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Nadia Urbinati
La democrazia dispotica
21 Luglio 2016
Democrazia
Un'analisi delle particolari condizioni nelle quali è nata, si è sviluppata ed è degenerata la forma democratica del potere nello stato turco nell'ambito della tradizione religiosa dell'islamismo.
Un'analisi delle particolari condizioni nelle quali è nata, si è sviluppata ed è degenerata la forma democratica del potere nello stato turco nell'ambito della tradizione religiosa dell'islamismo.

La Repubblica, 21 luglio 2016, con postilla

La rapida drammatica involuzione della Turchia verso il dispotismo della maggioranza ci sveglia dal sonno dogmatico che alcuni decenni di egemonia democratica e occidentalista hanno facilitato, facendoci dimenticare che i governi fondati sul consenso non sono necessariamenti buoni. La volontà della maggioranza, anche quando radicata nella cultura nazionale, non è per questo amica dei diritti dei singoli di religione, di parola, di idee, di associazione, di insegnamento. Le resistenze dei liberali nei confronti della democrazia, se e quando questa è semplicemente governo del consenso, sono più che giustificate.

Anche le democrazie costituzionali possono presentare insopportabili pulsioni verso l’intolleranza. La moderazione ha successo se e quando la costituzione è più di un documento scritto, l’ethos che innerva il comportamento dei magistrati, dei rappresentanti politici e dei cittadini. Per attecchire come sistema di libertà, la democrazia deve poter contare su una società culturalmente aperta alle ragioni dei singoli e con una tradizione religiosa che accetti che la legge civile non sia omologata ai propri comandamenti. La debolezza dei tentativi democratici nei paesi islamici ci dice che ogni governo fondato sul consenso va giudicato non dal punto di vista dell’ampiezza del consenso ma della libertà con la quale quel consenso si forma, viene espresso e contestato. Le primavere arabe sono cadute sulla debolezza del governo della legge, che ha seguito questo tragico destino: o è diventata preda del potere religioso mediante la conquista della maggioranza parlamentare, oppure, per ostacolare o reprimere questo esito, è stata presa della forza militare. Forza della massa e forza repressiva marcano la debolezza della legge civile, e quindi della democrazia costituzionale, nei paesi islamici. Si tratta di una debolezza di laicità, cioè della cultura della separazione tra poteri e della pratica di limitazione del potere, qualunque esso sia. La degenerazione del governo basato sul consenso verso forme illiberali è connaturata a questa debolezza.

La laicità viene spesso identificata, sbagliando, con il secolarismo. Essa però non è un “ismo” o un’ideologia, ma la condizione stessa dello stato della legge e del diritto perché un’attitudine dell’autorità civile (lo Stato) verso le pratiche religiose con lo scopo di renderle capaci di convivere pacificamente con altre pratiche di natura non religiosa e di altre religioni. Laicità è un modo di organizzare la coesistenza delle libertà plurali, di far convivere persone diverse e con culture diverse. Richiede per questo l’emancipazione del diritto dalla volontà e cultura della maggioranza, la distinzione tra diritto e morale, tra opinione su quel che è equamente giusto e quel che è assolutamente bene. Rispetto delle persone, delle loro credenze e della libertà di praticare la religione o lo stile di vita che esse scelgono: questo è laicità, condizione di una società aperta, plurale e liberale che rende la democrazia un buon governo.

Come si intuisce, la laicità è una conquista, non un punto di partenza. Per crescere deve potersi appoggiare alla sovranità della legge dello Stato, condizione essenziale per la formazione di ordini liberali e costituzionali. Ricordiamo l’insegnamento del Leviatano di Thomas Hobbes: si può ottenere sicurezza o pace sociale anche senza un regime liberale e costituzionale di divisione e limitazione del potere. Ma è evidente che governi limitati possono evolvere solo una volta che la legge dello Stato abbia consolidato il suo potere su tutti i suoi sudditi e le fonti normative. È questo il paradigma che ha guidato la Turchia di Mustafa Kemal Atatürk (il “padre dei turchi”, secondo il significato di “Atatürk”, ovvero il fondatore della Repubblica turca nel 1923). Atatürk diede origine allo Stato nazionale turco dopo la dissoluzione dell’Impero Turco- Ottomano, che era multietnico e multireligioso. Egli fu alla testa di uno Stato con una religione dominante che resisteva alla sua sovranità. Lo Stato turco adottò una strategia di depressione della democrazia per tener sotto controllo la religione — mise in evidenza il nesso tra democratizzazione e ismalizzazione. Atatürk fu il padre della sovranità assoluta dello Stato e, sulle orme di Hobbes, mise la religione dentro e sotto la sua potestà. Secolarizzò lo Stato per riuscire ad affermare l’autorità della legge civile su quella religiosa. La storia politica della Turchia moderna è documento vivo delle contraddizioni che possono nascere dal connubio tra stato-nazionale e sua trasformazione democratica in paesi dove l’aspetto “nazionale” è essenzialmente identificato con la tradizione religiosa che, a sua volta, cerca e vuole il controllo dello Stato. L’arte della separazione tra politica e religione è riuscita ad Atatürk a patto di impedire la democratizzazione piena e quindi l’ingresso dell’opinione della maggioranza nel potere dello Stato. Il processo in corso dopo il fallito tentativo di colpo di stato sembra dare ragione a quel vecchio progetto — o secolarismo di Stato o una radicale confessionalizzazione. In entrambi i casi è la democrazia liberale a non aver ossigeno.

postilla

Difficile il percorso verso una democrazia compiuta (e perciò condivisa dalla pluralità di popoli e di culture esistenti) in un mondo nel quale si esercita da qualche secolo il dominio di una sola delle culture che vi si sono affermate. Ancora più difficile quando la cultura dominante ha assunto l'arricchimento dei più ricchi come il suo vessillo, e la violenza della guerra come la sua arma priviegiata. In alcuni paesi, poi, non ha rinunciato neppure all'impiego della tortura.

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