Il manifesto, 6 settembre 2016 (p.d.)
È solo in Italia che questa espressione insignificante e fuorviante ha fatto strada, grazie al contributo indefesso di costituzionalisti di corte affetti da «nuovismo» cronico e sempre pronti ad assecondare le voglie dei potenti di turno, i quali chiedono più spazi per il (loro) governo e meno impedimenti alle (loro) decisioni. Ma il costituzionalismo non era nato per limitare, controllare, controbilanciare il potere di chi ha potere? La domanda è retorica, ma le risposte sul punto sono quasi sempre balbettanti.
Tuttavia, anche prendendo per buona l’etichetta di «democrazia governante», ci sono almeno tre ragioni per cui l’attuale progetto di revisione costituzionale non ci consegnerà una struttura di governo più stabile in grado di prendere decisioni più efficienti. La prima ragione è, per così dire, di contesto. Le democrazie nazionali – come ha scritto Peter Mair nel suo libro postumo (Ruling the void, 2013) tradotto da Rubbettino – sono destinate, e lo saranno sempre di più, a «governare il vuoto», a decidere tra alternative che non esistono, a regnare sul nulla. Ormai, le decisioni che contano e che incidono sui «margini di manovra» dei governanti nazionali sono prese altrove, al di fuori del recinto statale, da istituzioni sovranazionali dove il volere dei cittadini e la sovranità del popolo arrivano soltanto di riflesso, come un’eco lontana quasi impercettibile. Chi sognava una democrazia governante ha, dunque, sbagliato bersaglio e avrebbe fatto meglio a guardare all’Europa, non all’Italia.
La seconda ragione per cui questa fantomatica democrazia-che-decide è una, neanche troppo pia, illusione è che alla sua base c’è una diagnosi fallace. Da almeno un ventennio è sotto i nostri occhi, ma fingiamo di non vederlo: non è il «motore» (cioè l’impianto istituzionale) ad essersi inceppato, ma è il pilota, chi sta al posto di comando che non è più in grado di svolgere adeguatamente il proprio mestiere. Lo dico più chiaramente: non sono (tanto) le istituzioni che non funzionano, ma sono i partiti e i loro dirigenti, che avrebbero il compito di guidare il sistema politico, a non essere all’altezza della loro funzione. Ma, pur di non ri-formare se stessi, si industriano in ambiziosi progetti istituzionali destinati a girare perennemente a vuoto: avremo (ci dicono) un motore più veloce, ma non sapremo dove, come e con chi andare. E il riformismo dall’alto – si sa – ha sempre fatto pochissima strada, non solo in Italia.
L’ultima ragione della fallacia della cosiddetta democrazia governante in salsa italiana è che, pur progettata allo scopo prevalente di prendere decisioni rapide e «in tempi certi», manca clamorosamente il suo bersaglio.
L’impianto istituzionale che emerge dalle riforme elettorali e costituzionali ci consegna un senato sgangherato per composizione e confuso nelle sue funzioni. Il nuovo procedimento legislativo non sarà più snello, lineare o chiaro, ma dovrà percorrere un tortuoso iter – distinguendo ogni disegno di legge per tipologia, per materia e, in certi casi, anche per contenuto (generale o specifico) – che sarà foriero di numerosi conflitti inter-istituzionali e non produrrà né più leggi (come chiedono i «riformatori») né leggi migliori (come vorrebbero gli italiani).
Neanche la nuova legge elettorale, il tanto sbandierato Italicum, ci aiuterà a costruire una democrazia del buon governo. Restare immobilizzati in carica per cinque anni, a dispetto delle prestazioni e delle capacità dei governanti, oltre ad essere in contrasto con i principi del parlamentarismo, non è affatto sinonimo di stabilità politica. L’Italicum produrrà una rigidità istituzionale tipica del presidenzialismo, senza averne importato pesi e contrappesi. Alla fine, ci troveremo con un governo statico e stagnante, incapace di prendere buone decisioni, ma inamovibile dal potere.
Cercavano una democrazia governante e ci stanno propinando una «democrazia sgovernata». Meglio l’esistente che l’indecente.