publitalia e presidente della Regione Veneto e con Niccolò Ghedini, ringhioso legale padovano di Berlusconi, quando si parlava di Benedetto Croce esclamava: «Balle, l’importante è essere anticomunisti».

Portato alla presidenza dell’aeroporto di Venezia, il terzo d’Italia per traffico, dal suo amico governatore al posto dell’ex vicesindaco comunista Gianni Pellicani, se ne compra un pezzo con la Finint, la finanziaria coneglianese di cui è titolare con il suo socio Andrea De Vido, che ha fatto soldi con la «securitisation», la cartolarizzazione dei crediti. Ufficio megagalattico sulla pista di Tessera, amicizia inossidabile con l’amministratore delegato delle Generali Giovanni Perissinotto, potere forte, il ragazzo di Conegliano in gessato, dopo aver fatto posare un favoloso parquet nella nuova aerostazione veneziana, pensa che sia arrivato il momento di attaccare il «salotto buono».

La ricca provincia contro il vecchio establishment. E con i soldi della quotazione in Borsa della Save assalta la Gemina, pensando di sfilare ai Romiti gli Aeroporti di Roma perché - dice - «basta col Nordest che ha la pancia piena, ma preferisce lamentarsi piuttosto che mettersi in gioco». Mal gliene incolse. Romiti chiama a difesa i Benetton, con ormai interessi più che nelle maglie, oltre che nelle autostrade, negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie, i quali per questioni pregresse, per di più, non possono soffrire il coneglianese. Così adesso Marchi, non avendo i soldi e le alleanze per fare un’Opa, si trova sul groppone 160 milioni di euro, o giù di lì, di azioni Gemina, epigono di Ricucci con il «Corriere della Sera».

Romiti fa sarcasmo: «Trattative con Marchi? Sono nelle mani di Dio».

Cambia scena: Sant’Angelo di Piove di Sacco, piatta, desolata campagna veneta sotto la neve, un incubo, una casa un capannone, una casa un capannone.

In una casa, con vicino il capannone dove si commercializzano scarpe Simod, all’ingresso una signorina risponde al telefono: «Qui Alpi Eagles, dica».

Incede il titolare della compagnia aerea e del marchio di scarpe, oltre che presidente di Veneto Sviluppo, finanziaria regionale che fa maggioranza nella Save con Marchi, contro gli altri due azionisti pubblici, Comune e Provincia di Venezia. Spiccata somiglianza con Renato Pozzetto, maglione giallo canarino, Paolo Sinigaglia, che è anche azionista con l’8 per cento del «Gazzettino», conteso tra Francesco Caltagirone e i Benetton, ed è stato sostenitore di Fiorani nella fallita scalata all’Antonveneta, al suo socio coneglianese che vuol diventare il padrone di Venezia non la manda a dire: «Tutte storie di pigmei veneti, diciamolo. Marchi che scala Gemina? Mai saputo niente, si è fatto tutto da solo. Un prevaricatore che vuol fare il finanziere con la Save, cioè con una società pubblica, non come me che mi guadagno "scheo su scheo"». Furbetti della laguna? Il dente è avvelenato per l’Alpi Eagles, in difficoltà perché - dice il patron - tutte le sue tratte sono state «francobollate» (copyright Sinigaglia) da Volare.

Cos’è Volare? Una specie di piccola Parmalat dei cieli, con bilanci truccati che hanno portato a un crac da 500 milioni di euro e all’arresto di sei manager, tra cui Mauro Gambaro, già direttore di Interbanca, banca d’affari dell’Antonveneta creditrice e azionista della compagnia aerea, partecipata dal Fondo Tricolore, società costituita con soldi di Ligresti e Generali e amministrata, guarda un po’, dalla Finint di Marchi e De Vido.

Chissà se Perissinotto, azionista di Finint e per il quale Volare è stata solo uno sfortunato «cippino», è più tanto felice delle performance del suo amico coneglianese, poco incline all’austerità triestina e non molto ben visto da altri soci di Mediobanca.

Se le spoglie aeroportuali romitiane sono un osso duro, quelle marittime sono già passate di mano. Il ruolo di Impregilo nella progettazione e nella realizzazione dell’odiato (da Cacciari e Verdi) Mose, le dighe alle bocche di porto contro l’acqua alta, è stato preso dalla Mantovani, impresa di riferimento del governatore Galan, il quale, noto bon vivant, in questi giorni è in Kenya, probabilmente con il suo portavoce Franco Miracco, ex collaboratore del «Manifesto», che non può riportarne la voce perché i suoi telefonini tacciono sempre. Proprietario della Mantovani è Romeo Chiarotto, fedele dell’ex ministro della prima repubblica Carlo Bernini, arrestato a suo tempo nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti di Autovie Venete, vicepresidente dell’Antonveneta nella breve gestione Fiorani e perciò membro autorevole del ramo veneto dei furbetti. Ma il vero mister Appalto si chiama Piergiorgio Baita, presidente della Mantovani. Anche lui arrestato, e poi assolto, ai tempi di Tangentopoli, ora si candida anche per costruire il nuovo palazzo del cinema al Lido, per il disinquinamento di Marghera e per qualunque altra opera veneziana. Ma non si può dire che non abbia concorrenti. A Ca’ Farsetti il sindaco filosofo, sempre più filosofo, subisce l’assedio quotidiano di Arrigo Poletti e Lorenzo Marinese, della Pio Guaraldi, che non solo si sono presi il Calcio Venezia, per il quale progettano il nuovo stadio, ma vogliono fare un centro direzionale e parcheggi intorno all’aeroporto, accerchiando il povero Marchi, che invece vuole una nuova pista e non vuol pagare 130 milioni di euro per comprare i loro terreni. Poi c’è Francesco Caltagirone, questa volta Bellavista, che ha appena restaurato il Molino Stucky, appartamenti e mega-Hilton, e ora vuol fare un passaggio sotto il mare tra la Giudecca e le Zattere. Paga lui, 30 milioni. Laura Fincato, assessore all’ambiente, si chiede: «Perché?». Fa gola a tutti l’ex Arsenale, un’area immensa da cui l’ultimo bastimento prese il mare nel 1920. Ma la new entry più clamorosa nella scena lagunare, ormai affollata come piazza San Marco in una sera d’agosto, è quella di Giancarlo Elia Valori, ex presidente della società Autostrade liquidato un po’ bruscamente dai Benetton, ora presidente della Torno dell’italo-argentino Carlos Bulgheroni. Avendo comprato la talpa per scavare la nuova linea della metropolitana di Milano, Giancarlo Elia vuole mettere a frutto l’investimento e realizzare la Sublagunare, un tubone sottomarino del diametro di quattro metri che dovrebbe unire in 12 minuti Tessera all’Arsenale, con fermate intermedie a Murano e Fondamente Nuove. Costo 367 milioni di euro, di cui 190 a carico dello Stato.

Grande opera? Minuscola rispetto a quella che propone a Cacciari la Soles Spa, impresa forlivese del gruppo padovano Solfin. Il Mose? Macchè. Meglio sollevare di due metri tutti i palazzi di Venezia, iniettando a pressione pali in ferro pieni di calcestruzzo sotto ogni edificio a o gruppi di edifici.

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