Se il 2006 doveva essere l'anno della svolta per Venezia, la svolta non c'è stata. È stato l'anno del Mose, della polemica con Roma sul cinema, dell'avvio del nuovo Palazzo del Lido, della riapertura di Palazzo Grassi e del dibattito culturale e politico sul futuro di Punta della Dogana, ma non è stato ancora l'anno del ponte di Calatrava (questione di giorni). Come dire: tutti i progetti importanti sono arrivati da fuori. Il Mose l'hanno voluto i governi di centrodestra e centrosinistra, per riaprire Palazzo Grassi c'è voluto Pinault e per Punta della Dogana, se non sarà Pinault, toccherà comunque a una cordata non veneziana, guidata dalla Guggenheim. Aeroporto e Porto hanno visto aumentare i loro traffici, ma i trasporti locali soffrono ancora del sovraccarico dei turisti. Si sono messe le basi per ristrutturare il Tronchetto, per il people mover, per il tram e per un nuovo parcheggio in Marittima, ma la mobilità delle persone e la distribuzione delle merci in centro storico non sono ancora state riorganizzate. Che fine ha fatto il vecchio piano sulla logistica? Quando partiranno i nuovi terminal di Fusina e Tessera che toglieranno il centro storico dalla dipendenza dal Ponte della Libertà, l'unico cordone ombelicale che tiene unite la città di mare e la città di terra? È stata avviata la raccolta differenziata, ma c'è ancora chi differenzia a modo suo, gettando le immondizie in canale dalla finestra di casa o chi intende il porta a porta come portare i rifiuti davanti la porta di casa del vicino. Ciascuno può vedere con i propri occhi e giudicare quello che è stato fatto, quello che non è stato fatto e intuire quello che si farà. Ma Venezia non è solo progetti visibili, non è solo eventi, feste e cultura. Il 2006 non è stato l'anno della svolta perché non basta un'opera o un progetto per cambiare marcia, non si può fissare la svolta su una data del calendario. Il vero male di Venezia in realtà serpeggia sotto e sembra muoversi come i topi nelle calli, strisciando lungo i muri. Per questo male ci vuole una cura lunga che ancora non si vede. Nei giorni che hanno preceduto le festività natalizie, passeggiando per il centro storico, si transitava in calli e campi pressoché deserti. È la conferma che la vita e la vitalità di questa città dipendono dai turisti. Si sapeva, ma scoprirlo "sul campo" fa sempre un certo effetto.
Di nuovo c'è che nel 2006 è parso di respirare una rassegnazione crescente da parte dei veneziani. Le solite battaglie - contro il moto ondoso, contro lo spopolamento, contro la deriva turistica - paiono combattute da un esercito logoro e in disarmo.
Se nessuno - cittadino o istituzione - reagisce quando un hotel trasforma in camere appartamenti destinati all'edilizia residenziale; se nessuno si domanda perché mai i veneziani, con operazioni urbanistiche non accompagnate da trasformazioni sociali, dovrebbero rassegnarsi a trasferirsi ai margini della città (Santa Marta, Celestia, Giudecca) perché i sestieri centrali ormai territorio di seconde case e bed & breakfast; se nessuno si chiede di chi è la responsabilità di decine e decine di milioni di euro di legge speciale (soldi pubblici) elargiti in 30 anni anche per fermare l'esodo demografico ed economico, ma evidentemente spesi male o non spesi, visto che la città si spopola di residenti e imprese; se nessuno si domanda come mai la Curia sente il bisogno di ricorrere al microcredito, come avviene nei Paesi del terzo mondo, per sostenere un numero sempre maggiore di famiglie del ceto medio che non ce la fanno ad arrivare a fine mese; se nessuno si domanda perché, con due Università prestigiose, è difficile che un giovane dopo la laurea si fermi a vivere e lavorare in questa città; se tutto questo è stato assimilato come un male con cui ci si abitua a vivere, tanto vale invocare che qualcuno stacchi la spina.La soluzione ai problemi del turismo non può essere qualche tabellone con il decalogo dei comportamenti lasciato marcire attorno a Piazza San Marco, nè qualche commovente e stoico appello gracchiato sui vaporetti che invita a tenere pulita Venezia. In città si sprecano i dibattiti, ma nel luogo dove il dibattito viene istituzionalizzato - il consiglio comunale - si discute sempre meno. Le decisioni che contano, anche per come è fatta la legge sulle amministrazioni locali, vengono adottate spesso in giunta o con determine dirigenziali che a volte risultano sconosciute anche agli stessi assessori. E certe riunioni di Municipalità assomigliano più a reality show che a palestre di buongoverno. Sperare in una svolta che arrivi dalla società civile sembra un'utopia. La classe degli intellettuali locali invecchia, si assottiglia con il tempo e somiglia a un club di Cassandre. Quella economica è proiettata all'auto-conservazione. Decenni di turismo di bassa qualità hanno prodotto un ceto imprenditoriale su misura - le tanto invocate "categorie" - frammentato, blindato con logiche corporative e qualitativamente livellato verso il basso, salvo rare eccezioni. Il connubio tra cervello e portafoglio, tra capacità intellettuale e capacità imprenditoriale, si è spezzato da anni. Chi dice che a Venezia manca una classe dirigente e imprenditoriale ha però ragione a metà e compie l'errore di guardare solo al di qua del ponte. Perché la vera classe dirigente cittadina ormai è a Mestre, figlia di quei veneziani emigrati in terraferma, dove si sta formando una generazione di imprenditori e professionisti, che però sono pur sempre veneziani. Se è vero che la città è una e indivisibile, uno dei semi della rinascita ce l'ha già al suo interno. Davide Scalzotto