Venezia si salva con la tradizione
di Alberto Vitucci
Diceva l’ex doge Gianni De Michelis: «Nel nome di Venezia anche le idee più stupide hanno successo». Aveva ragione, e la storia lo dimostra. Alle idee stupide si sommano spesso luoghi comuni e banalità, che insieme al «libero mercato» rischiano di travolgere Venezia molto più delle acque alte. Venezia è una città speciale. Speciale perché costruita sull’acqua, perché i suoi tempi sono diversi dal resto del mondo, perché i costi dei restauri e delle case sono più alti che altrove.
Una «banalità» che però nessuno comprende quando si tratta di legiferare. O di applicare norme fatte per tutte le altre città anche alla città d’acqua. Da qui bisogna partire, senza invocare ad ogni problema e ad ogni crisi l’omologazione di questa città a tutte le altre. Grandi dighe e banchine portuali per eliminare l’acqua alta e il moto ondoso, la sublagunare per arrivare prima, i restauri fatti con il cemento al posto della pietra d’Istria.
La Venezia del novembre 2006 mostra grandi problemi irrisolti. Il calo degli abitanti, il proliferare di motoscafi, bancarelle, alberghi e appartamenti per turisti al posto delle case, una classe dirigente arroccata sull’economia «garantita», il turismo o i contributi dello Stato. Attività economiche che se ne vanno, artigiani che chiudono e lasciano il posto alla paccottiglia made in Taiwan.
Di chi la colpa? Del Comune, che ha allargato le maglie del Piano regolatore consentendo i cambi d’uso. Della Regione, che ha votato nel 1993 una legge sulle licenze taxi che sembra fatta apposta per incoraggiare ricorsi e non regolamentare nulla. E un’altra che consente di aprire Bed and breakfast e pensioncine senza vincoli. E del governo centrale, che ha applicato la legge sul commercio anche al centro storico. Niente più merceologìe, tutti possono vendere mascherine e vetro di Murano. Secondo voi cosa conviene in una città con 15 milioni di turisti l’anno? Poi ci sono le colpe dei veneziani. Che parlano, discutono, ma poi non agiscono di conseguenza. Così sono proprio quelli che protestano perché lo Stato ha buttato via troppi soldi per i contributi ai privati che affittano le loro case risanate con la Legge speciale ai turisti.
Ma Venezia non è soltanto questo. E’ anche una «città ideale» dai ritmi antichi e dal fascino mondiale, dove si vive ancora bene. Con realtà economiche compatibili che si fanno largo rischiando in proprio. Come il Consorzio della cantieristica alla Giudecca, il centro velico alla Certosa, la ricerca e le nuove attività ai più sconosciute (chi lo sa che alla Giudecca si producono sci di altissimo livello?) e tanti altri.
La scommessa vera è proprio questa: valorizzare e incoraggiare le attività tradizionali, legate all’acqua e alla ricerca. Ad esempio pensando ad affitti agevolati per i negozi tradizionali, al riuso del patrimonio pubblico (non solo del Comune, ma delle Fondazioni, della Curia patriarcale, delle Ipab, della Regione) mirato alla rinascita economica. E poi la cultura. Far fruttare i gioielli di famiglia senza svenderli o modificarne l’uso. Giorni fa un giornalista della Cbs mi ha chiesto come mai un luogo monumentale unico al mondo come l’Arsenale non sia già stato utilizzato per farne un museo del Mare - progetto che la Marina ha fermo da anni - come hanno fatto con enorme successo a Genova senza avere nulla di simile. O per ospitare attività economiche legate all’acqua nel segno della tradizione. Questa è la strada. Senza perdere energìe e risorse nelle trite polemiche sulle grandi opere. Venezia può rinascere anche senza Mose e sublagunare. Ma occorre fermare (o far tornare) le aziende che se ne vanno in terraferma. Trovare casa e lavoro ai giovani che non hanno alcuna possibilità di comprarla o affittarla vista l’enorme possibilità speculativa offerta dal turismo.
Infine, il numero chiuso. Non basta il ticket né la Ztl. Le orde dei turisti mordi e fuggi vanno scoraggiate, i servizi e i trasporti per i veneziani garantiti. Venezia è città finita, non può sopportare pressioni all’infinito. Su questo le istituzioni devono fare proposte concrete. Il sindaco Cacciari fa bene a rispedire al mittente le critiche pretestuose. Fa male a non ascoltare i suggerimenti che lo invitano a usare la sua autorevolezza per dare un colpo d’ala. Per salvare Venezia senza ridurla a una copia di Las Vegas. E’ questo che i veneziani chiedono, senza divisioni ideologiche. E su questo, forse, sono disposti a risvegliarsi dal lungo sonno.
L’intervento di Marco Michielli
presidente di Federalberghi Veneto
Forte come la pietra d’Istria sotto il peso della storia, fragile come il cristallo sotto quello delle invasioni turistiche. Ma così come perfino la resistenza della pietra d’Istria ha un limite, dimostrando di soffrire più i passi dei «viandanti» che i capricci della marea, anche Venezia finirà schiacciata dal peso delle orde mordi-e-fuggi prima ancora che invasa dalle acque... se l’atteggiamento sarà ancora quello della rassegnazione. «Diamola in pasto alla Disney», provoca il settimanale inglese Observer; «Mose sì, Mose no» ripete l’eco infinita della polemica sulle dighe mobili; «Non un soldo per questa Venezia», rincara l’economista Francesco Giavazzi. Che, malgrado le apparenze e nonostante la levata di scudi del sindaco Massimo Cacciari e di altri veneziani più o meno noti, dimostra interesse per le sorti della città lagunare e, come si fa con un malato che non vuole reagire, tenta l’arma dello scossone: senza un progetto che faccia rivivere la città, dice Giavazzi, non vale più la pena stanziare fondi per la sua salvaguardia. E’ vero: Venezia non deve essere solo vetrina, non può diventare una Disneyland, non può guardare solo ai turisti, intesi come numeri da record, ma deve progettare schiere di futuri residenti. E un turismo di qualità. Ogni anno stiamo a suonare la grancassa sui record di visitatori entrati in città, e ogni anno il record è battuto.
E’ vero, noi albergatori con il turismo ci viviamo, ma dalle finestre dei nostri alberghi vediamo il presente e guardiamo al futuro con preoccupazione. E il sorriso per la conquista di nuovi record ci muore sulle labbra quando ci accorgiamo che per attraversare un ponte o una fondamenta dobbiamo essere pronti, come minimo, a farci pestare i piedi, e che i gradini di quel ponte, consumati dal passaggio di trilioni di persone, non riusciamo neanche più a vederli. Allora, ci chiediamo: che senso ha, tutto questo? Che razza di turismo ha generato la nostra epoca? Un turismo che va di fretta e divora quel che riesce con gli occhi, consuma toccando e poi scappa verso un’altra destinazione. E’ questo, il turismo dei numeri, quello che vogliamo? E’ chiaro, come dice Giavazzi, che se Venezia non vuole diventare Disneyland deve uscire dal proprio immobilismo, deve smetterla di essere preda, soprattutto deve ritrovare i propri abitanti, creare le condizioni per tornare a essere anche una città di residenti. E perché no, aggiungiamo noi, deve avere il coraggio di scegliere un turismo con meno numeri e più qualità, scelta impopolare ma necessaria.
Basta con la demagogia, al diavolo il populismo: selezioniamo gli ingressi. Cominciamo a pensare a contingentare il numero di persone che arrivano in città. Diciamo: se vuoi entrare a Venezia da turista devi metterti in fila e prenotare. La devi desiderare, questa città, e saperla attendere anche per mesi, se necessario per anni. Devi sapertela meritare, così come devi saperti meritare tutto il Veneto. Sono convinto che, se a livello regionale siamo a circa 57 milioni di presenze, anziché puntare ai 60 milioni low cost potrebbe essere meglio tornare ai 55 milioni, ma a più alto valore aggiunto. Perché il turismo di massa che «divora» non riguarda solo il capoluogo lagunare, ma anche altre città d’arte, anche la montagna.
Mi auguro che, di fronte alla provocazione dell’Observer e alla durezza dei toni di Giavazzi, i veneziani (e non solo) abbiano un moto d’orgoglio, che non subiscano con rassegnazione lo spirito usa-e-getta di sfruttamento delle risorse che spinge sempre più foresti non solo a invadere Venezia per poche ore, ma anche a gettarsi come avvoltoi sui resti di una città appesa al filo di vita dei suoi pochi abitanti per fare di ogni appartamento un bed and breakfast.
Venezia è un merletto delicato, mal sopporta numeri e invasioni barbariche, chiede rispetto e restituisce cultura. Mi auguro che si cominci subito a pensare, lavorare, inventare qualcosa perché nessuno più possa dire «Non un soldo per questa Venezia».
C’è chi predica da vent’anni anni (prima ancora della grandi discussione su l’Expo a Venezia) sull’esigenza di salvare i luoghi famosi dall’ondata devastatrice del turismo sregolato, praticando le forme civili del “razionamento programmato dell’offerta”. Oggi la questione si ripropone, in condizioni peggiori: perché l’altezza dell’onda è aumentata, e perché sono stati abbandonati gli argini.
A Venezia, colpevoli dell’abbandono certo anche la Regione e lo Stato, per le ragioni cui accenna Vitucci. Ma in primo luogo il Comune. Non fu forse la prima Giunta Cacciari a cancellare la delibera di applicazione delle norme nazionali che avrebbero consentito di contenere l’invasione dei fastfood e di simili iniziative omologatrici? E non fu una giunta comunale (politicamente orientata nello stesso modo) a cancellare le norme troppo “vincolistiche e ingessatrici” del piano regolatore, che avrebbero consentito il controllo delle destinazioni d’uso, la difesa della residenza e la resistenza vittoriosa al proliferare degli affittacamere?