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Che cosa sta accadendo nella scuola italiana? Nel quasi totale silenzio-assenso dell’intellettualità nazionale e della grande stampa - salvo qualche eccezione, ma non certo critica, come quella del Sole 24 ore, e di qualche entusiasta apologeta - i nostri istituti superiori vengono progressivamente spinti a trasformarsi in scuole per l’avviamento al lavoro. L’applicazione della cosiddetta “alternanza scuola lavoro”, prevista nelle sue linee generali dal decreto legislativo del 15 aprile 2005, sta trovando, con la legge sulla Buona scuola del defunto governo Renzi, esiti sempre più chiari. Intanto quest’ultima stabilisce l’obbligo di dedicare ben 400 ore ad attività lavorative nel corso del triennio delle scuole professionali e tecniche, e 200 nel triennio dei licei. Ore che verranno sottratte allo studio per fare esperienze pratiche all’interno di fabbriche, imprese agricole, musei, ospedali, archivi, ecc.
Il silenzio su questo processo di gravissima subordinazione dei processi formativi alle esigenze di breve periodo delle imprese, dipendente da una abborracciata lettura delle tendenze del capitalismo contemporaneo, si può anche comprendere. Da noi è universale la leggenda secondo cui la scuola italiana ”è lontana dalla società” “ i nostri ragazzi escono da scuola senza nessuna esperienza della realtà”, ecc. Dove naturalmente “realtà” e “società” coincidono perfettamente col mondo delle imprese e col mercato del lavoro.
Ora vediamo partitamente gli errori gravi e ostinati cui conduce questa linea. Senza qui soffermarci sui possibili effetti di lungo periodo. Quelli, intendo della progressiva distruzione della nostra tradizione culturale e di una intera civiltà.
La disoccupazione italiana non dipende certo dalla scarsa preparazione dei nostri giovani, capaci, al contrario, di industriarsi anche nei più disparati lavori, e pur possedendo spesso lauree e master vari. Da noi è più grave che altrove, per ragioni legate a vari fenomeni dello sviluppo italiano, alquanto noti, ma non certo per incapacità tecnica e culturale delle nuove generazioni. Il fenomeno, del resto, investe in diversa misura tutte le società industriali e non riguarda solo i giovani.
La disoccupazione è figlia di alcuni caratteri strutturali del capitalismo del nostro tempo per mutare i quali occorrerebbe uno sforzo politico sovranazionale di vasta portata. Essa dipende da alcune scelte ideologiche di politica economica, (la riduzione della capacità di investimento da parte dello stato, la restrizione del welfare, la politica fiscale non progressiva, ecc) e soprattutto dal carattere predominante assunto dal capitale finanziario (il Finanzcapitalismo analizzato da Gallino). Ma un più profondo ambito strutturale oggi opera nel capitale con caratteri di labor killing. L’innovazione tecnologica va distruggendo posti di lavoro. Sul punto la letteratura è ormai vasta, preoccupa la Banca mondiale e perfino l’ONU ha lanciato un grido d’allarme. (E.Marro, Allarme ONU: i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano, Il Sole 24 0re, 18.11.2016) Ed è ormai diventato un vano ritornello richiamare la “teoria” della caduta a cascata.
Dunque piegare la formazione delle nuove generazioni ai bisogni del lavoro che muta di giorno in giorno è pura insensatezza. Una verità nota agli esperti già dagli anni ’60, (F. Pollock, Automazione, Einaudi 1970) ma prontamente dimenticata dagli attuali novatori. Quel che occorre è, con ogni evidenza, una formazione culturale non piegata ad alcun specialismo, aperta e complessa, una “educazione della mente” che sappia affrontare con strumenti critici uno mondo sempre più velocemente mutevole. Che non è solo il mondo delle imprese e del lavoro. Senza dimenticare che i ragazzi vivono anche di sentimenti e passioni, sono immersi in una sfera spirituale che ha bisogno di orientarsi e arricchirsi. Il pensiero unico va cerca di infilarsi anche nella scuola, ma va soppresso sul nascere.
E’ vero che i difensori più intelligenti dell’alternanza scuola lavoro la mettono sul piano più generale della formazione di attitudine all’impresa. Ha scritto di recente Alessandro Rosina, riprendendo alcune indagini recenti come quella OCSE-PIAAC, che scopo di questo nuovo indirizzo della scuola deve essere quella di fornire ai ragazzi «l’intraprendenza, la capacità di lavorare in gruppo, l’abilità di problem solving, l’autoefficacia, il saper prendere decisioni» (La Repubblica, 3 dicembre 2016).
Dunque tutti imprenditori? Alla fine tutte le istituzioni della formazione si devono piegare ad uno scopo unico: creare degli individui efficienti sul piano delle attività produttive e di gestione d’impresa. Le nuove competenze infatti, scrive sempre Rosina, «devono diventare parte di un solido processo di riposizionamento delle nuove generazioni al centro dello sviluppo del Paese». Credo, contro la stessa intenzione di Rosina, che tale posizione esprima il pensiero unico all’opera sotto forma di progettualità innovativa, di proiezione verso il “futuro”, di nuovo slancio allo sviluppo dell’Italia. Incarni, insomma, l’ utopia di creare un “uomo nuovo” seriale, omogeneo, flessibile, interamente modellato dal suo finale compito economico. Ma davvero di questo tipo di figura abbiamo oggi bisogno per l’oggi e per il futuro? Compito della scuola è quello di rendere ancora più efficiente e innovativo il mondo delle imprese?
E’ paradossale osservare come la nozione di innovazione sia oggi interamente assorbita nell’ambito della tecnica e nella sfera dell’economia. Vale a dire l’ambito in cui l’innovazione è già incessante e senza requie, anche con esiti di grande portata per il miglioramento delle nostre condizioni di vita. Ma pressocché nessuno osserva la drammatica divaricazione che lacera la nostra epoca: mentre l’innovazione avanza vorticosa nel mondo della produzione e dei servizi essa non muove nessun passo nell’ambito dell’organizzazione sociale. Le nostre società poggiano su economie del XXI secolo, ma l’esistenza delle persone si muove entro quadri organizzativi della vita quotidiana che appartengono al XX secolo e tendono a indietreggiare verso il XIX. Mentre le ristrutturazioni organizzative, la digitalizzazione, i robot, (e già ora l’intelligenza artificiale, le stampanti 3D) sostituiscono masse crescenti di lavoratori da attività produttive e servizi, la giornata lavorativa resta quella del secolo passato, comincia al mattino e finisce la sera, la distribuzione del reddito è sempre più disuguale, la disoccupazione endemica, i servizi sempre più costosi e inaccessibili. Mentre c’ è sempre meno bisogno di lavoro, anziché progettare una società più libera, che si dia nuovi fini, che corrisponda a questo obiettivo processo di liberazione da bisogni e fatiche, si tenta di piegare l’intero processo della formazione delle nuove generazioni agli imperativi di una più efficiente produzione. Ma dov’è finita la capacità di pensare del ceto politico e dei suoi dintorni?
Naturalmente questa critica non è una difesa dello status quo della nostra scuola. Che anche gli studenti del liceo classico abbiano contatto con l’ambiente delle imprese può essere utile alla loro formazione. Ma il rapporto con tale ambito non deve essere finalizzato all’avviamento al lavoro, quanto a un arricchimento della loro formazione. E’ assai formativo che i giovani, specie se provenienti da famiglie borghesi, osservino da vicino chi sono le donne e gli uomini che tutti i giorni, con la loro fatica, attenzione, intelligenza, abilità assicurano la produzione della ricchezza del nostro Paese.
Non meno utile alla formazione dei ragazzi può essere la frequentazione delle aziende agricole. Ma anche qui non per trasformare lo studente in un apprendista lavoratore. E’ significativo del basso orizzonte dell’attuale ceto politico che si occupa di istruzione quanto ebbe ad affermare il sottosegretario all’istruzione del passato governo, Gabriele Toccafondi: «I ragazzi imparano a fare ma anche a vendere: lo studente che esce da un agrario deve saper fare un formaggio, ma anche saperlo vendere» (Corriere della Sera, 20.11.2014).
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