Gli unici veneziani a partire per Mestre, fino a poco tempo fa, erano i vecchi costretti a vender casa. Caricavano i mobili sui barconi, come sfollati di guerra, e andavano a morire «oltre la Libertà», di tristezza e solitudine o investiti dalle automobili. Ora la sera sul Ponte della Libertà trovi comitive di ragazzi veneziani che vanno a Mestre per vivere e divertirsi. Si lasciano alle spalle la Città Unica e sbarcano con passo leggero in una periferia senza storia che potresti confondere col Midwest o la Renania.
Alla ricerca di una vita normale fatta di pub, discoteche, pizzerie a prezzi decenti, centri commerciali, palestre, cinema (la «capitale del cinema» ha ben due sale, dieci meno di Castelletto Ticino). Sbandano a povere mete, direbbe Saba, ma sembrano felici.Il picco del pendolarismo alla rovescia si tocca prima e dopo il Carnevale, apoteosi di un assedio turistico senza pari, sedici milioni di visitatori all’anno contro una popolazione ridotta a sessantamila residenti. Se nulla interviene, si calcola che l’ultimo veneziano morirà o si trasferirà in terraferma intorno al 2040. Nata per fuggire le invasioni barbariche, rischia di finire per le invasioni turistiche. La Morte è l’allegoria che chiude sempre le sfilate. Altrove è biologia, religione, concetto filosofico, mistero. Qui è la prima voce dell’economia. La morte quotidiana dei veneziani, che libera spazi per farci ristoranti e alberghi e seconde case. E la morte eterna di Venezia, dalla quale nei secoli la Serenissima ha cavato di tutto, sapere tecnologico e grandezza militare, letteratura e turismo, industria e aiuti di Stato. Una montagna di soldi, dodici milioni di euro soltanto dalla legge speciale, gli ultimi quattro per le dighe mobili del Mose. Con la morte Venezia gioca a scacchi, stringe patti e tratta affari. E’ anche la forma di turismo dei veneziani. Non c’è veneziano che fin da bambino non sia stato portato a visitare i resti delle piccole Atlantidi sommerse dalla laguna, isole fantasma un tempo splendide, come Torcello oppure San Marco Boccalama, dove le draghe hanno portato alla luce una vallata di teschi.
Il Carnevale qui è metafora globale. La durata ufficiale è tre settimane, ma sono sei mesi per i commercianti e dodici per la politica. Alle ultime elezioni il centrosinistra ha combinato tali pasticci intorno alla candidatura di Felice Casson da riconsegnare per la terza volta la città a Massimo Cacciari, quasi suo malgrado. La destra, con tutte le mene leghiste sulla Serenissima e le sue carnevalate, dalla presa del campanile col trattore mascherato da tank allo sbarco dell’ampolla sacra a San Marco, non ha mai sfondato. Venezia è l’unico capoluogo e uno dei pochissimi comuni del Nord Est a non aver avuto un sindaco della Lega e/o di Forza Italia.
La mappa del potere cittadino è ferma al Cinquecento, contano il Doge e il Patriarca, Cacciari e il cardinal Angelo Scola. Nel caso di Cacciari in effetti Doge suona un po’ riduttivo, c’è caso che il professore s’offenda. E’ l’ultimo dei grandi veneziani e gli toccano tutte le parti in commedia. Oltre a essere l’incontrastato Doge dal ‘93, incarna il secondo mito dell’immaginario cittadino, il Casanova, per via del rinomato libertinismo (anche) intellettuale. Ora si sta attrezzando per comprendere in sé il terzo, Marco Polo, con una serie di viaggi in Cina. Fuori dalla giurisdizione del sindaco rimangono giusto la Curia e il suo Patriarca, al quale in ogni caso non lesina consigli.
Il problema è che Cacciari è un Doge senza alle spalle un Senato o un Maggior Consiglio e nemmeno un mezzo collegio di Savi. Ha dovuto portare in giunta candidati che avevano raccolto quindici preferenze, non ha intorno né una classe dirigente né un blocco sociale sul quale fondare un progetto di futuro. La classe operaia si è estinta («Quand’ero bambino» ricorda il sindaco «c’erano ventimila operai soltanto alla Giudecca») e gli ultimi capitalisti hanno venduto o vivono di rendita, come la famiglia Coin, il Luigino Rossi delle scarpe e del Gazzettino, Pietro Marzotto. Nella culla dell’operaismo italiano e dell’Istituto Gramsci, la lotta di classe si è conclusa a sorpresa con l’abbandono dei contendenti e la vittoria di risulta di una borghesia minima di bottegai, priva di qualsiasi visione generale.
Il Doge mi riceve nel palazzo di Rialto, bello e scomodo. L’agenda è la rappresentazione della sua solitudine. Fitta d’incontri con micro corporazioni, segnati a mano, nemmeno una segretaria. Da anni mi domando chi glielo faccia fare a uno ricco di talenti e di fidanzate, famoso e stimato in Italia e nel mondo («sarebbe l’ideale ministro della Cultura» dice sempre D’Alema, che non l’ha mai proposto), di svegliarsi alle sette e cominciare la giornata dall’incontro con la delegazione degli ambulanti. E’ una forma di suicidio nichilista, una cupio dissolvi mitteleuropea all’Aschenbach, alla Franz Tunda? Lui stesso non sa darsi risposte sensate. «Sono qui per cinque minuti di bile: contro il centrosinistra che non voleva neppure fare le primarie». Le primarie le ha inventate la Repubblica veneziana, mille anni fa. Il sindaco sospira, poi prende il pacco delle carte e mi spiega per l’ennesima volta perché il Mose è tecnicamente sbagliato. Il professore non resiste mai alla tentazione, come scrive Gian Antonio Stella, di spiegare «l’idraulica agli idraulici, il papato al Papa» eccetera.
Le tesi pro e contro il Mose hanno il vantaggio di non essere dimostrabili: l’ideale per alimentare un dibattito infinito. Dipende dall’effetto serra, dai mutamenti climatici, dallo scioglimento dei ghiacciai, tutte faccende intorno alle quali la comunità scientifica internazionale si accapiglia da anni con esiti da disputa teologica. Fino al mese scorso gli organismi mondiali prevedevano un innalzamento del livello del mare, nel secolo, in una forbice «fra nove centimetri e un metro», che non significa nulla. Nove sono quasi un’inezia e un metro equivale a mezzo miliardo di morti. Di recente le sibille scientifiche hanno ridotto la previsione fra quindici e sessanta centrimetri. «Ma con quindici» spiega il sindaco «il Mose è uno spreco perché l’inondazione diventa un caso rarissimo. Con sessanta invece diventa inutile e occorre una diga ferma, come in Olanda. Nell’un caso e nell’altro, stiamo buttando a mare quattro o cinque miliardi di euro, quando me ne basterebbe uno per risistemare la città e aiutare i veneziani a resistere. Altrimenti quando il Mose sarà finito servirà, ammesso che serva, a proteggere una città fantasmi». Cacciari era ottimista, poi pessimista (ma sempre contro il Mose) e per maggio ha organizzato un convegno sull’apocalisse climatica con Al Gore. Il direttore del Consorzio, l’ingegner Giovanni Mazzacurati, un galantuomo che da trent’anni si dedica al progetto, allarga le braccia: «E’ soprendente, tanto più da un filosofo. La morte di un uomo, in questo caso di una città, è sempre un evento raro, anzi unico. E che cos’è questo rifiuto della tecnologia in un popolo che nel Seicento deviava il delta del Po per difendere il porto?». Chiunque abbia ragione, ormai il Mose si farà. All’ultimo vertice romano il ministro Antonio Di Pietro, ascoltate le dotte arringhe di Cacciari e Mazzacurati, ha tagliato il nodo: «Ho capito soltanto una cosa, che se il mese prossimo arrivano due metri d’acqua io finisco sotto processo e non so neppure spiegarmi con l’avvocato». Il governo ha approvato la ripresa dei lavori.
E’ la prima sconfitta del Doge da vent’anni. Dalla battaglia vinta per impedire l’Expo 2000 di De Michelis, non s’era mai mossa foglia a Venezia che Cacciari non volesse, neppure quando non era sindaco. Ora sono in molti a pensare che Cacciari finirà per dimettersi. Mezza città trema all’idea, per loro il Doge è l’ultima barriera contro la metamorfosi di Venezia in una Dineyland del Quattrocento, con l’unica differenza che qui è l’autentico a sforzarsi di sembrare finto. L’altra metà trama e si prepara a brindare all’abdicazione con lo champagne all’Harry’s Bar. Il solo a venire allo scoperto è il solito Gianni De Michelis, che da sempre considera Cacciari «il cancro cittadino, un affabulatore ostaggio di venditori di cianfrusaglie e centri sociali». Ma dietro s’intuisce un grumo di poteri, pronto ad allearsi con il governatore Galan e i capitali foresti per mettere le mani sui palazzi decaduti, sul vuoto splendore dell’Arsenale e ancor più sulle gigantesche aree edificabili di Marghera e gli snodi strategici di Mestre, la futura «piattaforma del Nord Est». .
Quest’altra Venezia «del fare» e dell’affare ama opporre alla presunta ignavia del Doge l’attivismo padano del Patriarca. Il cardinal Angelo Scola, di Lecco, favorito per la successione di Ruini al vertice della Cei, a lungo motore con don Giussani della macchina da guerra di Comunione e Liberazione, è il classico parroco-imprenditore lombardo, ma moltiplicato per cento. Intelligenza acuta e pragmatismo: non per caso si è laureato con una tesi su San Tommaso. Non sarà avvincente come Cacciari nel disquisire del mistero dell’Immacolata Concezione, ma in compenso è più abile nel mettere d’accordo i potentati economici. Mentre Comune e Regione litigano da anni sul restauro di Punta Dogana, che il sindaco vorrebbe affidare a Palazzo Grassi-Pinault e Galan a Guggenheim, col risultato di un incredibile stallo, proprio lì dietro il Patriarca ha sta recuperando con le donazioni il magnifico collegio marciano. Ha trasformato la malandata Curia di San Marco in un gioiello, dove peraltro sta pochissimo, sempre in giro a Mestre e Marghera, oppure per il mondo. L’ultima volta all’Onu di New York per presentare la sua raffinata creatura, l’Oasis, prima rivista cattolica con versione a fronte in arabo. «E’ tradizione del Patriarcato» spiega «dialogare con tutte le religioni, Venezia è stata un crocevia di ebrei, ortodossi, protestanti». E’ tradizione del Patriarcato, aggiungo, esprimere futuri papi. Nel secolo scorso ben tre, Pio X, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I. Per dire il personaggio, un giorno che stranamente era in Curia, s’è affacciato sulla piazza e «gli è parso» che il campanile di San Marco oscillasse. Ha chiamato subito gli ingegneri e aveva ragione. «El paron de casa» rischiava il crollo come nel 1902. I preti della diocesi non ne possono più di vederselo piombare a sorpresa in canonica. «I miei parroci mi ripetono: guardi che in laguna arriva lo scirocco, prima o poi si adatterà anche lei».
Nei palazzi si combatte la guerra dei poteri e nelle calli ogni giorno va in scena la guerriglia fra residenti e turisti. L’arte veneziana nel vendicarsi del foresto raggiunge vari gradi di crudeltà, dagli spaghetti «alle vongole fresche» scongelati più volte, al vino con retrogusto di piscio, alla tortura dei bed and breakfast selvaggi, spuntati come funghi, che ogni mattina sfornano famigliole di coreani e tedeschi devastati dall’umidità. Anni fa un buontempone stampò cartoline con la luna, la gondola, un campanile, un’isola e la scritta multilingue: «Manchi solo tu». La cartolina andava a ruba e i veneziani ridevano: l’isola era San Michele, il cimitero. Se si va spesso a Venezia è bene imparare qualche frase in lingua. Schiude vasti orizzonti letterari, da Goldoni a Zanzotto, e permette di ottenere sconti del cinquanta per cento sui taxi. Per non sembrare turisti è fondamentale assumere il passo svelto dei cittadini. Non procura sconti ma permette di uscire rapidamente dal flusso e perdersi nei sestieri deserti e stupendi di Castello o Cannareggio, respirare l’odore dei panni stessi e la vera Venezia. L’unica accortezza è non cercare mai una scorciatoia: finiscono quasi sempre in un cortile. Anche questa è una metafora, sostiene lo scrittore Daniele Del Giudice: «A Venezia la via breve non porta da nessuna parte». La storia di Del Giudice è quella di tanti veneziani. «Abitavo dietro San Marco, la mattina dovevo scansare torme di turisti ma riuscivo ancora a comprare il giornale, le sigarette, il pane e sedermi per un caffè. In tre mesi ha chiuso il panettiere, l’edicola, il bar e la tabaccheria, tutto per far posto a quelle maledette mascherine fatte a Taiwan e a un fast food. Niente pane, giornale, caffè e sigarette: la fine di una civiltà. Mi sono trasferito a Santa Maria Formosa, ma la ristrutturazione mi costa un occhio della testa e il palazzo più bello del campo sta diventando un albergo».
L’unica soluzione è prendere l’autobus coi ragazzi veneziani e sbarcare a Mestre, dove passa la vita e si gioca il futuro. «Venezia è soltanto la vetrina, il negozio sta a Mestre e Marghera» mi dice Gianfranco Bettin, storico leader della battaglia contro il petrolchimico. E Cacciari: «E’ stato a Mestre? Abbiamo fatto il più grande bosco urbano d’Europa. Fra Mestre e Marghera convivono il più grande parco tecnologico d’Italia, il Vega, il secondo porto e il terzo aeroporto, dopo Malpensa e Fiumicino, un enorme bacino autostradale e ferroviario, un grande polo universitario e presto l’istitututo europeo di design. Quale altra città di trecentomila abitanti al mondo ha altrettanto? Se questa è la morte di Venezia…». Perfino il governatore Galan stavolta è d’accordo: «A Mestre deve sorgere la grande piattaforma del Nord Est».
In terrafermo trovo tutto quello che mi dicono e qualcosa in più, la straordinaria bellezza del paesaggio industriale di Marghera. Bella, deserta e letale, perché in attesa delle bonifiche qui circola ancora lo spettro di una morte non metaforica ma quotidiana, la morte chimica per cancro. Una volta ripulita dall’eredità Montedison, la terraferma potrebbe essere davvero la «grande piattaforma» di un Nord Est strozzato e in crisi, in cerca di sbocchi a Oriente e soprattutto senza più uno spillo dove costruire lungo tutta la nebulosa di capannoni che va da Brescia a Pordenone. E’ il sogno di Cacciari. Ma perché si realizzi bisogna aggirare un piccolo ostacolo, la Storia. La storia dei rapporti fra Venezia e l’entroterra, anzitutto, il disprezzo dei primi, il rancore dei secondi. L’ho capito un giorno intervistando Giorgio Panto, l’industriale proto leghista di Meolo che alle ultime elezioni ha fatto vincere Prodi per fare un dispetto alla Liga. Per tutto il tempo aveva sparlato dei veneziani, «più assistiti dei romani» e delle «storie di sfiga» legate alla città. Poi era arrivata la telefonata di un cliente inglese e lui: «Sure, I’m near Venice!». E’ morto l’anno scorso, mentre sorvalava la laguna in elicottero, di fronte a Venezia. «Gli imprenditori nordestini all’estero dicono "near Venice" anche se stanno a Verona o Belluno» dice il sociologo Aldo Bonomi, presidente della Fondazione Venezia «ma al dunque si tengono alla larga. Mestre è l’unico posto della regione dove si può pensare in grande, aprire la porta alla globalizzazione. Ma ci vorrebbe una neo borghesia colta che non c’è. E dove sono i grandi immobiliaristi, le grandi banche, i capitali stranieri? Rimangono a Milano, al massimo arrivano qui per il week end con i clienti». Zunino va al Bauer, Profumo al Gritti. Bazoli viene più spesso perché è presidente della fondazione Cini, ma il Leone che gli interessa non è quello di San Marco. «Quanto alla grande politica, c’è solo Cacciari, disperatamente solo», conclude Bonomi. Il suo maestro e predecessore, Giuseppe De Rita, che a Venezia ha dedicato vent’anni di lavoro, è ancora più pessimista: «E’ vero, le potenzialità di Mestre sono enormi ma temo che resteranno tali. Perchè Mestre non ha storia. Lo sviluppo e l’economia dei distretti in Italia si fanno dove c’è storia, Biella e Andria, Prato e le Marche. Sulla tabula rasa non cresce nulla e la storia di Marghera in questo è esemplare».
La Venezia del futuro è insomma ancora un luogo della mente, come del resto quella del presente, sospesa fra cielo e mare, città-palafitta poggiata su «una foresta sepolta» come scriveva Braudel, mutevole d’umore, certi giorni di nebbia malinconica come un vampiro, nei giorni di sole splendente come una regina, sempre fragilissima. Il Mose la difenderà dalle maree, ma prima dell’ondata di cento milioni di turisti cinesi bisognerà farsi venire qualche idea.
L'immagine è una fotografia di Jim McNitt