Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2016 (p.d.)
A Milano, qualche giorno fa, in una brochure per gli investitori esteri (con logo del ministero dello Sviluppo economico) si leggeva che “un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi ha una retribuzione media di 48.500” e che più in generale “i costi del lavoro in Italia sono al di sotto dei competitor”. E ancora, che “la crescita del costo del lavoro nel 2012-14 è stata la più bassa dell’Eurozona”.
I dati. I numeri della Fondazione Migrantes vengono soprattutto dall’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire): in un anno, hanno lasciato l’Italia 39.410 giovani tra i 18 e i 34 anni – 6.232 in più rispetto al 2014 – pari al 37 per cento circa del totale. Non vanno via dall’Europa (gli spostamenti intercontinentali sono costanti e, in alcuni casi, in lieve diminuzione) ma migrano soprattutto verso la Germania (16.568), il Regno Unito (16.503) e la Svizzera (11.441). Restano in Europa. E se chi ha meno di 35 anni si sposta a seconda delle opportunità, la fascia 35-49 anni (il 25,8% del totale) lo fa con un progetto di vita. Aumenta, poi, l’emigrazione dal Nord Italia. “Pur restando indiscutibilmente primaria l’origine meridionale dei flussi – si legge – si sta progressivamente assistendo a un abbassamento dei valori percentuali del Sud a favore di quelli del Nord”. Lombardia e Veneto prima di tutto. Totale: a gennaio, gli italiani residenti all’estero erano più di 4,8 milioni, il 3,7%in più rispetto al 2014, +54,9% rispetto al 2006. Peggio dell’Italia fa solo la Spagna, dove in dieci anni l’incremento è stato del 155,2%.
La globalizzazione non è una spiegazione sufficiente. “Oggi il fenomeno degli italiani migranti ha caratteristiche e motivazioni diverse rispetto al passato – ha detto ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella –. Un segno di impoverimento piuttosto che
una libera scelta ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze”.
“Sono dati che non stupiscono – spiega al Fatto Ugo Fratesi, docente di Economia regionale al Politecnico di Milano, studioso degli effetti delle migrazioni sui differenziali economici tra regioni – e che mostrano un cambiamento rispetto alle migrazioni del Dopoguerra e del periodo pre-crisi”. Il dato più evidente è che ci si sposta all’estero da tutte le regioni, non più solo dal sud. “Pur considerando che la Lombardia è la regione più popolosa d’Italia, è comunque significativa l’inversione del trend. Segnala che il ruolo di assorbimento che il nord Italia svolgeva prima della crisi economica è svanito”.
Chi va via è giovane e ha un titolo di studio medio-alto: la fuoriuscita di persone qualificate impoverisce il Paese di capitale umano, portando con sé anche l’investimento fatto su di loro dalla collettività (attraverso l’istruzione pubblica, ad esempio). Sempre più gente emigra, mentre il numero di chi rientra in Italia è rimasto lo stesso negli ultimi dieci anni. “Bisogna capire se queste persone emigrano per sempre o se rientreranno – dice Fratesi – Perché questa perdita di capitale umano potrebbe non danneggiarci del tutto in futuro, a patto che queste persone mantengano rapporti con l'Italia e che magari rientrino portandosi dietro esperienze e network di relazioni”.
In questo contesto, c’è chi ne trae beneficio, Germania su tutti. I programmi speciali del governo tedesco per la “Promozione della mobilità dei giovani stranieri interessati alla formazione professionale” – spesso pagati con fondi Ue – non sono un investimento a fondo perduto,ma una strategia precisa. Corsi teorico-pratici di almeno tre anni, l’insegnamento del tedesco, stipendi di 800 euro al mese nel periodo di formazione. Senza contare che gli ultimi dati demografici sulla Germania, confermati anche dall’Istituto tedesco di studi demografici, parlano di più di 64 milioni di morti previsti nel prossimo mezzo secolo e meno di 40 milioni di nascite. Berlino ha quindi un bisogno disperato di forza lavoro per evitare una crisi demografica.
“Per quanto riguarda i salari – spiega Fratesi – bisogna invece ragionare non tanto sul loro livello medio, quanto sul differenziale relativo a certi tipi di qualifiche”. In pratica, la ricercadi migliori opportunità in altri Paesi dà vantaggi economici soprattutto alle persone più qualificate e per le quali, come mostra la letteratura scientifica, è anche più facile inserirsi in contesti diversi. La moneta unica poi, non aiuta. “Un’area monetaria che non è ottimale – spiega Fratesi – cioè formata da economie che funzionano in modo diverso e hanno diversi livelli di inflazione, non rende possibile recuperare competitività con la normale svalutazione del cambio”. Quindi si svaluta il lavoro. “Non c’è una relazione diretta col fenomeno migratorio ma contribuisce a spiegare perché sono più bassi e non stanno crescendo”.