I “localisti”, come Luciano Bianciardi chiamava i crociati un po’ miopi del decoro urbano, saranno sicuramente entusiasti. Non manca proprio niente: luce, grandi spazi, colori pastello, la tradizione che ti casca addosso da tutte le parti, comodità e comfort. In più, il che non guasta, si è parcheggiato senza problemi nell’enorme (quello, sì, sembra un po’ fuori scala) spianata d’asfalto chiusa tra i primi contrafforti delle colline
e un lungo skyline fatto di torri, abbaini, tetti spioventi. Siamo ai piedi dell’Appennino ligure, in un posto dove la Storia con la S maiuscola è di casa, sin da quando gli antichi romani fecero passare da qui la strada Postumia, lungo “corridoio” (per usare un termine di oggi) che collegava Genova, zigzagando attraverso la valle del Po, fino all’alto Adriatico. Ora il corridoio si chiama tecnicamente Voltri-Sempione, ma il ruolo di nodo strategico dei grandi flussi interregionali, qui fra Serravalle e Novi Ligure, è rimasto identico, come hanno ben capito gli ideatori dello skyline di torri, abbaini eccetera, che si profila all’orizzonte del parcheggio: il Serravalle Outlet Center. Perché non di centro o borgo storico si tratta, ma di una incredibile ricostruzione assai verosimile di tutti (e più di tutti), gli elementi visivi che “fanno” centro storico. E dentro, fra porticati e loggette rigorosamente ed elegantemente finti (ma meglio di quelli veri per chi non va troppo per il sottile), non abita nessuno, ma si allineano senza soluzione di
continuità le vetrine di Bulgari, Prada, Dolce & Gabbana, via via cento altri marchi più o meno noti. Aperto nell’autunno del 2000, e primo in Italia di una nuova generazione di “parchi commerciali” a vasto bacino di riferimento, l’Outlet si autodescrive così nel pieghevole pubblicitario: “Oltre 130 negozi delle firme più prestigiose di abbigliamento uomo-donna, sport, casa, accessori e giocattoli, si sviluppano lungo le piazze e le vie di una città davvero unica”. In un pur abbondantemente ironico articolo pubblicato poco dopo l’inaugurazione dell’Outlet sul periodico Architetti, dal titolo esplicito “Troppo bello per essere vero”, Roberto Almagioni non poteva fare a meno di apprezzare la cura con cui si mescolavano materiali, viste, comfort, per un ambiente che all’occhio poco allenato di un turista internazionale faceva molto Old Italy. Ma non si tratta solo di un problema di gusto, né di cosa da polemiche per architetti, ed è forse meglio a questo punto fare un passo indietro.
Il Factory Outlet, di cui l’esempio di Serravalle rappresenta per l’Italia solo un avamposto, è l’ennesima idea che re-importiamo (dopo i jeans e la pizza) dagli USA, completamente trasformata. Il concetto base è quello dello spaccio aziendale, ovvero della vendita diretta al pubblico da parte del produttore, senza passaggi intermedi, a cui si mescolano vari altri elementi, primo fra tutti lo schema ormai consolidato del centro commerciale territoriale di grandi dimensioni, pensato per un vasto bacino di riferimento, e che come i suoi “cugini poveri” che già ben conosciamo rompe gli equilibri fra centro e periferia, fra valori immobiliari, fra le gerarchie dei sistemi infrastrutturali. Del grande centro commerciale, il Factory Outlet eredita anche alcune brutte abitudini, che certo non bastano a cancellare l’intonaco pastello delle finte facciate settecentesche, o le merlature sognanti delle torri di guardia griffate di Serravalle. Queste brutte abitudini, sono piuttosto note a chiunque, residenti, amministratori locali o comitati, abbia avuto a che fare con l’atterraggio sul territorio di queste astronavi della grande distribuzione.
Nel caso specifico, è piuttosto illuminante una intervista che il promotore dell’iniziativa di Serravalle rilascia un paio d’anni fa al sito ICSC.org (Barbara Hogan Galvin, “Outlet Center Challenge”, giugno 2001), e che si inquadra in uno scenario europeo di crescita del settore, il cui luminoso futuro incontra però gli ostacoli, ahimè, della pianificazione territoriale e della decisione amministrativa ( the mantra is “zoning-zoning”, or “politics-politics”). Ostacoli comunque superabili, come appunto ci racconta il promotore. La zona, just south of Milan, appare sottosviluppata, sottoccupata, depressa, ma ci vuole del bello e del buono per convincere gli indigeni sulla bontà dell’iniziativa. Del resto, si tratta di “un gruppo di vecchi italiani che non parlavano inglese e non uscivano molto spesso dai confini della regione”, e la cosa richiede “molti, molti incontri”.
E forse non è un caso se, in altra parte dell’articolo, si accenna a una comparazione fra gli ostacoli allo sviluppo di questa nuova attività, e quelli che nel XIX secolo avevano accompagnato il sorgere delle prime ciminiere fra i campi di patate e di granturco. Probabilmente, da punto di vista degli operatori, la situazione è proprio questa: la società locale non capisce il proprio vantaggio, e diffida delle novità in quanto tali, rischiando di perdere il treno dello sviluppo, del rilancio economico nel segno del commercio e del turismo, e - perché no - anche del recupero ambientale e dei centri storici, scaricati dal surplus di aspettative economiche che, invece, possono riversarsi nei nuovi spazi, al tempo stesso funzionalmente moderni e tradizionali nell’aspetto. E se avessero ragione loro?
Non a caso l’ironico commento sulle pagine di Architetti, già citato, metteva in ridicolo soprattutto gli aspetti di finzione del “borgo settecentesco”, ma non mancava di sottolineare come attorno a quel giocattolino si iniziassero ad aggrappare, lungo l’asta della Statale 35bis che corre dal nodo di Serravalle fino a Spinetta Marengo, alle porte di Alessandria, tutte le paccottiglie transterziario-commerciali del caso: dai soliti scatoloni tristi delle esposizioni, alle discoteche, ad altre cose più o meno definibili o improvvisate, fino ai chioschi semipermanenti su ghiaiosi piazzali improvvisati, fra rotonde, svincoli, e accessi poderali segnati da un pioppo sopravvissuto. E se visivamente la cosa non va oltre quelle che siamo più o meno abituati ad accettare come “contraddizioni dello sviluppo”, destinate prima o poi a riassorbirsi o almeno a renderci un pochino blasé, basta dare un’altra occhiata ai pieghevoli pubblicitari, o a qualcuna delle mappe che spiegano il senso commerciale del Factory Outlet, per capire che il “punto di vista dell’impresa”, quello che gli old italian men who didn’t speak English hanno fatto tanta fatica a condividere, si applica a dimensioni che con la pianificazione territoriale e la decisione amministrativa, almeno come è possibile pensarle ora, hanno poco a che spartire.
La prima informazione che in qualche modo mi ha colpito, su uno dei pieghevoli pubblicitari disponibili all’interno dell’Outlet, è una pubblicità dell’Acquario di Genova, che rivolta ai bambini recita Disegna gli amici di Splaffy (la mascotte dell’Acquario): un concorso in collaborazione Outlet/Acquario. Sulla pagina interna, tra foto di delfini e moduli di
partecipazione da imbucare, una sorta di mappa/ideogramma racconta in rapidissimo flash l’idea territoriale di questo rapporto. Un pallino immerso nell’azzurro del Tirreno è l’Acquario; dal pallino nasce uno stelo verde che si chiama A7, e che sale dritto, via Outlet-Serravalle, fino a Milano; all’altezza di Tortona (poco sopra Serravalle) lo stelo si apre in un fiore di due petali denominati A21, che con curva regolare zampillano fino a Piacenza sulla sinistra, e Torino sulla destra. È uno scarabocchio di dieci centimetri quadri, ma la dice lunga sul bacino di riferimento di quel finto borgo antico, e trova conferma in un’altra mappa poco più ricca, che si articola però su tre fasce di distanza: l’isocrona dell’ora, delle due e delle tre. La più interna, con un raggio indicativo di una cinquantina di chilometri (siamo già ben oltre qualunque idea di centro commerciale), tocca appunto Genova e territori liguri limitrofi, e sul versante padano l’alessandrino e altre parti del Piemonte. La fascia intermedia, delle due ore indicative di percorrenza, include Milano, e in un colpo solo ingloba (esagerando, ma non troppo), anche la catchment area dell’aeroporto intercontinentale di Malpensa, i cui rapporti attuali e potenziali con la zona di Serravalle sono già ben saldi sul versante della logistica e dell’intermodalità nel trasporto merci. Ma c’è un’altra fascia, più esterna e pur realistica, che dopo aver sfiorato anche la Riviera francese tocca da un lato Torino, sul limite nord il confine svizzero, e a est il veronese e la gardesana (con il suo bacino di turismo europeo).
Del resto, non si fa nessuna fatica a pensare, che so, a un turista tedesco con base a Gardone, che dopo aver passato un pomeriggio al Vittoriale fra cimeli dannunziani, decide di fare una puntata a Serravalle per fare scorta di capi firmati con sconti fino al 50% rispetto ai prezzi dei negozi downtown di Milano o Francoforte. E l’enorme parcheggio fra le
fortificazioni griffate e le colline è già attrezzato per accogliere intere gite organizzate del genere, con ampi spazi per pullman climatizzati, e tanto di ufficio turistico all’interno. Meglio di Pompei, da un certo punto di vista. Come ci conferma uno studio della Bocconi (“Evoluzione della distribuzione commerciale: il factory outlet”, Dedalo 2-2003), “la possibilità di attirare clienti fino ad elevate distanze deriva dal fatto che la visita ad un factory outlet è anche percepita come un modo per trascorrere una giornata, che spesso si conclude con acquisti non programmati”. Nessuno ovviamente vuole impedire a Herr Müller e famiglia di andare dove gli pare e vestirsi all’ultimo grido, ma chi anche solo per un attimo ragiona sulla quantità di territorio percorsa, e per così dire “erosa” dai flussi direttamente e indirettamente generati dai viaggi di piacere e shopping, inizia ad avere un quadro meno generico sul senso concreto di quelle fasce isocrone. Aria, suolo, infrastrutture, servizi: tutti quei milioni di ettari a “servizio” di quell’elegante puntino al centro della catchment area.
Non è un caso se un comitato sorto all’altro capo della Megalopoli, lungo l’asta stradale che unisce l’ultimo tratto della Padana Inferiore alla Laguna di Venezia, chiede che prima di qualunque decisione su un possibile Factory Outlet da costruirsi nel territorio comunale di Conselve (PD), di raccogliere ogni possibile informazione sul caso di Serravalle, che si è scoperto essere una “fotocopia” del processo in corso nella pianura padovana. Le isocrone valgono anche per l’opposizione, fortunatamente, e così appare chiaro che quei segni sulla mappa non sono fantasticherie per attirare una pullmanata di mocciosi col miraggio di diventare Amici di Slappy, ma serissime proiezioni sulla base delle quali serissime banche erogano corposi finanziamenti ai promotori, lasciando poi agli old Italian men who don’t speak English e ai loro rappresentati il carico del traffico, degli squilibri, dei costi di adeguamento infrastrutturale e desertificazione della rete locale. Visione apocalittica? Sicuramente no. Solo realistica, almeno fermo restando l’attuale rapporto fra scala degli interventi e ambito decisionale politico-amministrativo.
Ed è il caso di iniziare a pensarci, se è vero come è vero che all’avamposto Serravalle – come precisa il citato studio dello SDA Bocconi – si aggiungerà “nei prossimi anni la realizzazione di nuovi insediamenti in diverse province tra cui Bologna, Roma, Mantova, Arezzo e Bari”. E in una intervista de La Nazione agli stilisti fiorentini sui vari modi per uscire dalla crisi che la “guerra infinita” di Bush fatalmente indurrà sui consumi voluttuari (Ilaria Ciuti, “Grandi griffes in trincea”), si indica proprio la strada del Factory Outlet, e una precisa ubicazione: Barberino del Mugello. Si accenna già alla forma architettonica possibile del nuovo borgo commerciale, che “sarà in perfetto stile toscano, anzi del Mugello”. Il tutto, nell’abituale scenario che “salta” dal negozio della Fifth Avenue a quello nel duty free di uno scalo giapponese, insomma a mille miglia fisiche e mentali dall’ambito decisionale di chiunque possa esercitare controllo pubblico sul territorio. Insomma, prossima fermata Barberino, e staremo a vedere.
E, magari, a ragionare, o fare.
Introduzione allo studio di impatto socio-territoriale dell'Outlel Serravalle