». Arcipelagomilano online, 27 luglio2016 (c.m.c.)
Dov’è Milano mentre Dacca, Nizza, Monaco, aggiungono lutti sconvolgenti a quelli già tremendi di Parigi e Bruxelles? Dov’è la voce delle istituzioni locali, mentre aerei russi e Assad bombardano gli ospedali di Aleppo, Bagdad è un rosario di carneficine prodotte da kamikaze sunniti contro sciti e reciproche vendette, Erdogan calpesta gli elementari diritti civili, le strade di Kabul tornano a essere terra di attacchi suicidi contro le minoranze?
La retorica delle condanne e le rassicurazioni governative si susseguono mettendo a nudo la debolezza della politica. Davanti all’escalation di orrori avvertiamo impotenza in raccomandazioni tipo: non lasciamoci prendere dalle paure, perché sarebbe darla vinta ai terroristi. O, ancora: le istituzioni faranno quanto possono per garantire incolumità e tranquillità (ci mancherebbe!), ma è impossibile prevedere tutto.
Si può non darla vinta agli uomini in nero e al contagio che la loro violenza ha su menti fragili; occorre però un salto di qualità nell’esprimere il senso collettivo di appartenenza alla civiltà della vita contrapposta a quella della morte. Al diffuso vissuto di frustrazione ci si può opporre proprio da Milano, per quello che la città è nel suo dna: stile ambrosiano, inventiva, sperimentazione, creatività politica e sociale; politicamente: capitale del riformismo.
Ad esempio si può ripristinare il ruolo centrale delle Assemblee elettive: Consiglio Comunale in primis. È un gesto politico, di assunzione di responsabilità; è un modo di ritrovarsi, condividere preoccupazioni, dare respiro, discernere tra quel che viene dalla pancia e quanto il cuore e la mente dovrebbero suggerire.
Dal dopoguerra ai primi Anni ’90 l’aula di Palazzo Marino è stata il luogo deputato dove la città ha riflettuto sui problemi generali che a mano a mano affliggevano il mondo. Per decenni le sedute del Consiglio si aprivano con un’introduzione generale che schiudeva orizzonti di solidarietà internazionale, dando spessore ai provvedimenti amministrativi. Faceva capolino un tasso di ideologia in quei dibattiti. Ma Milano ha vissuto la propria dimensione di Città internazionale, in grado di intrattenere rapporti culturali, stabilire scambi proficui con blocchi opposti in quanto dai banchi di Palazzo Marino e dall’emiciclo del pubblico sono passati: fatti d’Ungheria, Guerra Fredda, minaccia nucleare, disastri combinati dall’Occidente in Asia (a incominciare dal Vietnam) e in Medio Oriente, stragismo, terrorismo, povertà da ristrutturazioni industriali e delocalizzazione nei Paesi emergenti e poi nell’ex blocco sovietico.
E venne Tangentopoli, con effetti dirompenti sul piano dell’etica pubblica e degli assetti istituzionali. Costretti dal buio morale calato su Milano e dalle ripercussioni in tema di tenuta democratica dell’intero Paese, i partiti decimati dagli scandali ebbero un sussulto riformatore. Non toccarono l’impianto generale, spostando possibili modifiche della Costituzione su una Commissione Bicamerale (rinvio che paghiamo ancora oggi, alle prese con gli scontri sul “sì” e sul “no”: andrebbe ricordato a qualche leader ex Pci). La lezione di Mani Pulite finì nella riforma dei poteri locali che voleva riavvicinare politica e cittadini semplificando i meccanismi decisionali.
All’apparenza sembrò un intervento limitato: veniva introdotta l’elezione diretta dei sindaci. Fu invece una svolta ambivalente sotto il profilo della democrazia reale. Venivano poste le premesse perché i consigli comunali perdessero in rappresentatività e capacità di indirizzo politico, oltre che in termini di potere decisionale. Si finì per ridurre il confronto al momento del rinnovo dei consigli, con i partiti ridotti a comitati elettorali.
Lasciamo ad altra occasione un bilancio sulla riforma degli Enti Locali. Subito va data una risposta alla richiesta pressante di comprensione che viene dalle tragedie. È tangibile lo smarrimento emotivo che mette a rischio la tenuta in termini di psicologia sociale; disorienta lo squilibrio tra grandi sfide epocali e disegni aggressivi/difensivi di chi pensa a muri o con cinismo per un voto in più cavalca le paure; è inquietante l’afonia di energie culturali e intellettuali. Incalza la questione di individuare spazi attraverso cui la polis possa ritrovarsi e come nell’antica tragedia greca dare nome alla complessità degli umori e delle scelte, prendere coscienza, puntare sul cambiamento degli individui e del collettivo.
Riportare al centro la Casa comunale, nel senso proprio della “casa di tutti” non è un Amarcord. Si vuole invece tornare alle radici dell’esistenza umana, alla socialità, al senso di solidarietà, alla convivenza buona di uomini e di donne che si incontrano, si guardano negli occhi, si parlano, si ascoltano, cercano insieme di capire, di verificare la fondatezza delle proprie visioni del mondo in confronto alle difficoltà del tempo e alle speranze da offrire ai figli propri, alle generazioni, al vicino e allo sconosciuto che verrà perché tale è la direzione della storia.
I social sono importantissimi nella comunicazione, ma da soli non bastano a far crescere consapevolezza e democrazia. La grande utilità d’un loro uso corretto s’è vista proprio in occasione degli attentati. Come tutti i mezzi, però, in sé non sono né buoni né cattivi: il giudizio dipende dall’uso che se ne fa. E l’esperienza mostra come molte volte essi siano luoghi di affermazione di tanti “Io” isolati, che però non riescono a diventare un “Noi”. Abbiamo un gran bisogno di luoghi in cui radunarci, mettere in comune riflessioni argomentate, studiare, conoscere, approfondire, trovare dentro di noi le ragioni ultime capaci di opporre slanci vitali all’istinto di annientamento dell’altro, al tentativo di uccidere la speranza nell’umanità.