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Paul Vallely
Vorrei che tu non fossi qui: devastanti effetti del nuovo colonialismo
11 Agosto 2009
Clima e risorse
Aumenta a dismisura la quantità di terreni sequestrati da potenze straniere per “agricoltura da esportazione” senza rapporti col luogo. Su The Independent on Sunday, 9 agosto 2009 (f.b.)

Titolo originale: Wish you weren't here: The devastating effects of the new colonialists – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Sono migliaia i contestatori che scendono in piazza sventolando le bandiere arancio dell’opposizione. Poco dopo, comincia il saccheggio. Si appicca il fuoco agli edifici. Il punto si svolta arriva però quando la folla si sposta dalla piazza principale verso il palazzo presidenziale. Nella confusione, qualcuno preso dal panico dà ordine alle truppe schierate a guardia del palazzo di aprire il fuoco. Parecchi morti. I leaders della protesta decidono di farla finita: si assale il palazzo e il presidente fugge.

Un tipico colpo di stato africano? Non proprio. Di sicuro c’erano accuse di corruzione nelle alte sfere. Il presidente aveva comprato un jet privato – da un componente della famiglia Disney – per uso personale. Era accusato di stravaganze eccessive, di uso improprio delle risorse pubbliche e di mescolare gli interessi dello stato coi propri. Ma era qualcosa d’altro ad aver fatto montare la protesta a Antananarivo, la capitale del Madagascar, qualche mese fa, e a far abbattere il governo di Marc Ravalomanana nell’ex colonia francese.

I poveri della città erano infuriati per il prezzo degli alimentari, aumentati da quando l’anno precedente c’era stato un forte aumento di quelli globali di grano e riso. I poveri sono più colpiti di quanto avviene nel nostro caso, perché spendono due terzi del proprio reddito per l’alimentazione. Ma quello che li aveva spinti all’azione era la notizia di un accordo siglato di recente dal governo con la multinazionale coreana Daewoo, e che concedeva 1,3 milioni di ettari di superficie agricola – quasi le dimensioni di un paese come il Belgio, circa metà dell’arativo dell’isola – in uso alla compagnia straniera per 99 anni. La Daewoo intendeva coltivarci granturco e palme da olio: ed esportare tutto il raccolto in Corea del Sud.

Originariamente non erano stati resi pubblici i termini dell’accordo. Ma poi erano filtrate notizie, attraverso il Financial Times di Londra, secondo le quali non era stato pagato nulla in cambio. La Daewoo aveva promesso di intervenire sulle infrastrutture dell’isola in cambio del proprio investimento. “Daremo posti di lavoro in cambio della possibilità di coltivare, il che conviene al Madagascar” diceva un portavoce Daewoo. Ma il vantaggio diretto in denaro per il Madagascar era pari a zero: in un paese dove si riesce a malapena a produrre alimentari per il consumo interno: quasi la metà dei bambini dell’isola con meno di cinque anni risulta malnutrita.

Il governo del presidente President Ravalomanana è stat oil primo al mondo ad essere rovesciato a causa di quello che la FAO/ONU definisce “ landgrabbing” accaparramento di terreni. L’accordo Daewoo è solo uno dei cento e più siglati negli ultimi dodici mesi, che hanno visto enormi distese di superfici coltivabili in tutto il globo acquisite da paesi ricchi o multinazionali. Il fenomeno sta subendo una allarmante accelerazione, che ha coinvolto solo negli ultimi sei mesi una superficie pari a tutta quella agricola europea.

Per meglio comprendere la furia impotente che ciò può provocare nei contadini impoveriti, pensiamo alla reazione che potrebbe provocare qualcosa del genere in Gran Bretagna. Il consulente internazionale Mark Weston prova con questa vivida immagine: “Diciamo, se la Cina, dopo una breve negoziazione con un governo britannico disposto a tutto per avere un po’ di valuta estera dopo un crollo economico, si comprasse tutto il Galles, sostituisse gli abitanti con lavoratori cinesi, trasformasse l’intero territorio in una enorme risaia, e spedisse per 99 anni tutta la produzione in Cina”.

“Immaginiamoci che né i gallesi deportati, né il resto degli abitanti sapesse cos’ha avuto in cambio da tutto questo, e si debba contentare di vaghe promesse secondo le quali i nuovi padroni interverranno su qualche porto, o strade, creando dei posti di lavoro.

“E poi immaginiamoci che dopo qualche anno – teniamo sempre presente che recessione e crollo della sterlina hanno già resi difficoltoso per il paese comprare alimenti all’estero – il picco petrolifero o un disastro ambientale in uno dei grandi produttori mondiali di cereali spinga ad impennarsi di colpo i prezzi alimentari mondiali, oltre le possibilità di moltissimi britannici. Nel frattempo i cinesi dal Galles continuano a spedire riso in Cina, e gli affamati guardano senza poter far nulla, stramaledendo il giorno in cui il loro governo ha svenduto metà delle superfici arabili. Qualcuno inizierà a preparare la ripresa con la violenza delle valli gallesi”.

Se cambiamo i nomi e ci mettiamo Africa, lo scenario diventa assai meno ipotetico. Anzi sta già iniziando a succedere, ed ecco perché sono in molti, come Jacques Diouf, che dirige la FAO/ONU, ad avvertire che si sta scivolando verso un sistema di “neo-colonialismo” mondiale. Anche quei grandi sostenitori del libero mercato che scrivono sul FT, definiscono l’accordo della Daewoo come “rapace” e avvertono come si tratti di un “esempio particolarmente sfacciato di un fenomeno molto più ampio” in cui nazioni ricche cercano di acquisire le risorse naturali di quelle povere.

Questo nuovo colonialismo ha caratteri molto ampi. Chi compra sono nazioni ricche le quali non riescono a coltivare ciò che serve per mangiare. Sono gli Stati del Golfo all’avanguardia del nuovo investimento. Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar – che complessivamente controllano il 45% del petrolio mondiale – si stanno aggiudicando fertili terreni agricoli fra Brasile, Russia, Kazakhstan, Ucraina, Egitto. Ma si rivolgono anche a paesi molto più poveri, come l’Etiopia, il Camerun, l’Uganda, lo Zambia e la Cambogia.

Incredibili le suerfici di terreni coinvolte. Compagnie sud-coreane si sono comprate 690.000 ettari di Sudan, e ci sono almeno sei altri paesi che hanno acquisito grosse proprietà terriere o le controllano: là dove l’alimentazione per le popolazioni locali ha la più elevata precarietà del mondo. I sauditi stanno trattando per 500.000 ettari in Tanzania. Alcune imprese degli Emirati Arabi Uniti hanno concluso per 324.000 ettari in Pakistan.

Non sono i soli. Paesi con grandi popolazioni, come Cina, Corea del Sud, anche l’India, stanno acquisendo ampie superfici di territorio africano per produrre alimenti destinati all’esportazione. Il governo indiano ha concesso prestiti a 80 compagnie per l’acquisto di 350.000 ettari in Africa e ha recentemente abbassato i dazi di importazione per i prodotti agricoli dall’Etiopia. Uno dei più grossi conglomerati agricoli del mondo è una compagnia di Bangalore, Karuturi Global, che ha acquisito di recente alcune aree fra Etiopia e Kenya.

E non è solo all’alimentazione che guardano i nuovi colonialisti. Circa un quinto di questi accordi riguarda terreni per la coltivazione di prodotti da biocarburanti. Compagnie britanniche, Usa e tedesche, con nomi come Flora Ecopower, hanno comprato terreni in Tanzania o Etiopia. Il paese diventato famoso per il problema della fame ai tempi dei concerti Live Aid, oggi vede oltre 50 investitori che siglano accordi definitivi o dichiarazioni preliminari di interesse per coltivare biofuel sul suo territorio.

Dal punto di vista dell’Etiopia, la logica economica sembrerebbe impeccabile: il paese importa petrolio e quindi è esposto alle fluttuazioni dei prezzi nel mercato mondiale; producendo biocarburanti si diminuisce la dipendenza. Ma è una cosa che si paga. Per far contenti gli investitori, il paese non deve chiedere alcuna valutazione di impatto ambientale. Attivisti locali affermano che il 75% dei terreni destinati a queste colture sono oggi coperti di boschi destinati ad essere tagliati.

Più preoccupanti i progetti di una compagnia norvegese, per realizzare “la più grande piantagione di jatropha del mondo” deforestando enormi superfici del Ghana settentrionale. La jatropha, che cresce anche su terreni molto poveri, dà semi oleosi che si usano per i biocombustibili. Un attivista locale, Bakari Nyari, dell’African Biodiversity Network, accusa la compagnia di “usare metodi che ci fanno tornare ai tempi più bui del colonialismo ... a ingannare qualche capotribù analfabeta convincendolo a siglare con l’impronta del pollice la cessione di 38.000 ettari”. La compagnia sostiene che il piano creerà posti di lavoro, ma con l’enorme deforestazione si toglierà agli abitanti la fonte di reddito tradizionale da raccolta dei suoi prodotti, come la noce della Vitellaria Paradoxa.

Il mancato accordo Daewoo in Madagascar sarebbe stato quello per la superficie più grande siglato sinora, ma non è certo l’unico.

Quali sono le cause di questa improvvisa esplosione negli acquisti di terreni in tutto il mondo? le radici affondano nella crisi alimentare del 2007/8, quando i prezzi di riso, grano e altri cereali sono schizzati alle stelle in tutto il mondo, accendendo rivolte da Haiti al Senegal. Il picco dei prezzi ha anche spinto i paesi produttori a intervenire sui dazi di esportazione delle colture essenziali per ridurre le quantità che uscivano dai confini. Restringendo ulteriormente l’offerta, e facendo crescere ancora i prezzi per via di una situazione determinata da scelte politiche, anziché dai meccanismi di domanda e offerta.

Si è anche iniziato a chiedersi in molti paesi ricchi che dipendono da massicce importazioni, se avesse ancora senso seguire quello che pareva un elemento fondamentale dell’economia globalizzata: l’idea che ciascun paese dovesse concentrarsi sui propri prodotti migliori, e per il resto affidarsi al mercato. Improvvisamente, anche avere somme inimmaginabili derivanti ad esempio dal petrolio, non era più sufficiente a garantire tutti gli alimenti necessari. Gli sceicchi del petrolio negli stati del Golfo scoprivano che nel giro di cinque anni le importazioni alimentari avevano raddoppiato il prezzo. E il futuro riserbava anche di peggio. Non ci si poteva più basare solo su mercati regionali, né globali. Iniziava l’accaparramento delle terre.

La logica era evidente. La popolosissima Corea del Sud è il quarto importatore mondiale di granturco; l’accordo del Madagascar avrebbe tagliato di metà queste importazioni, come vantava un portavoce Daewoo. Anche per gli stati del Golfo la cosa era simile: il controllo su terreni all’estero non assicurava solo forniture di cibo, avrebbe anche eliminato la quota degli intermediari, riducendo di un ulteriore 20% la bolletta delle importazioni.

I vantaggi potevano solo aumentare. Le condizioni fondamentali che avevano condotto alla crisi alimentare globale restavano identiche, col rischio di probabile ulteriore peggioramento. L’ONU prevede che entro il 2050 la popolazione mondiale sarà aumentata del 50%. Coltivare per dar da mangiare a nove miliardi di persone significa una pressione enorme sul pianeta, erosione dei suoli, deforestazione, prosciugamento de fiumi. Col cambiamento climatico le cose si fanno anche peggiori. Continueranno ad aumentare i prezzi del petrolio, e insieme quelli dei fertilizzanti e dei carburanti per i trattori. La domanda di biocarburanti restringerà ancora le superfici disponibili alle colture alimentari. La stretta sui prezzi del 2007/8 potrebbe essere solo un assaggio di qualcosa di molto peggio. I tempi dell’abbondanza sono già finiti. Ci aspettano tempi in cui non ci sarà da mangiare a sufficienza, anche per chi ha tanti soldi.

Qui non ce ne siamo ancora accorti, perché nel Regno Unito, un po’ come negli Usa, sembra si abbia una istintiva e illimitata fiducia nella capacità del mercato di risolvere tutto. Altri paesi però hanno già cominciato a studiare risposte strategiche di lungo periodo.

Il segnale più chiaro è emerso in giugno, quando appena prima del G8 in Italia il primo ministro giapponese Taro Aso ha chiesto: “L’attuale crisi alimentare è solo un’altra piccola deviazione momentanea del mercato?” Ma si è subito risposto da solo: “Sembra proprio di no: siamo in una fase di transizione verso un nuovo equilibrio, che rispecchi la nuova realtà economica, climatica, demografica ed ecologica”.

Anche il mercato ha da dire la sua: il costo dei terreni è in aumento. I prezzi sono balzati del 16% in Brasile, del 31% in Polonia, del 15% negli Stati Uniti medio-occidentali. Ci sono veterani della speculazione come George Soros, Jim Rogers o Lord Jacob Rothschild che si stanno accaparrando terreni agricoli anche in questo stesso momento. Rogers – che fra il 1970 e il 1980 ha aumentato il valore del suo portfolio titoli del 4.200%, e che si è fatto una ulteriore fortuna prevedendo le incursioni nelle merci del 1999 – lo scorso mese ha dichiarato: “Sono convinto che i terreni agricoli rappresentino uno degli investimenti migliori della nostra epoca”.

Dopo il disastroso coinvolgimento degli speculatori finanziari nel settore della casa – la recessione globale affonda le sue radici nello sviluppo di derivati dai mutui – non appare certo rassicurante che siano i medesimi prestigiatori a trasformare le terre in nuova fonte di profitti. “La crisi finanziaria e quella alimentare si combinano” commenta il gruppo di pressione filippino sulle questioni alimentari Grain, “e hanno trasformato la terra agricola in un nuovo cespite strategico”.

Da un certo punto di vista, si tratta di un’ottima cosa per i paesi poveri. La terra è una cosa di cui c’è abbondanza da loro. E il settore agricolo nelle nazioni in via di sviluppo ha bisogno urgente di capitale. Un tempo proveniva dagli aiuti, ma la quota di questi destinata all’agricoltura è caduta dai 20 miliardi di dollari l’anno del 1980 a soli 5 miliardi nel 2007, secondo Oxfam. É solo il 5% degli aiuti che va all’agricoltura e allo sviluppo rurale, nonostante nelle zone più povere come l’Africa, sia oltre il 70% della popolazione a basarsi su questa attività per il proprio reddito. Decenni di scarsi investimenti significano ristagno di produzione e produttività.

Gli accordi per lo sfruttamento delle terre agricole dovrebbero se non altro risolvere questo aspetto, riversando investimenti molto necessari nell’agricoltura di questi paesi. Ciò dovrebbe creare nuovi posti di lavoro e un reddito costante ai poveri delle zone rurali. E poi nuove tecnologie e conoscenze agli operatori locali. Sviluppare le infrastrutture rurali, strade, sistemi di immagazinaggio dei cereali, a vantaggio dell’intera comunità. Contribuire alla costruzione di nuove scuole, strutture sanitarie utili a tutti. Dare ai governi africani il gettito fiscale di cui c’è tanto bisogno, da investire nello sviluppo dei propri paesi. Tutto questo dovrebbe diminuire la dipendenza dagli aiuti per l’alimentazione. Insomma il landgrab come situazione in cui guadagnano tutti.

È questa l’interpretazione del tutto positiva data dal governo del Kenya all’accordo siglato recentemente con lo stato del Qatar. Nell’emirato arabo solo l’1% della terra è coltivabile, e dunque il Qatar è fortemente dipendente dalle importazioni alimentari. L’accordo prevede che il Qatar acquisisca 40.000 ettari di terreni per coltivare alimenti in cambio della costruzione di un porto container del valore di 2,5 miliardi di dollari a Lamu in Kenya.

Purtroppo, nel corso dell’avanzamento delle negoziazioni col Qatar, il governo africano è stato costretto a dichiarare lo stato di emergenza: un terzo della popolazione del paese (in tutto 34 milioni di persone) aveva carenze alimentari. Il presidente Mwai Kibaki ha chiesto l’aiuto internazionale. Gli elettori se sono affamati non riescono a capire bene i vantaggi economici di lungo termine che possono arrivare al Kenya dalla creazione del proprio secondo porto container, in cambio della cessione di un terzo del paese – nell’arido è dimenticato nord-est – allo sviluppo agricolo. Dopo tutto, questo è un paese dove per la terra si uccide, come dimostrato dopo le pasticciate elezioni del 2007.

Se peggiora la crisi alimentare mondiale, come tutti sembrano prevedere, diventerà anche meno politicamente appetibile per un governo come quello del Kenya incoraggiare enormi esportazioni di cibo in momenti di carenza. Cosa tanto più vera in un continente politicamente instabile come l’Africa.

Esiste comunque già, una forte opposizione da parte di molti a progetti di questo tipo. Le terre offerte al Qatar si trovano nel delta del fiume Tana. Terre fertili con acqua dolce in abbondanza, ma abitate da 150.000 famiglie di agricoltori e pastori che le considerano di uso comune, e dove pascolano 60.000 capi. Hanno minacciato resistenza armata. Sono sostenuti da attivisti di opposizione, i quali non sono tanto contrari alla trasformazione delle terre, ma vorrebbero che fossero usate per dar da magiare agli affamati kenyani. Poi ci sono gli ambientalisti, contrari alla distruzione di un ecosistema di acquitrini di mangrovie, boschi e savana.

Perché è l’ambiente, una delle grosse preoccupazioni di questa corsa agli accordi per la terra. Le grandi piantagioni significano di norma monocoltura intensiva con grosse quantità di pesticidi e fertilizzanti. Con risultati produttivi spettacolari in un primo tempo, in grado di soddisfare il portafoglio degli investitori esterni in cerca di profitti di breve termine. Ma si rischia di danneggiare la sostenibilità a lungo termine, perché i terreni tropicali non sono adatti alle colture intensive, e con gravi ripercussioni sul sistema idrico locale. Si riduce la varietà delle piante, degli animali, degli insetti, la fertilità di lungo periodo dei terreni attraverso l’erosione del suolo, saturazione d’acqua o incremento di salinità. L’uso intensive di prodotti chimici per l’agricoltura può condurre a problemi di qualità dell’acqua, e l’irrigazione delle terre per gli investitori stranieri può avvenire a scapito di altri usi.

L’acqua è una questione fondamentale. In un certo senso, più che sottrarre terre qui ci si prende l’acqua, osserva il responsabile esecutivo della Nestlé, Peter Brabeck-Letmathe. Insieme al terreno c’è il diritto di usare l’acqua che ci sta sotto, che può dimostrarsi l’aspetto più vantaggioso dell’accordo. “Il prelievo di acqua per l’agricoltura continua a crescere rapidamente. In alcune delle regioni più fertili del mondo (America, Europa meridionale, India settentrionale, Cina nord-orientale), il suo uso eccessivo, principalmente per l’agricoltura, sta portando a uno sprofondamento delle falde. Si preleva acqua dal sottosuolo, e non più sul’arco dell’anno come complemento, ma in modo costante, principalmente perché l’acqua è considerata un bene liberamente disponibile”.

Il mondo deve urgentemente iniziare a riflettere sul tema dell’acqua. Mediamente una persona usa fra i 3.000 e i 6.000 litri al giorno. A malapena un decimo viene usato per l’igiene o la produzione industriale. Tutto il resto va per l’agricoltura. E il tipo di vita che si conduce, con cose come l’incremento nel consumo di carne, sta esasperando il problema. Per la carne sono necessarie quantità d’acqua di 10 volte superiori a quelle delle piante per ogni caloria. E i biocarburanti sono fra le colture più assetate del pianeta: servono 9.100 litri d’acqua per far crescere la soia necessaria a un litro di biodiesel, e 4.000 litri per il granturco che diventerà bioetanolo. Alle condizioni attuali, così come viene gestita l’acqua, continua il responsabile capo della Nestlé, “la finiremo molto prima dei carburanti”.

E già in molte situazioni la falda sotterranea precipita di parecchi metri l’anno. Fiumi si prosciugano per eccesso di sfruttamento. I problemi peggiori sono in alcune delle più importanti aree agricole del mondo. Se continua la tendenza attuale, avvere Frank Rijsberman dell’International Water Management Institute, presto “potremmo avere perdite annuali equivalenti all’intero raccolto di cereali dell’India e degli Usa insieme”. Che fra tutti e due producono un terzo dei cereali del mondo.

C’è un futuro? L’International Food Policy Research Institute di Washington crede di si. Ha recentemente pubblicato un rapporto con raccomandazioni per un rigido codice di condotta, a promuovere quello che il Giappone, principale importatore di alimenti al mondo, chiedeva al G8 in Italia: investimenti stranieri responsabili nel settore agricolo, in relazione all’attuale distorta pandemia degli accaparramenti di terre.

Ci vogliono regole “con gli artigli” ad assicurare che i piccoli operatori che vengono sfrattati dalle proprie terre possano concordare vantaggi mutui con governi stranieri e multinazionali. Ci vogliono regole per far sì che in qualunque accordo, se si promettono posti di lavoro, poi si rispettino livelli retributivi e si realizzino le strutture. Ci vuole trasparenza, e azioni legali negli stati delle imprese che utilizzano la corruzione, anziché cause intentate e processi nei paesi del terzo mondo. Ci vuole rispetto per i diritti vigenti sulle terre: non solo quelli scritti, ma anche quelli consuetudinari e derivanti dalle pratiche. Occorre una condivisione regolamentata dei vantaggi, in modo che si realizzino scuole e ospedali, e chi abita nelle aree circostanti a quelle cedute abbia abbastanza da mangiare. Si indicano tempi più brevi per la durata dei contratti, perché ci sia un reddito regolare ai contadini a cui è stata sottratta la terra per altri usi. Meglio ancora sarebbe avere contratti che consentono ai piccoli operatori di continuare a gestire le terre anche se a certe condizioni concordate con l’investitore straniero. Si chiedono valutazioni di impatto ambientale adeguate. E che gli investitori esteri non abbiano il diritto di esportare durante le gravi crisi alimentari interne.

Nessuno certo può credere che questo sia facile. Le elites locali dei paesi in via di sviluppo hanno certo forti e ovvi interessi nei vantaggiosi accordi che si offrono. Il governo della Cambogia promuove ampiamente questa pratica del landgrab, avvantaggiandosi del fatto che molti certificati di proprietà dei terreni sono stati distrutti nel periodo del terrore dei Khmer Rouge. Il Mozambico ha siglato un accordo da due miliardi di dollari che comporta 10.000 “coloni” cinesi sul suo territorio, in cambio di 3 miliardi di dollari in aiuti militari da Pechino. Chiarissime le considerazioni strategiche. “In questo mondo il cibo può essere un’arma” per usare le parole di Hong Jong-wan, dirigente della Daewoo.

Ma si stanno raccogliendo le forze anche nell’altro campo. Gli accparramenti di terra sono “una grave violazione del diritto umano al cibo”, secondo Constanze von Oppeln dell’importante agenzia di sviluppo tedesca Welthungerhilfe, una delle più importanti del settore. Parla a nome dei molti che non hanno voce a livello internazionale, anche se fanno sentire sempre più forte la propria presenza nei loro paesi. É esplosa una fortissima reazione pubblica in Uganda quando il governo ha iniziato gli incontri col ministero egiziano dell’agricoltura, per la concessione di quasi un milione di ettari a imprese egiziane destinati a produrre grano e mais per il Cairo. Anche in Mozambico c’è stata una resistenza simile all’insediamento delle migliaia di coloni cinesi nelle terre concesse. All’inizio di quest’anno, i filippini infuriati sono riusciti a bloccare un accordo del proprio governo con la Cina per la strabiliante superficie di 1.240.000 ettari. Il mese scorso gli stessi attivisti hanno reso pubblico quello che definiscono un “patto agricolo segreto” fra il governo filippino e quello del Bahrain. In presenza di un 80% dei 90 milioni di abitanti privo di terre, l’accordo è “illegale e immorale”, hanno dichiarato.

Ciò che si mangia tocca qualcosa di assai profondo nella psiche umana. C’è da credere che nessuna delle due parti cederà senza lottare.

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