Il manifesto, 7 ottobre 2015
Da un lato il governo lavora per snaturare e limitare il diritto di sciopero. Esso, contrariamente alla nostra Costituzione, non sarebbe più un diritto in capo al lavoratore, ma un atto consentito solo a sindacati aventi un certo livello di rappresentanza e di consenso tra i dipendenti. Si parla del 20–30 per cento in luogo del 50 voluto da Ichino. Ma la sostanza non cambierebbe. Il grimaldello sarebbe la questione della «rappresentanza», vecchio nodo irrisolto. Solo che qui si parla di una rappresentanza rovesciata. Non quella rispetto ai lavoratori, in base alla quale si dovrebbe giungere all’ovvia conclusione che almeno gli accordi per avere validità erga omnes dovrebbero essere approvati da un voto referendario di tutti i lavoratori cui si riferiscono. E magari bocciati, come è successo recentemente alla Fca di Marchionne negli Usa. Ma quella rispetto ai datori di lavoro, ovvero la garanzia che ciò che le sigle sindacali firmano diventi per ciò stesso norma imposta a tutti, senza altri fastidi. Dall’altro lato il governo Renzi vuole scrivere di proprio pugno le regole della contrattazione.
Senza neppure il parere delle organizzazioni sindacali e della Confindustria, che comunque con Squinzi si allinea preventivamente. L’occasione sarebbe fornita da uno dei decreti delegati del Jobs Act. Qui il piede di porco sarebbe dato dalla introduzione del salario minimo legale, essendo l’Italia uno dei pochi paesi a non averlo nella Ue. Grazie a questo si cancellerebbe la contrattazione salariale nazionale e quindi si toglierebbe linfa vitale al contratto collettivo nazionale di lavoro, mentre l’incremento salariale sarebbe abbandonato alla contrattazione aziendale – per chi se la può permettere -, ma vincolato agli aumenti di produttività.
Mettendo insieme i due elementi qui descritti è chiaro che siamo di fronte alla liquidazione del diritto del lavoro – alla sua equiparazione nel migliore dei casi al diritto commerciale – e dei diritti dei lavoratori, considerati sia singolarmente che collettivamente. Al più grande e organico attacco al movimento operaio mai portato nel nostro paese. Non solo. Tutto ciò si accompagnerebbe alla aziendalizzazione del welfare state, poiché alla contrattazione aziendale verrebbe affidata anche quella per la sanità e gli altri istituti di welfare integrativi.
Intendiamoci, non è il salario minimo orario ad essere di per sé il responsabile di questa perfida costruzione. La sua introduzione in tutt’altro quadro sarebbe positiva. Anche fatta per legge, dal momento che, per parafrasare i giuristi, avverrebbe con quel «velo di ignoranza» verso la struttura contrattuale, non diventando così il pretesto per smantellarla. In effetti al giovane, o meno giovane o all’immigrato, che non è protetto da un contratto collettivo nazionale, sapere che almeno sotto un certo livello di paga non è legale scendere è un elemento di difesa. Con il pregio della universalità. Su questa base si potrebbe immaginare una riforma della contrattazione tale da ridurre gli attuali 380 contratti collettivi nazionali a quei 5 o 6 in settori fondamentali entro i quali concentrare le forza per ottenere dal punto di vista retributivo e normativo misure accrescitive, da migliorare poi in un eventuale contrattazione di secondo livello.
Di questo si parla da tempo nelle organizzazioni sindacali. In particolare per merito della Fiom. Se non se ne è venuto a capo le responsabilità, è inutile nasconderselo, sono anche interne al movimento sindacale, sia per quanto riguarda l’aspetto della rappresentanza, ove il sindacato degli iscritti modello Cisl si è scontrato con il sindacato di tutti i lavoratori mutuato dai momenti migliori della storia del movimento sindacale; sia per quanto riguarda il tema del salario minimo, ove la paura di perdere ruolo ha paralizzato ogni proposta.
Il governo ne approfitta per cercare di cancellare del tutto contrattazione e sindacato. Reagire con uno sciopero generale sarebbe necessario.