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«Possiamo affrontare il tema del lavoro in modo diverso? Possiamo dire chiaramente che non si difende qualsiasi lavoro? Che non possiamo proteggere la produzione di armi o la produzione di morte come avviene ad esempio a Taranto? È giunto il momento di smettere di produrre “ciò che produce profitto” per dedicarci a ciò che “serve collettivamente per vivere,” spiega Marvi Maggio. “Il tempo liberato dal lavoro è il criterio per capire quanto si stia andando nella direzione della trasformazione sociale…”. I soldi? “Ci sono e vanno dirottati dalle guerre e dagli sgravi alle imprese…Analisi e strategia, un nuovo stato sociale»
Neoliberismo: ruolo dello stato e
Il neoliberismo è contro le norme ambientali e le norme che difendono i lavoratori, è contro ogni regola che controlli e restringa lo spazio dell’impresa e dell’investimento. È, quindi, contro le norme urbanistiche e paesaggistiche quando dettano regole che riducono la possibilità di estrarre profitto e rendita (intesa come profitto da monopolio).
Il neoliberismo nasce con la Thatcher e Reagan proprio a fine anni Settanta e fa parte di una politica internazionale volta a distruggere tutto quello che avevamo costruito: i movimenti degli anni Settanta nelle scuole, università e posti di lavoro avevano spostato in modo rilevante i rapporti di forza a livello internazionale a favore delle classi subalterne. Il neoliberismo vuole eliminare le leggi e le regole che riducono il potere delle classi dominanti ma ne vuole altre che sostengono il suo potere.
Lo stato non è un corpo unico e univoco: al suo interno ci sono o ci sono stati elementi di welfare, di politiche di riequilibrio territoriale, di promozione di qualità territoriale, e contemporaneamente elementi di controllo, repressione di possibilità, tutte tese a conservare il potere delle classi dirigenti. Gli stessi servizi offerti dallo stato che oggi ci troviamo a proteggere dalla privatizzazione sono gli stessi che sono stati giustamente criticati per la scarsa qualità, l’ideologia e il pregiudizio familistico-democristiano che spesso contenevano, per la scarsa capacità di mettersi in rapporto con i fruitori, per la riduzione e semplificazione della complessità dei destinatari in categorie prestabilite e non verificate. Case solo per famiglie nucleari, scuole che tramandano ideologie del potere e non spirito critico, solo per fare degli esempi.
Chi lavora nella pubblica amministrazione assiste a processi di privatizzazione dei servizi, ma anche delle attività di governo: per esempio in Regione Toscana si ampliano i settori che si occupano di appalti di servizi e di progettazione, in cui il compito diventa dettare le regole in base alle quali il servizio verrà offerto o il progetto verrà redatto da soggetti privati, imprese o cooperative.
Con la scusa di promuovere lo sviluppo (capitalista) la Regione Toscana, ad esempio, distribuisce miliardi di finanziamenti europei alle imprese, che sono anche esonerate dalle tasse per il loro presunto ruolo di creare occupazione. Ma di quale occupazione stiamo parlando? Una produzione che risponde ai bisogni sociali e offre valore d’uso a tutti, oppure offre quel valore d’uso solo a chi lo può pagare? Bisogni fondamentali come quello della casa e quello della salute non trovano risposta, anzi ciò che prima, grazie alle lotte del passato (e non al compromesso capitale lavoro), era patrimonio di tutti, viene negato. Tutto quello che abbiamo avuto e abbiamo come diritto lo ha sempre conquistato chi ha lottato davvero per migliorare la situazione e non chi ha fatto compromessi. Ci sono riforme che sono un passo nella direzione di una trasformazione radicale e riforme che sono una scambio al ribasso (e questo descrive il compromesso). La descrizione dello stato sociale come compromesso elide la realtà: è stato conquistato con dure lotte inscritte in una ipotesi di trasformazione complessiva e non come contentino per stare zitti e piegare la testa.
Lavoro per tutti, ma utile per tutti
Oggi c’è un enorme bisogno di lavoro concreto che produce valore d’uso (non alienato).
La società in cui viviamo ha bisogno di una grande quantità di lavoro. Sto parlando di società, non del lavoro alienato di cui ha bisogno il capitalismo, ma del lavoro utile di cui abbiamo bisogno noi tutti.
Abbiamo bisogno di lavoro per far funzionare i servizi da offrire in modo universale: scuola, dagli asili nido, all’università, all’istruzione permanente; sanità a tutti i livelli, consultori; cura degli anziani di qualità e umana; cura del territorio, per garantire qualità idrogeomorfologica ed ecosistemica, per garantire qualità urbana, case per tutti, spazio pubblico, luoghi di incontro; cultura: biblioteche, archivi, teatri, luoghi per prove e per concerti, solo per fare degli esempi. C’è bisogno di numerosi nuovi servizi oltre che di far funzionare quelli che ancora esistono. In Italia un vero stato sociale, come è esistito nel Regno Unito del dopoguerra o nei Paesi Bassi, non è mai esistito.
C’è bisogno di un vero stato sociale ma diverso da quello del passato, diverso per contenuti, modalità organizzative, organizzazione del lavoro e per diritti dei lavoratori (che devono essere molti di più, assoluti e incondizionati). Reagan affermava: basta togliere i finanziamenti ai servizi pubblici e la gente si arrabbierà così tanto del fatto che non funzionino che accetterà di eliminarli e sostituirli con il privato.
Ma il lavoro non dovrebbe solo essere utile (produttore di valore d’uso) ma anche non alienato (e questo attiene ai diritti del lavoro). Appare evidente che il lavoro nelle pubbliche amministrazioni oggi sia alienato: non controlliamo nulla di quello che facciamo, molto è lavoro meccanico e burocratico, malgrado i nostri sforzi di dargli senso. La qualità del lavoro che offriamo alla collettività dipende solo in minima parte dal nostro impegno, per il resto dipende da scelte politiche spesso tese a ridurre l’offerta pubblica e la sua qualità per garantire nuovi ambiti di investimento economico per le imprese.
Un lavoro non alienato
La rivendicazione di nuove massicce assunzioni nel settore pubblico per risolvere la domanda sociale (per dare corpo allo stato sociale) e per garantire lavoro ai disoccupati, deve coniugarsi con la rivendicazione di un lavoro non alienato. Non alienato perché i lavoratori conoscono le ragioni, contribuiscono a individuare le soluzioni, a garantire la qualità del lavoro che offrono. E contribuiscono a definire i limiti: pensioni di vecchiaia a 60 e orario. Ci vuole una vera democrazia organizzativa e per far questo il diritto del lavoro deve essere trasformato in meglio.
Siamo in tanti a criticare molti dei servizi pubblici esistenti, come fruitori e come lavoratori. Come lavoratori vediamo un’organizzazione gerarchica, i cui vertici sono scelti con lo spoil system e non sono mai all’altezza del ruolo. Disciplina e valutazioni spinte al massimo, ma non per migliorare le attività, bensì per renderle militari, tese all’obbedienza ai capi (e ai politici al comando) e non alla soluzione dei problemi e alla risposta di domande sociali che sono plurime e non possono essere presunte come faceva lo stato sociale democristiano.
Sono necessari democrazia organizzativa nel lavoro e partecipazione dei fruitori per la conoscenza dei bisogni a cui rispondere e per la definizione del servizio o del bene da offrire.
Non si tratta certo di difendere l’esistente né tanto meno di tornare al passato.
Perché mentre vanno chiesti servizi che rispondano ai bisogni sociali è necessario che siano organizzati direttamente dai lavoratori e dai fruitori, in un contesto di vera democrazia partecipativa (o autogestionaria). Non servizi solo rivolti agli indigenti (come stanno cercando di fare per le case popolari in un ottica neoliberale in base alla quale lo stato può offrire servizi e beni fuori mercato solo agli indigenti, tutti gli altri devono passare attraverso il mercato), ma servizi di alta qualità rivolti a tutti in modo universale.
Questa è una proposta per rispondere con un lavoro non alienato alla domanda di lavoro.
I sintomi sono chiari, ma la vera questione sono le soluzioni. Io credo che la questione cruciale sia lo scenario in cui poniamo le nostre lotte.
Se è quello che propongo, non si difende qualsiasi lavoro, perché non difendo la produzione di armi o la produzione di morte come avviene a Taranto. Non si baratta l’occupazione con la vita e poi una volta morti che conta il reddito? E qui parlo quindi di cosa produco: non deve essere prodotto ciò che produce profitto ma ciò che ci serve collettivamente per vivere, e la produzione non deve distruggere il nostro patrimonio collettivo, il territorio e l’ambiente, la natura (per quanto già seconda natura trasformata dall’interazione con le società nel corso del tempo, conserva sempre una componente di naturalità).
Veniamo poi al lavoratore, all’alienazione dal lavoro, alla perdita di umanità (il lavoratore è alienato dalla sua stessa essenza, poiché il suo non è un lavoro costruttivo, libero e universale, bensì forzato, ripetitivo e unilaterale (Marx paragona l’operaio al Sisifo della mitologia greca). L’organizzazione del lavoro deve essere nelle mani dei lavoratori. Il tempo liberato dal lavoro è il criterio per capire quanto si stia andando nella direzione della trasformazione sociale, come giustamente pensava Marx.
Il punto cruciale è promuovere e costruire una società umana e non alienata, in cui i bisogni delle persone trovino risposta.
Per iniziare ad andare in questa direzione è necessario una massiccia e imponente assunzione di nuovi lavoratori che offrano i servizi in tutti i settori che ho citato (istruzione a tutti i livelli, sanità, cultura, cura anziani, cura dei bambini, cura del territorio) attraverso una organizzazione del lavoro finalizzata al destinatario del servizio, non gerarchica e fondata sulla cooperazione. Un lavoro pubblico che usi soldi pubblici per attività davvero utili e non per rincorrere lo sviluppo capitalista.
Questa ri-pubblicizzazione dei servizi e nascita di nuovi (per esempio per la cura degli anziani) serve ad andare nella direzione opposta della privatizzazione (che è finalizzata ad aprire nuovi settori al mercato capitalista) cioè a rendere di nuovo bene comune il benessere di tutti ottenuto attraverso servizi pubblici. Servizi che non siano organizzati come istituzione totale ma come servizio che riconosce la piena umanità del fruitore. Di conseguenza anche l’organizzazione del lavoro deve trasformarsi rispetto a quella esistente: invece delle gerarche e della competizione (la corsa dei ratti promossa dal governo) cooperazione e umanità.
La tattica del governo è quella di stanziare pochi soldi per il pubblico impiego in modo che la stabilizzazione dei tempi determinati sia in alternativa con gli aumenti stipendiali dei tempi indeterminati, in modo che solo una minoranza possa avere la produttività mentre i disoccupati, che premono fuori, faranno intendere che gli occupati siano dei privilegiati. Il discorso va ribaltato. I soldi ci sono e vanno dirottati dalle guerre, dagli sgravi alle imprese, dalle infrastrutture non funzionali che ai profitti delle imprese di costruzione, e dai politici e sottosegretari, al lavoro utile e necessario, in modo da sottrarre settori alle imprese, e al capitalismo e alla sua logica segregante, alienante, escludente e disumana, per renderli un nuovo bene pubblico.