Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo.
Il manifesto, 12 dicembre 2014
Lo sciopero generale contro il Jobs Act e più in generale contro la legge di stabilità, mette in luce la fallimentare politica economica del governo che asseconda la deriva liberista del “capitalismo scatenato”, come, una diecina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn definiva la nuova fase del capitalismo. Una risposta allo spostamento nella distribuzione dei redditi a favore del lavoro registrato negli anni sessanta-settanta.
Da allora ripristino della disciplina macroeconomica, privatizzazioni, incoraggiamento delle forze di mercato, focalizzazione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pilastri di una feroce controffensiva: il conflitto distributivo ha cambiato segno, e, per l’effetto congiunto di minore e peggiore occupazione e di più bassi salari reali, la quota di reddito che va al lavoro è costantemente diminuita.
Quell’offensiva del capitale, che oggi tocca livelli prima impensabili in Italia, non si limita a riportare indietro le lancette della storia per tornare alla situazione preesistente. Se così procedessero i processi storici troverebbe legittimità la teoria del pendolo: uno spostamento dei rapporti di potere eccessivo ad un certo punto si ferma e si mettono in moto le forze che spingono in direzione contraria. Così si potrebbero leggere, in questo caso, la risposta del capitale di cui abbiamo parlato e quella che oggi cerca di dare il sindacato anche con lo sciopero. Ma la situazione reale è molto più complessa perché negli ultimi decenni è cambiato il mondo ed è cambiato lo stesso capitalismo.
La globalizzazione, la connessa Ascesa della finanza — titolo questo di un bellissimo e preveggente libro del caro Silvano Andriani recentemente scomparso — e, più di recente, la rivoluzione digitale hanno delineato un capitalismo che ha fatto un enorme salto di qualità. In questa nuova fase di un capitalismo per il quale non troviamo ancora una denominazione condivisa – oscillando dal finanzcapitalismo di Gallino al capitalismo patrimoniale di Piketty – gli elementi che emergono sono due.
Il primo è costituito dalla globalizzazione del mercato del lavoro che mette in competizione, in termini di costo, il lavoro delle economie sviluppate con quello delle economie emergenti. Gli effetti di questa nuova competizione sono bidirezionali: da un lato si sposta la produzione dai paesi ad elevato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavoratori delle aree più arretrate emigrano nelle aree sviluppate per fare i lavori più pesanti ed a condizioni rifiutate dai residenti. L’effetto di questi processi sul conflitto distributivo è, per i paesi sviluppati, quello di un abbassamento dei salari e di una riduzione dei diritti. Il secondo elemento che caratterizza questa fase è la rivoluzione digitale che ha già investito pesantemente la produzione manifatturiera e che investirà sempre di più i settori del commercio e dei servizi, pubblici e privati, riducendo la quantità di lavoro necessaria e modificando profondamente, contenuti e modalità della prestazione lavorativa.
I due elementi segnalati si intrecciano tra di loro, e contribuiscono allo stesso processo: una svalutazione del lavoro impensabile fino a pochi anni fa che si manifesta a livello sovranazionale ed agisce su un terreno senza regole come quello finanziario nel quale il capitalismo scatenato è diventato sfuggente ed inafferrabile. I processi di cui stiamo parlando non sono ancora compiuti, ma in pieno svolgimento e, quindi, le situazioni che si vivono nei vari paesi sono differenziate secondo le loro storie e secondo le modalità con le quali si stanno affrontando i processi stessi.
Non è un caso che l’area dei paesi sviluppati si articoli in tre gruppi: economie che si affacciano verso una possibile nuova fase di crescita come gli Usa, economie che hanno superato la crisi anche se non hanno ritrovato il sentiero della crescita come Germania e Nord Europa, economie che ristagnano ed indietreggiano. Questo significa che, pur di fronte ad una comune controffensiva del capitale, non è ineluttabile che i paesi più sviluppati subiscano contemporaneamente riduzioni del lavoro, riduzioni dei diritti ed indebolimento e declino delle strutture produttive. Un mix questo che può essere veramente esplosivo. L’Italia si colloca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.
Lo scontro che la agita oggi, protagonisti Cgil, Uil e governo si colloca in questo contesto e la partita appare decisiva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una mutazione che supera i confini nazionali è anche vero che le modalità scelte dal nostro governo sono di rassegnazione, al di la delle chiacchiere su speranze e futuro, ad un ridimensionamento di lavoro, diritti e futuro produttivo.
Aver fatto della subordinazione alle logiche confindustriali e dello scontro col sindacato il perno delle politiche del governo ci sta cacciando in un vicolo cieco. In Italia non dobbiamo dimenticare che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo investire, innovare ed esportare, le ricette del passato (contenimento del costo del lavoro e svalutazioni competitive), non hanno aiutato il capitalismo italiano a crescere puntando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimensione di impresa. Anche per questo, quello che abbiamo oggi di fronte è un capitalismo industriale che sa solo chiedere più libertà di licenziare, meno tasse, privatizzazioni per fare investimenti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capitalismo incapace di progettare una possibile politica industriale di investimenti, di ricerca, di nuovi rapporti produzione – università — ricerca…
Questo capitalismo non andrebbe coccolato con un po’ di spiccioli elargiti a pioggia accontentandolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma stimolato e sfidato a fare un salto di qualità. Certo questo richiederebbe un governo con una capacità progettuale, con un piano dei trasporti e della mobilità, con un piano di risanamento ambientale e del territorio, con un piano industriale ed una visione dei settori del futuro.
Ed invece noi abbiamo di fronte una classe industriale ed un governo assolutamente inadeguati alle sfide del nostro tempo. E’ in questo quadro che si colloca lo sciopero del 12. Per la complessità dei problemi di cui abbiamo parlato, non possiamo e non dobbiamo illuderci che con esso si possa fare il miracolo di capovolgere questa situazione. Ma la “politica” di questo governo e la sua “non politica” vanno contrastate e fermate. Fare questo sarebbe già tanto ed una buona riuscita delle mobilitazioni di oggi è per questo essenziale. Importante sarà, però, soprattutto il dopo.
Sarà quello che accadrà nel Pd e quello che accadrà a sinistra. Un futuro vicino, ad oggi imprevedibile, la cui direzione più o meno a sinistra dipenderà sì dall’esito dello sciopero, ma soprattutto da come sapremo ricostruire un pensiero di sinistra volto al futuro più che al passato. Ma questo, in tempi di corruzioni – degenerazione — evaporazione dei partiti — astensionismo dilagante, è proprio un altro capitolo