Il flop del Jobs Act del governo Renzi non è il semplice effetto di un obiettivo mancato. Il continuo maneggio di dati e cifre poi contraddette dai fatti, non serve a nascondere un fallimento inaspettato. Esso è funzionale a politiche di riduzione dei diritti del lavoro che, invece, si vogliono spacciare per provvedimenti innovativi e capaci di creare nuovo lavoro.
Il «contratto a tutele crescenti», perno del Jobs Act, si basa su una stridente contraddizione. Da un lato, lo Stato eroga contributi alle imprese perché stipulino contratti a tempo indeterminato, modificando quelli a termine già esistenti o per i neoassunti. Dall’altro, si ammette la libertà di licenziare i lavoratori in qualsiasi momento e con qualunque motivazione. Il che rappresenta il massimo della precarietà. Infatti, si sta verificando che i nuovi contratti crescono in misura strettamente dipendente dai contributi versati agli imprenditori, mentre continuano a crescere i lavori precari.
A cominciare da quelli part time (presenti anche nei nuovi contratti) fino al dilagare delle forme di massima precarietà come quella del ticket-lavoro, che nel primo bimestre di quest’anno è aumentata del 45% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (per un totale di 19,6 milioni di voucher). In realtà si tratta di una sostanziale subordinazione delle politiche del lavoro ai dettami del neoliberismo imperante. Ed ha ragione Renzi a dirsi erede di Blair o a sottolineare la connessione tra i suoi provvedimenti e quelli propugnati dalla commissione Hartz nella Germania di Schröder. Sono stati, infatti, proprio loro e gli altri becchini di quel che restava della socialdemocrazia europea a piegare le politiche del lavoro alle esigenze del neoliberismo imperante.
La svolta conservatrice è stata battezzata con l’ingannevole definizione di «politiche attive del lavoro». Tale definizione ricorre nelle controriforme del lavoro introdotte nei maggiori paesi europei dalla fine degli anni ’90 ad oggi.
La prima, varata da Blair nel 1998, si proponeva di ridurre i diritti dei lavoratori e le prestazioni di welfare ad essi connesse. Secondo lui, i cittadini dovevano uscire dalla «dipendenza e pigrizia» determinate dai provvedimenti di assistenza sociale e diventare responsabili del proprio destino ricercando attivamente un lavoro.
La motivazione era la stessa sostenuta dalla Thatcher e da Reagan. In realtà, i provvedimenti previsti avevano lo scopo di spingere i cittadini ad accettare un lavoro qualsiasi, anche pesante e malpagato. In questo modo si tagliavano drasticamente le spese sociali e si favoriva la competizione al ribasso nel mercato del lavoro. Lo stesso principio è stato adottato dalla commissione Hartz istituita in Germania nel 2002. Anche il governo del socialista Jospin in Francia, che, pure, è stato più avveduto nella revisione del sistema di welfare, si è conformato al paradigma delle «politiche attive del lavoro» promulgando, nel 2002, provvedimenti affatto simili a quelli adottati in Gran Bretagna e Germania.
In Italia, misure analoghe hanno trovato facile sponda nel liberismo populista dei governi Berlusconi. Né sono state efficacemente osteggiate dalle coalizioni di centro sinistra, peraltro caratterizzate da paralizzanti tensioni interne. Il sempre più accentuato spostamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, dovuto alle strategie economiche e politiche neoliberiste, ha trovato rispondenza in altri due obiettivi complementari al precedente e perseguiti con pari tenacia.
Il primo riguarda la sempre maggiore libertà di licenziamento accordata agli imprenditori e praticabile per semplice convenienza economica. In Gran Bretagna il terreno già arato in questo senso dai governi Thatcher e Major ha reso più agevole a Blair superare i vincoli normativi. In Germania, dove essi erano più rigidi, sono stati aggirati nella pratica e con la tolleranza del governo. In Francia e in Italia la resistenza sindacale è stata più tenace su questo punto, anche se gli imprenditori si sono valsi della più ampia e crescente flessibilità nelle norme e tipologie contrattuali, con la conseguente proliferazione delle forme di lavoro precario.
L’altro obiettivo riguarda l’incoraggiamento dato alla contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale. Perseguito per prima da Margaret Thatcher, esso è stato riaffermato, in completa continuità, dal New Labour di Blair. Anche in questo caso l’intento è quello di indebolire la capacità contrattuale di lavoratori e sindacati. Peraltro, il perseguimento di tali obiettivi non è disgiungibile dalla parallela opera di decostruzione dello Stato sociale. Infatti, i provvedimenti citati sono stati regolarmente accompagnati, in tutti i paesi cui ci siamo riferiti, da drastici ridimensionamenti delle pensioni, da tempo sganciate dal reddito raggiunto in età lavorativa.
Parallelamente, sono stati fatti tagli sempre più impietosi ai sistemi sanitari. In questo e altri settori sono stati adottati criteri di gestione quasi-market, ovvero ancorati a budget prefissati. Le varie forme di assistenza sono state limitate ai «realmente bisognosi» sulla base di ristretti accertamenti dei mezzi. Mentre l’intero sistema è stato contrassegnato da privatizzazioni crescenti e da assicurazioni private, specie in ambito pensionistico e sanitario. Tutto ciò non ha fatto altro che ridurre il salario reale e con esso i margini di una sia pur minima redistribuzione della ricchezza. Sull’altro versante, invece, è stata costante la riduzione della tassazione sulle imprese e i redditi, con chiaro vantaggio dei più alti.
In questo quadro di generale contrazione delle politiche sociali, il perseguimento dei tre obiettivi principali che hanno caratterizzato la legislazione sul lavoro ha avuto effetti sociali sempre più pesanti. Ed essi hanno caratterizzato in modo, se possibile, ancor più determinato i provvedimenti successivi alla crisi del 2008. Oggi, le misure di Cameron, il Jobs Act di Renzi, come la Loi Travail proposta dal governo francese rappresentano una sorta di completamento di un lungo percorso che ha contribuito non poco all’aumento delle diseguaglianze sociali. Tuttavia, il nuovo indirizzo dato al Labour Party da Jeremy Corbyn e la forte resistenza che sta incontrando la legge proposta dal governo francese mostrano che cambiamenti di rotta sono possibili, oltre che necessari.