CONTRO LE ESTRAZIONI PETROLIFERE
PER LA CONVERSIONE ECOLOGICA DELL’ECONOMIA
IL CASO BASILICATA
Convegno Nazionale di Potere al Popolo
Potenza Salone del Cestrim Via Sinni
La Basilicata è un caso emblematico di come la politica economica centrata sull’estrazione di petrolio e l’uso dei combustibili fossili sia devastante non solo in termini di emissioni di carbonio o gas serra ma anche in termini di salute, pace, diritti ambientali e umani. Uscire dal fossile significa mettere in discussione un modello di sviluppo basato su un sistema di produzione e consumo che sfrutta e degrada risorse, territori e lavoro, e che moltiplica i conflitti al fine di accaparrarsi pozzi, trivelle e raffinerie.
Ci troviamo così di fronte a una dura scelta: continuare ad alimentare un sistema di produzione energetica che sconvolge il clima e ogni aspetto della nostra vita, oppure avviare una profonda transizione non solo verso un nuovo modo di produrre energia, ma anche di utilizzare risorse, produrre, consumare, abitare il pianeta. In questo convegno, a cura dei Tavoli Ambiente e Lavoro di Potere al Popolo, a partire dagli impatti dell’estrattivismo in Basilicata proveremo a delineare questa scelta. Vogliamo intraprendere un percorso che, partendo dal gigantesco patrimonio di storia, cultura e civiltà ignorato e tendenzialmente cancellato dal modello in atto, metta in campo un’economia che privilegi i bisogni sociali e la protezione dell'ambiente.
PROGRAMMA
Domenica 29 Settembre 2019 ore 10.00 – Salone del Cestrim, Potenza
Incontro dibattito “ Contro le estrazioni petrolifere per la conversione ecologica dell’economia: il caso Basilicata”
Introduzione
di Antonella Rubino
Liberiamoci dal fossile per realizzare una giustizia ambientale e sociale
di Ilaria Boniburini
V.I.S. – Valutazione Impatto Sanitario: Uno strumento di sanità pubblica
del Dott. Giambattista Mele
Petrolio e inchieste giudiziarie in Basilicata: ipotesi di disastro ambientale
Avvocato Giovanna Bellizzi.
Dalle Vigne di Viggiano a C.da La Rossa di Montemurro a Tempa Rossa di Corleto Perticara: l’industria petrolifera occupa le campagne lucane
di Vincenzo Ritunnano
Seguiranno gli interventi di associazioni, movimenti e singoli cittadini.
Conclusioni
di Giorgio Cremaschi
di Lidia Ronzano - Coordinamento Regionale Acqua Pubblica di Basilicata
Premessa
Gli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), la struttura scientifica dell’ONU che si occupa di Cambiamenti Climatici, hanno recentemente lanciato un forte allarme: entro il 2030 bisogna ridurre la CO2 almeno del 45% perché, in caso contrario, le temperature potrebbero innalzarsi di più di 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali provocando conseguenze catastrofiche, incontrollabili ed irreversibili. Insomma, non è più procrastinabile la TRANSIZIONE verso un sistema produttivo e di consumo non più basato su sprechi e fonti fossili e non più energivoro come l’attuale, ma orientato verso principi di sobrietà e di equa distribuzione delle risorse.
In Basilicata, però, si va in tutt’altra direzione con l’aggravante che ciò che accade è totalmente ignoto al di fuori dei confini regionali per via del patto di assoluto silenzio che sembra essere stato concordato fra tutti i media nazionali. Solo i gruppi attivi nella difesa dell’ambiente e dei diritti dell’uomo ne sono - in parte - a conoscenza grazie ai canali del web ed alle informazioni provenienti da associazioni, movimenti e cittadini locali che da decenni si battono contro i danni ambientali provocati dall’attività estrattiva.
In questa piccola regione, di soli 9.995 Kmq e con una popolazione di circa 560.000 abitanti al 2018 ed in continuo decremento, si trova il più grande giacimento on-shore (in terra ferma) d’Europa e si estrae più dell’80% del petrolio italiano, con conseguenze drammatiche sulla salute dei cittadini, sull’ambiente in generale ed, in particolare, sulla qualità dell’acqua, bene comune che qui è presente in abbondanza e la cui tutela dovrebbe essere assolutamente prioritaria, considerata la prospettiva di progressiva desertificazione dell’intero pianeta.
Ed invece la Basilicata è priva di un Piano Regionale di Tutela delle Acque e di un Piano Paesistico Regionale e continua a puntare sulle fonti fossili e sullo sfruttamento dei grandi giacimenti che, purtroppo, sono diffusi ovunque sul suo territorio.
Un po’ di storia del petrolio in Basilicata
Fin dal XV secolo le popolazioni lucane assistevano al manifestarsi di lingue di fuoco che segnalavano il bruciare del metano ed è del 1902 la notizia di fuoriuscite superficiali spontanee di petrolio e gas.
Già agli inizi della sua attività l’Agip -Azienda Generale Italiana Petroli, nata con Regio Decreto del 1926- si accorse della presenza di idrocarburi nella zona di Tramutola, in alta Val d’Agri e fra il 1939 ed il 1947 perforò, in quella zona, ben 47 pozzi.
Durante la seconda guerra mondiale sono proprio i prodotti petroliferi della Val d’Agri a permettere all’Italia di sopperire al blocco delle importazioni. Nel 1945 Enrico Mattei, su pressione degli americani interessati ad appropriarsi del petrolio italiano, riceve l’incarico di liquidare l’Agip ma, disattendendo il mandato, la trasforma in un colosso italiano del petrolio che, nel 1953, si dota del logo con il cane a sei zampe e diventa ente pubblico -Ente Nazionale Idrocarburi – sotto la presidenza dello stesso Mattei che durerà fino alla sua morte (1962). L’ENI verrà convertita in spa nel 1992.
All’inizio degli anni Sessanta Mattei punta fortemente sulla Basilicata scoprendo che anche la Valle del Basento è una miniera d’oro, ricca com’è di metano e petrolio. I lucani, da sempre poveri, vengono irretiti e gasati fino al punto da farli scendere in cortei che reclamano lo sfruttamento del sottosuolo.
Le ricerche, con la scoperta di molte altre sacche di idrocarburi, continuano nei decenni successivi, ma l’attività intensiva inizia negli anni ’80 e continua, senza interruzioni, fino ai giorni nostri.
La situazione attuale
Dai dati UNMIG (Ufficio Nazionale Minerario Idrocarburi e Georisorse – MISE) del 31.12.2018, la Basilicata risulta interessata da 19 concessioni di coltivazione (estrazione), 6 permessi di ricerca già accordati ed 1 concessione di stoccaggio, oltre a 17 nuove istanze di permesso di ricerca di petrolio e gas in terraferma, già presentate ed in attesa di autorizzazione.
Se tutte queste nuove istanze venissero concesse, più del 60% del territorio lucano sarebbe interessato da attività estrattive.
Sempre secondo i dati dell’UNMIG, in Basilicata ci sono 487 pozzi petroliferi perforati in terra ferma, di cui 271 sono in provincia di Matera e 216 in provincia di Potenza. Ad oggi i pozzi in produzione sono circa 40.
I comuni interessati da iniziative di ricerca ed estrazione petrolifera sono 81 sui 131 esistenti.
Carta titoli idrocarburi 30.6.2018 |
Va detto che attualmente dovrebbe essere in atto una sospensione delle nuove istanze e delle attività di prospezione e ricerca, per effetto della legge n.12 dell’11 febbraio 2019; il condizionale è d’obbligo, visto che dopo l’approvazione della legge non sono stati emanati gli atti amministrativi necessari a decretare concretamente la sospensione. La legge, molto avversata dai movimenti No Triv, prevede la redazione, a cura del MISE e del Minambiente, del PiTESAI - Piano per la Transizione Sostenibile delle Aree Idonee - che dovrebbe individuare le aree – in terraferma ed in mare - in cui sarà possibile estrarre idrocarburi. La legge prescrive, però, che il Piano per la terraferma venga adottato d’intesa con tutte le Regioni entro il 13 agosto 2020 e stabilisce –stranamente- che nel caso che non si raggiunga un accordo (come è molto probabile) entro il termine ultimo del 12 febbraio 2020, entri in vigore solo il Piano per le aree marine; in questo caso il Piano per la terraferma decadrebbe e per le estrazioni on-shore tutto tornerebbe alla situazione ante legem, ossia all’attuale possibilità di estrarre dovunque. I lavori sul PITESAI, però, a ben 6 mesi dall’entrata in vigore della legge sembrano essere ancora in fase di stallo ed intanto la Lega, il cui leader nazionale è nettamente schierato a favore delle estrazioni, è riuscita ad ottenere - in modo imprevedibile - ottimi risultati nelle recenti elezioni regionali lucane grazie ad una campagna elettorale fortemente sostenuta dai vertici nazionali; sicchè oggi c’è il considerevole rischio che il centro destra, che governa la regione, possa decidere di sfruttare l’eventuale assenza di Piano per la terraferma incrementando l’attività estrattiva. L’elenco di tutti i titoli minerari, sia esistenti che nuovi, è riportato nelle ultime pagine di questo documento.
Va evidenziato che fra le nuove istanze di prospezione e ricerca ce ne sono tre - “La Cerasa”, “Monte Cavallo” e “Pignola” (che ricade anche nel Comune di Potenza) – che hanno già ricevuto il parere positivo della Commissione V.I.A. (Valutazione di Impatto Ambientale) del Ministero dell’Ambiente e che in queste aree l’avvio della ricerca potrebbe essere rapidamente autorizzato in caso di non adozione del “PiTESAI on-shore”.
La Basilicata ospita inoltre sul suo territorio le infrastrutture di supporto all’attività estrattiva, ossia:
Quello di più antica realizzazione ed ancora funzionante ha sede a Pisticci, in Val Basento. Si tratta di un’area SIN (Sito di Interesse Nazionale), ossia di una delle 57 aree più contaminate della penisola, classificate come pericolose per la quantità e le caratteristiche degli inquinanti presenti. E’ proprio in Val Basento che vengono smaltite ogni giorno enormi quantità di reflui presso l’impianto Tecnoparco Valbasento S.p.A, attualmente al centro di un processo ribattezzato “Petrolgate” per reati, tra l’altro, di contraffazione dei codici CER (Codice Europeo del Rifiuto)
Il secondo è il Centro Olio Val d’Agri (COVA) - la più grande piattaforma estrattiva in terraferma d’Europa - che funziona dal 1996 ed in cui vengono lavorati quotidianamente 80.000 barili di petrolio, che potrebbero diventare 104.00 in base ad un accordo del 1998 (un barile equivale a circa 159 litri di greggio).
Il terzo, quello di Tempa Rossa nell’alta Valle del Sauro, sta per entrare in funzione e lavorerà altri 50.000 barili al giorno.
Oltre a milioni di metri cubi di gas, la produzione quotidiana di idrocarburi potrebbe quindi ammontare, per le sole concessioni attualmente in essere, ad un totale ipotizzabile di 154.000 barili al giorno.
Va detto che ad ottobre del 2019 scadrà la concessione “Val d’Agri” e che il suo rinnovo potrebbe comportare una rinegoziazione – e forse anche un incremento - dei quantitativi di idrocarburi estraibili.
Centro Oli Tempa Rossa, Corleto Perticara - TOTAL |
COVA - Centro Oli Val D'Agri, Viggiano - ENI |
Danni connessi alle fasi del processo estrattivo
Per comprendere meglio quanto sia impattante l’attività estrattiva, è opportuno disporre di qualche breve cenno sulla conformazione di un giacimento di idrocarburi e sulle fasi dell’attività estrattiva.
Conformazione di un giacimento di idrocarburi
“Gli idrocarburi esistenti nel sottosuolo si raccolgono in giacimenti chiamati serbatoi. Ogni giacimento possiede due elementi essenziali: la roccia serbatoio (o reservoir) e la trappola di idrocarburi. La roccia serbatoio, porosa e permeabile, contiene gli idrocarburi; la trappola di idrocarburi è costituita da una particolare distribuzione delle rocce nel sottosuolo, che rende possibile trattenere gli idrocarburi nella roccia serbatoio. Essa è limitata superiormente da una roccia impermeabile (la roccia di copertura) che impedisce agli idrocarburi, più leggeri, di migrare verso l’alto.
Il limite inferiore del serbatoio è la superficie, generalmente piana e orizzontale, di separazione dal fluido sottostante, di norma rappresentato da acqua salata“. (Enciclopedia Treccani - caratteristiche geologiche dei giacimenti di idrocarburi)
Lo strato di olio, dunque, è poggiato su uno strato di acqua ed è sovrastato dal gas. Durante l’attività estrattiva tutti e tre gli elementi vengono portati in superficie, con la conseguente produzione di una grande quantità di acqua – l’acqua di produzione – caratterizzata da una importante radioattività e dalla presenza, al suo interno, di sostanze fortemente inquinanti (metalli pesanti e solidi sospesi) estremamente dannose per la salute dell’uomo.
Inoltre, per spingere il petrolio verso il punto di estrazione occorre iniettare una grande quantità di acqua che, per una parte, è la stessa acqua di produzione filtrata e, per la parte rimanente, è acqua prelevata in zona da falde, sorgenti o acquedotto.
Fasi del processo estrattivo
Ricerca ed estrazione
Per la ricerca e l’estrazione degli idrocarburi vengono realizzate trivellazioni verticali profonde migliaia di metri che attraversano terreni e falde acquifere superficiali e profonde in cui spesso si riversano i materiali fortemente inquinanti che entrano in gioco durante questa fase della lavorazione: lubrificanti con composizione spesso ignota in quanto protetta da segreto industriale che vengono utilizzati per facilitare la penetrazione della trivella e greggio disperso lungo la perforazione a causa delle frequenti disconnessioni nella camicia in acciaio di protezione del foro. Attualmente possono essere realizzate anche perforazioni orizzontali, che sono ancor meno controllabili delle verticali perché il loro andamento è spesso noto solo alle compagnie petrolifere.
A causa di queste contaminazioni, negli ultimi anni è stato più volte vietato l’uso di pozzi e sorgenti in molti comuni lucani. Inoltre numerose analisi di acque e sedimenti della diga del Pertusillo –che fornisce acqua anche alla Puglia - hanno evidenziato la presenza di idrocarburi e metalli pesanti e nei pesci sono stati rilevati contaminanti industriali e cianotossine. Va infine sottolineato che l’estrazione spreca enormi quantità di acqua spesso sorgiva (circa 8 litri per ogni litro di greggio) che si contamina e diventa rifiuto da smaltire.
Preraffinazione
Gli idrocarburi, una volta estratti, vengono trasferiti mediante condotte in acciaio negli impianti di prima raffinazione –i centri oli- e qui sono sottoposti ad un trattamento di preraffinazione, ossia di separazione dell’olio grezzo dal gas metano, dalle acque di strato e dalle scorie. L’olio grezzo viene poi trasportato alla raffineria di Taranto, dove avviene la raffinazione definitiva, mentre il gas metano viene immesso nella rete nazionale SNAM e le scorie e le acque di produzione vengono smaltite con varie modalità.
Uno dei problemi principali di questa fase è la produzione di ACIDO SOLFIDRICO H2S,un gas incolore che, bruciando, crea le fiaccole che sovrastano i camini dei Centri Oli.
Si tratta di un veleno assolutamente infido: il suo aroma di uova marce è avvertibile solo a basse concentrazioni; a più di 1 ppm (particella per milione)non è più percepibile perché determina paralisi del nervo olfattivo e può causare incoscienza in pochi minuti. Da 50 ppm (rischi oculari e respiratori) in poi diventa pericoloso, dannoso ed a 500 ppm mortale. A più di 1.000 ppm provoca l'immediato collasso con soffocamento anche dopo un singolo respiro.
Nel COVA sono lavorate e stivate in cisterne alcune tonnellate di questo micidiale veleno ed a Tempa Rossa è previsto il medesimo processo di lavorazione.
Inoltre, le sostanze inquinanti immesse in atmosfera dai camini dei Centri Oli si depositano sul terreno e sulle acque superficiali anche a distanze elevate.
Stoccaggio e trasporto
Il petrolio lucano, corrosivo perché ricco di zolfo, causa forature in serbatoi di stoccaggio e tubature dell’oleodotto che collega il COVA con Taranto.
Sono innumerevoli i casi di perdite diffuse nell’oleodotto ed a gennaio del 2017 un’enorme quantità di greggio fuoriuscì dai serbatoi del COVA inquinando terreni e falde. L’episodio è stato classificato come “disastro ambientale” ed ENI parlò di 400 tonnellate di greggio sversato ma oggi, dopo ben due anni, le idrovore stanno ancora lavorando a pieno ritmo e questo lascia ipotizzare uno sversamento di entità ben maggiore. A questo danno si rischia poi di aggiungerne un altro in quanto si prevede di riversare la miscela acqua-petrolio recuperata, dopo una “depurazione” chimica, nel fiume Agri, affluente del Pertusillo.
E’ elevatissimo il rischio per le popolazioni.
Smaltimento delle scorie
Il trattamento e lo smaltimento delle scorie è un problema molto rilevante del processo di lavorazione, a causa sia dell’enorme quantità che del tipo di scorie prodotte, costituite da materiali fortemente tossici ed anche radioattivi.
Nel COVA di Viggiano le scorie vengono smaltite in parte (2.500/2.800 mc. al giorno) mediante reimmissione ad elevatissima pressione nel pozzo “Costa Molina 2” (Montemurro), non distante dalla diga del Pertusillo: qui le scorie vengono “sparate” nelle cavità precedentemente occupate dai materiali estratti, con l’elevatissima probabilità di finire nelle falde idriche e di reimmettersi nella circolazione dei fluidi di profondità, le cui dinamiche sono ancora ben poco note.
Fiamma su un camino del COVA a Viggiano |
E’ già accaduto che i fluidi reiniettati, una volta “proiettati” in profondità, siano risaliti in superficie a chilometri di distanza dal pozzo, riemergendo dal terreno nel bel mezzo di campi coltivati.
Fra ottobre e dicembre del 2017 l’attività di reiniezione venne sospesa per la presenza di sostanze fortemente inquinanti (ammine) nei fanghi da reiniettare.
Un’altra parte delle scorie viene trasportata con autocisterne in Centri di trattamento con varia localizzazione che dovrebbero essere (ma che spesso non lo sono) adeguatamente attrezzati sia per il tipo che per la quantità di rifiuti da trattare. I problemi di questa fase riguardano sia i rischi connessi al trasporto (possibili sversamenti , per incidente o per altra causa, delle sostanze pericolose trasportate), sia gli illeciti spesso compiuti dai Centri di trattamento, come nel caso dell’impianto Tecnoparco, di Pisticci, coinvolto in una vicenda giudiziaria tuttora in corso.
Per ridurre i costi connessi alla grande quantità di scorie da trasportare e da far trattare in Centri esterni, ENI ha programmato la realizzazione, ad opera della sua società ambientale Syndial, di un impianto –da posizionare accanto al COVA- che dovrebbe trattare direttamente le scorie (anche quelle radioattive) e poi sversare nei corsi d’acqua adiacenti –affluenti del Pertusillo- le acque residue che, a suo dire, risulterebbero perfettamente “depurate” e quindi innocue. Sono state, ovviamente, presentate numerose opposizioni a questo progetto da parte delle associazioni ambientaliste.
Una procedura simile è prevista a Tempa Rossa (Total); anche qui le “acque di produzione” –inquinate chimicamente e radioattive- dovrebbero essere “depurate” e poi sversate nel torrente Sauro, un corso d’acqua che si collega alla diga di Monte Cotugno (482 milioni di metri cubi) la quale fornisce acqua a Basilicata, Puglia e Calabria settentrionale. Parafrasando Marquez, si potrebbe quasi parlare di “cronaca di un disastro annunciato”.
Raffinazione
Non va dimenticato, infine, il danno ambientale provocato alla città di Taranto dalla raffinazione di tutto il greggio proveniente sia dal COVA che da Tempa Rossa.
Incremento del rischio sismico
La Basilicata, come la maggior parte del territorio italiano, è una zona ad altissimo rischio sismico. Nonostante ciò, le perforazioni vengono effettuate senza una preventiva ed accurata indagine geologica, con il rischio di inserire la trivella all’interno di una faglia e di provocare movimenti sismici.
In alcuni comuni della Val d’Agri (Moliterno, Montemurro etc.) è stata rilevata un’attività microsismica estremamente frequente causata proprio dalle attività estrattive, come evidenziato dal compianto Enzo Boschi, presidente dell’INGV -Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia- fino al 2011.
Le norme vigenti, inoltre, prescrivono soltanto la valutazione dell’impatto ambientale del singolo pozzo, ignorando completamente ciò che accade sul territorio a seguito dell’interazione fra perforazioni differenti ma non molto distanziate fra loro.
Estremamente problematica è anche la situazione del COVA, realizzato –per ragioni puramente economiche - proprio a ridosso dell'epicentro del terremoto del 1857, che provocò oltre diecimila morti. E’ facile ipotizzare che, in caso di sisma, i danni -in perdita di vite umane, in disastri ambientali ed in distruzione di manufatti- causati da possibili esplosioni, da dispersioni di petrolio e da fuoriuscite di acido solfidrico sarebbero immani.
Nonostante ciò, oggi si prevede addirittura di realizzare, nello stesso sito, anche l’impianto Syndial di trattamento delle scorie.
Incidenti e “non-incidenti”
E’ lunghissimo l’elenco degli incidenti connessi all’attività estrattiva; ne riportiamo, per brevità, solo qualcuno.
Sversamento COVA
Il più rilevante degli incidenti, classificato dalla magistratura come “disastro ambientale”, è sent’altro lo sversamento di 400 tonnellate di greggio da uno dei serbatoi di stoccaggio del COVA (secondo le dichiarazioni di ENI) che fu scoperto casualmente nel febbraio del 2017 e che provocò l’inquinamento di acque e sottosuolo – come si disse all’epoca - su almeno 26.000 mq. di territorio. Dalle inchieste successive è poi emerso che non si è trattato affatto di uno sversamento isolato, ma di un vero e proprio stillicidio da tutti e 4 i serbatoi del COVA, iniziato almeno nel 2012 ed ignorato volutamente dalla compagnia, con inevitabili danni per il Pertusillo con le cui acque vengono irrigati 35.000 ettari di terreno agricolo a cavallo fra Puglia e Basilicata.
Pozzi incidentati
Molti sono i pozzi ufficialmente classificati dall’UNMIG come incidentati. Fra questi anche quello di Monte Grosso, sito alla periferia di Potenza, e quelli di Brindisi di Montagna su cui, oltre ai notevoli danni ambientali, si intrecciano smottamenti, implosioni, misteri legati a tecniche e a strumentazioni usate, inchieste della Magistratura ed, addirittura, attenzioni particolari di servizi segreti stranieri. Nessuno di questi pozzi è stato bonificato.
“Non-incidenti” al COVA
Il monitoraggio in continuo dell’aria intorno al COVA è stato effettuato, fino al 2006, soltanto da ENI. Nel 2006 è stata installata la prima centralina mobile pubblica e solo nel 2014 ENI ha regalato ad ARPAB altre 4 centraline, peraltro già obsolete.
Paradossalmente, la storia dell’inquinamento dell’aria intorno al COVA può essere seguita solo attraverso una serie di “nonincidenti”, cioè incidenti mai ufficializzati come tali ma definiti “eventi” da ENI e dalle Istituzioni e riportati solo dalla cronaca e da benemerite associazioni attive già nei primi anni di attività del COVA e di ignoranza completa dei cittadini..
Nei dieci anni prima del 2018 solo i “nonincidenti” con sfiammate sono stati oltre 50, concentrati soprattutto negli ultimi quattro anni.
Nel 2016, nell’audizione di fronte alla commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, il Procuratore Francesco Basentini (Potenza) afferma: “tra metà 2014 e metà 2015 si sono verificati 15 episodi di gas flaring; da ottobre 2014 al primo aprile 2016, 7 episodi”. “Presumo che qualora succeda una volta all’anno ci stia, ma se succede con una certa frequenza, è un impianto che ha qualche problemino”.
Tra i maggiori inquinanti ce ne sono alcuni che, nonostante siano tipici dell’industria petrolifera, non sono normati ne’ a livello nazionale ne’ regionale e che nell’area raggiungono livelli molto più alti che in altre aree industriali italiane ed europee: si tratta degli idrocarburi non metano e dell’idrogeno solforato. Sospensione della reiniezione a Costa Molina 2 per presenza di ammine (ottobre/dicembre 2017) Innumerevoli divieti temporanei di uso di sorgenti a causa della presenza di idrocarburi
Rilevamenti di inquinanti nei sedimenti e nei pesci del Pertusillo i si augura almeno che in futuro i controlli diventino più stringenti, visto che il 3 luglio 2019 è stato firmato il protocollo - scaduto ad agosto 2018 - fra Regione Basilicata, ISPRA (Istituto Superiore Protezione e Ricerca Ambientale) e ARPAB (Agenzia Regionale Tutela Ambientale Basilicata) che impegna ISPRA ad una collaborazione tecnico-scientifica per il monitoraggio e la salvaguardia dell’ambiente e del territorio.
Da notare, però, che la Regione Puglia ha interessato, per le indagini sull’inquinamento di Taranto e sulla salute dei suoi abitanti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Perché non fare altrettanto in Basilicata dove i problemi ambientali e sanitari interessano un’intera regione?
Conseguenze dell’attività estrattiva sulla salute
Nonostante la presenza di molte attività fortemente impattanti oltre a quella estrattiva, la Regione Basilicata non si è mai preoccupata di effettuare studi sistematici per analizzare lo stato di salute dei lucani ed addirittura non si attiva neanche per aggiornare i registri regionali dei tumori.
L’unico vero studio epidemiologico – e non soltanto descrittivo – realizzato è stata la VIS (Valutazione di Impatto Sanitario) presentata nel settembre del 2017 per i comuni di Grumento Nova e Viggiano – in cui è situato il COVA- e redatta dal CNR di Pisa e dall’Università di Bari su commissione dei due comuni, che hanno utilizzato in questo modo una parte delle royalties del petrolio spinti a ciò dai comitati locali ed in particolare dall’Osservatorio Popolare Val d’Agri. L’obiettivo era quello di valutare l’impatto dell’attività del COVA sulla salute dei cittadini, con particolare riferimento alle malattie cardiocircolatorie e respiratorie. Lo studio, a carattere multidisciplinare, analizzò aria, acqua e suolo dell’area interessata, indagò sulla diffusione per via aerea delle emissioni provenienti dai camini del COVA e svolse, quindi, un’approfondita indagine epidemiologica sul piano sanitario. I risultati ottenuti hanno evidenziato, purtroppo, un eccesso di mortalità e di ricoveri ospedalieri nella popolazione dei due comuni rispetto sia alla media regionale che a quella dei 20 Comuni rientranti nella concessione Val d’Agri.
In particolare si è dimostrato un eccesso di mortalità del 63% nel sesso femminile e del 41% nei due sessi per malattie cardiovascolari, ed un eccesso di ricoveri nel sesso femminile del 41% per malattie circolatorie (con un aumento fino all’80% per malattie ischemiche) e del 48% per quelle respiratorie, con un eccesso di ricoveri per malattie respiratorie croniche nei due sessi addirittura del 118%!
Risultati così preoccupanti avrebbero dovuto indurre la Regione a dare inizio ad un sistema di sorveglianza continua ed a commissionare agli stessi redattori della VIS uno studio analogo, esteso a tutte le zone interessate dall’attività estrattiva sia in Val d’Agri che a Tempa Rossa. Invece si è scelto di avviare nuove indagini puramente descrittive - molto lontane dall’affidabilità scientifica della VIS - affidandole a fondazioni gestite sulla base di equilibri partitici.
Ricadute economiche ed occupazionali dell’attività estrattiva
L’occupazione
Il settore petrolifero è tradizionalmente un settore che genera poca occupazione in rapporto ai notevoli investimenti che lo caratterizzano e decenni di attività estrattive in Basilicata hanno ormai dimostrato quanto tale attività sia stata perniciosa per i livelli occupazionali locali:
a fronte di:
Un reale aumento dell’occupazione - e di un’occupazione di qualità – si avrebbe invece se si puntasse finalmente sulla produzione di energia da fonti rinnovabili realizzata non dalle multinazionali dell’energia ma mediante piccoli interventi diffusi e gestiti dai cittadini produttori/consumatori.
Questa attività – e non quella estrattiva – genererebbe realmente tantissimi nuovi posti di lavoro distribuiti su tutto il territorio, caratterizzati da differenti livelli di specializzazione e con addetti occupati nelle diverse fasi produttive (ricerca e sperimentazione di tecnologie, produzione, posa in opera, rinnovo, manutenzione, rimozione, smaltimento, recupero etc.)
Le maestranze “disimpegnate” dall’attività estrattiva, potrebbero inoltre trovare occupazione nella bonifica dei numerosi siti inquinati, nel recupero del sistema viario degradato per l’incremento del traffico di mezzi pesanti dovuto all’attività estrattiva, nella riqualificazione energetica degli edifici etc..
Va aggiunto a tutto questo il fatto che il 16 luglio del 2019 ENI e Coldiretti Basilicata hanno firmato un memorandum d’intesa a livello locale –il primo di un progetto esteso all’intera Italia– il cui fine è quello di supportare il marchio lanciato all’inizio del 2019 da Coldiretti e che si chiama “IO SONO LUCANO”.
Fra le azioni rientranti nel supporto c’è anche l’intento di ENI di dimostrare – grazie all’uso di strumenti digitali - che anche i prodotti provenienti dalle aree estrattive sono sicuri e sostenibili sotto il profilo ambientale. Se ne deduce che fra i prodotti commercializzati sotto il marchio “IO SONO LUCANO” ce ne saranno anche alcuni a fortissimo rischio di inquinamento in quanto provenienti da aree inquinate. E’ evidente che se domani qualcuno starà male per aver mangiato prodotti agli idrocarburi provenienti dalla Basilicata, questo provocherà un incalcolabile danno di immagine all’intera regione, distruggendo la sua tradizionale e storica fama di terra in cui “si mangia bene” e privandola di una delle sue ricchezze reali.
Royalties e canoni ENI
Dati desunti dal sito “Eni in Basilicata” https://www.eni.com/eni-basilicata/territorio/royalty-fiscalita.page
Percentuali Royalties in Basilicata
10% della produzione on-shore di gas e petrolio così ripartiti:
Royalties versate da ENI e Shell in joint-venture
Periodo 1996/2018, Regione Basilicata e Comuni interessati dall’attività estrattiva: 1,8 miliardi di euro (media sui 22 anni: circa 81 milioni l’anno).
2018: 72,5 milioni di euro, di cui 21 allo Stato, 44,2 alla Regione Basilicata e 7,3 ai sei Comuni interessati dalle attività petrolifere (produzione anno 2017).
Canoni di esplorazione e produzione, concessioni e altra fiscalità
2014-2016: canoni di esplorazione e produzione e concessioni 92.000 euro.
2014-2016: 12,3 milioni di euro, di cui 4,6 milioni di euro nel 2016 per tributi locali, tassazione specifica ed imposte sul reddito della Società.
Versamenti IRAP alla Regione Basilicata: circa 7.500 euro.
Versamenti IMU ai Comuni: circa 1,7 milioni di euro di cui 313 mila euro nel 2016.
A tutto ciò andrebbero aggiunti 39 milioni di euro chiesti ad ENI per sanare il disastro ambientale per lo sversamento al COVA.
Il grave paradosso è quello che, nonostante queste cifre vengano sbandierate in ogni dove, la Basilicata è una delle regioni più povere d’Italia, con un forte incremento delle patologie, un forte tasso di emigrazione ed una popolazione in progressivo invecchiamento.
Estrazioni petrolifere ed inchieste giudiziarie
Molte inchieste giudiziarie si sono intrecciate nel tempo con l’attività estrattiva concentrandosi soprattutto sull’oleodotto per Taranto e sulle due principali aree regionali di estrazione: la Val d’Agri con il COVA, di ENI, e la Valle del Sauro con il centro oli di Tempa Rossa, di TOTAL.
Inchiesta “Tangentopoli lucana”, capitolo ENI-AGIP: inizia nel 2002 e fa emergere una fitta rete di corruzioni e favoritismi che girano intorno al pagamento di tangenti a politici, militari e pubblici funzionari per la costruzione dell’oleodotto tra la Val d’Agri e Taranto.
Inchiesta “Totalgate”: riguarda la costruzione del centro oli Total di Tempa Rossa ed inizia a dicembre del 2008 con accuse di corruzione, turbativa d’asta, condizionamento negli appalti e taglieggiamenti dei proprietari dei terreni interessati. Il senatore lucano Margiotta è fra gli indagati e vengono eseguite ordinanze di custodia cautelare in carcere per l’a.d. di Total Italia Lionel Lehva e per alcuni dirigenti locali della compagnia. Il processo si è concluso con l’assoluzione o con la prescrizione per tutti gli imputati.
Più ampio e complesso è l’iter dell’inchiesta “Petrolgate” che interessa 57 soggetti -47 persone e 10 società fra cui ENI – e risale al 2016. Essa si articola su tre filoni d’indagine:
In queste due ultime direttrici si inserisce quanto accaduto a febbraio del 2017, con la scoperta dello sversamento di 400 tonnellate di greggio dai serbatoi del COVA che ha portato ad un ampliamento e ad un approfondimento delle indagini con una modifica dei capi d’accusa nei confronti di ENI.
Nella relazione finanziaria sul bilancio 2017, infatti, ENI è costretta ad ammettere che, come emerso nell’ottobre del 2017, l’indagine epidemiologica dei pm di Potenza sui lavoratori del COVA è diventata un’inchiesta per omicidio e lesioni colpose, oltre che per disastro ambientale.
Si intrecciano con queste indagini i misteri legati a due suicidi, su cui non è stata fatta ancora chiarezza. Suicidio Conti: il 17 novembre 2017 nelle campagne di Pacentro (L’Aquila) viene trovato senza vita il corpo dell’ex gen. dei carabinieri forestali Guido Conti, che aveva accettato l’incarico della Total come responsabile per l’ambiente e la sicurezza di Tempa Rossa a partire dal 1 novembre. Il generale, dopo soli 10 giorni dalla firma del contratto di consulenza trascorsi – secondo il racconto della moglie - con un umore molto cupo, aveva inspiegabilmente deciso di dimettersi dall’incarico e poi, allontanatosi dalla sua abitazione, si sarebbe ucciso sparandosi un colpo di pistola alla testa. L’inchiesta per chiarire la dinamica di questa morte e verificare se si è trattato effettivamente di suicidio, è stata recentemente riaperta dal Gip del Tribunale di Sulmona ed è attualmente in corso.
Suicidio Griffa
A luglio del 2013 il trentottenne ing. Gianluca Griffa, ex responsabile della produzione del COVA, venne trovato impiccato ad un albero in un bosco fra Cuneo e Torino. Dopo varie vicende vennero ritrovati una sua lettera indirizzata ai carabinieri di Viggiano ed all’UNMIG “in caso capiti o mi capiti qualcosa” ed un memoriale in cui l’ingegnere parlava di perdite di greggio “dai numerosi fori nei serbatoi del COVA” che sarebbero iniziate già nel 2012 (e non nel 2017 quando sono state scoperte) e di livelli di produzione di una delle linee di trattamento di gas portati oltre il limite autorizzato, con il rischio di incidenti. Griffa raccontava inoltre che i responsabili della compagnia, alle sue rimostranze, gli dissero “di smettere di rompere” e lo rimossero dall’incarico. E’ inoltre noto che essi lo convocarono a Milano 4 giorni prima che egli facesse perdere le sue tracce e venisse poi ritrovato morto. Attualmente sulla base di questo memoriale si è avviata la nuova indagine “Petrolgate 2” condotta dal Procuratore di Potenza Francesco Curcio il quale, nell’aprile del 2019, ha asserito tramite comunicato stampa: che gli sversamenti di petrolio a Viggiano sono iniziati fin dal 2012 e sono stati sin da subito ben noti alla compagnia, la quale ha colpevolmente assunto un atteggiamento di sostanziale inerzia; che il CTR - Comitato Tecnico Regionale che avrebbe dovuto svolgere un compito di vigilanza sull’attività di ENI – ha assunto anch’esso un atteggiamento di colpevole inerzia. L’inchiesta, con 13 indagati, ha finora portato alla sospensione per 8 mesi di cinque membri del Comitato Tecnico Regionale Grandi Rischi ed agli arresti domiciliari dei dirigenti ENI Enrico Trovato, Ruggero Gheller ed Andrea Palma.
Il futuro
Il futuro non sembra andare affatto verso una virtuosa transizione energetica della regione Basilicata, visto che, oltre alle compagnie, anche le forze politiche e sindacali locali lavorano alacremente per rimanere ancorate al fossile, ancora abbagliate da miraggi di sviluppo finora dimostratisi del tutto vani.
Il 29.8.2017 Giancarlo Vainieri, presidente del Centro Studi Sociali e del Lavoro della Uil di Basilicata, in occasione di un dibattito aperto dal “La Nuova del Sud”, avanzò l’idea di un Fondo Sovrano Regionale -sul modello norvegese e dell’Alberta Heritage Savings Trust Fund- da finanziare con le royalties del petrolio e con i proventi derivanti dalla “valorizzazione”- ossia dalla vendita - dell’acqua (in aperto contrasto con quanto deciso da 27 milioni di cittadini italiani nel referendum sull’acqua pubblica del 2011). Secondo la sua ipotesi il fondo sarebbe rimasto investito per 50 anni ed avrebbe fruttato, a scadenza, circa 40-50 miliardi. Il Sole 24 ore del 7.8.2018 ribadì la proposta parlando anche di un supporto del Censis, Centro Studi Investimenti Sociali (https://www.ilsole24ore.com/art/basilicata-petrolio-royalties-il-record-e-si-pensa-un-fondo-sovrano-AE471vXF?refresh_ce=1).
Anche la pubblicazione “Affari e Finanza” (Salerno) di lunedi 8 luglio 2019 ha dato notizia della proposta avanzata dalla Fondazione Mattei affinchè la Basilicata, in quanto “mini-potenza petrolifera”, si doti di un fondo sovrano (i fondi sovrani sono finalizzati ad investire denaro pubblico in strumenti finanziari come azioni, obbligazioni, immobili etc.).
E’ evidente che il pensiero sotteso a simili propositi non va affatto nel senso auspicabile, ed ormai indispensabile al pianeta, di un rapido abbandono delle attività estrattive.
Intanto, nonostante tutte le devastazioni di cui abbiamo parlato finora, le compagnie cercano di ricostruirsi un’immagine “green” ed accattivante che consenta loro di accaparrarsi anche il mercato delle rinnovabili e continuano a circuire i cittadini lucani per carpirne il consenso, sponsorizzando attività di ogni tipo (sportive, artistiche, culturali, religiose, sociali, informative etc.).
“Orizzonti: idee dalla Val d’Agri” è la rivista creata da ENI in Val d’Agri. Una pubblicazione mensile diretta da Mario Sechi per parlare della presenza storica di ENI in Basilicata e raccontare le bellezze lucane.
“CuoreBasilicata” è il progetto artistico e culturale di Jacopo Fo finanziato da ENI, che il 17.9.2018 è stato presentato a Villa d’Agri (dove c’è un “pozzo urbano” di ENI, situato a poche centinaia di metri dalla piazza centrale, dal municipio e dall’ospedale) e che coinvolge 11 comuni della valle oltre a scuole, associazioni e media. Esso durerà fino alla fine del 2020 e servirà “al (ri)lancio dell’area a livello nazionale e internazionale, attraverso lo sviluppo e la valorizzazione delle sue grandissime potenzialità culturali, storiche, paesaggistiche, agricole, artigianali”.
Villa d'Agri con il pozzo Alli2 |
Ed ancora, a maggio del 2019, nel corso dell’assemblea annuale degli azionisti, l’ad di ENI Claudio Descalzi ha presentato il progetto “Energy Valley”, che prevede un investimento di circa 80 milioni di euro in quattro anni (ben pochi se rapportati ai miliardi da investire in Italia, tenuto conto del ruolo centrale della Basilicata nelle estrazioni e nell’arricchimento della compagnia) per creare “un distretto produttivo basato sulla diversificazione economica, sulla sostenibilità ambientale e sull'economia circolare”: installazione di impianti fotovoltaici e altre iniziative “ad alta sostenibilità ambientale” con 300 nuovi posti di lavoro di cui 200 per la realizzazione e 100 per la gestione!
Tutta questa incessante opera di “captatio benevolentiae” sembra aver prodotto risultati positivi per le compagnie dell’oil&gas, visto che le ultime consultazioni elettorali hanno consegnato l’Amministrazione Regionale e quella del Capoluogo di Regione a coalizioni di centro destra capeggiate dalla Lega, anche grazie al forte sostegno del vicepremier Salvini che in più occasioni si è palesemente e platealmente schierato a favore delle compagnie e delle estrazioni.
Queste sono, attualmente, le posizioni ufficiali espresse dai nuovi rappresentanti istituzionali: il Governatore Bardi (Lega) ha affermato “di non voler andare oltre quanto stabilito” e “di non voler rilasciare altri permessi per nuove trivellazioni”; il presidente del Consiglio Regionale Cicala (Lega) ha definito il petrolio “fonte di grandi problematiche ma anche di grandi potenzialità occupazionali e di crescita”; il sindaco di Potenza Guarente (Lega) ha promesso battaglie ambientali contro il petrolio e l’eolico selvaggio. Le azioni concrete sembrano, però, andare in tutt’altra direzione.
Il prossimo 26 ottobre scade la concessione di coltivazione ENI “Val d’Agri” che, secondo una norma del governo Monti mai modificata o abrogata neanche dall’attuale “governo del cambiamento”, sarà rinnovata automaticamente. Occorre, però, decidere se la nuova concessione manterrà l’attuale limite estrattivo di 80.000 barili al giorno, consentirà di raggiungere i 104.000 barili autorizzati con il memorandum del 1998 o, addirittura, incrementerà ulteriormente le quantità massime consentite.
Su questo rinnovo sarebbero in corso trattative segrete. Intorno al 20 giugno scorso la stampa ha dato notizia di un incontro fra il ministro Salvini e l’ad di ENI Claudio Descalzi durante il quale Salvini avrebbe chiesto ad ENI ulteriori investimenti in Basilicata e la compagnia petrolifera si sarebbe dichiarata disponibile a destinare altri 4 miliardi alla Val d’Agri. L’idea di Salvini sarebbe quella che, in un’ottica di autonomia differenziata delle regioni, il petrolio possa costituire per la Basilicata lo strumento per garantire la propria autonomia.
Sembra quindi – purtroppo - ipotizzabile che le amministrazioni principali della regione finiranno con l’adeguarsi alla linea del segretario della Lega (ex Lega Nord!) prolungando sine die l’era del fossile.
Conclusioni
Come per tutte le attività impattanti sull’ambiente, anche coloro che sono critici nei confronti dell’attività estrattiva si dividono fra possibilisti e nettamente contrari, ossia fra chi ritiene che esistano soluzioni tecniche e tecnologiche che, se applicate, neutralizzerebbero gli effetti negativi e chi, invece, ritiene che il petrolio – come dice Padre Alex Zanotelli – debba essere lasciato sottoterra.
Noi apparteniamo a questa seconda categoria.
Il pianeta è sull’orlo di una catastrofe climatica di cui avvertiamo già da tempo i sintomi. I vertici mondiali sul clima si susseguono ed in quello di Parigi del 2015 si parlò dell’urgente necessità di contenere entro 2 gradi – meglio se entro 1,5 gradi - l’incremento della temperatura del pianeta; gli allarmi del mondo scientifico si moltiplicano; Papa Francesco ha scritto la “Laudato Si”; Greta Thumberg è diventata un simbolo mondiale. Eppure, nessuno dei governi del pianeta sembra prendere sul serio la situazione e neanche nel vertice mondiale 2018 di Katowice sono state fissate regole stringenti che obblighino i Paesi a ridurre la produzione di CO2 in tempi compatibili con le condizioni planetarie, ossia immediatamente. Proseguire su questa strada ormai non è più possibile, pena l’estinzione del genere umano e delle altre specie viventi che popolano la nostra casa comune.
Qualcuno, quando la terra non sarà più abitabile, potrà salvarsi andando su Marte o su qualche altro pianeta? Sembra che alcuni ci credano davvero, visto il recente affannoso incremento della ricerca di altri mondi vivibili.
Se anche ciò fosse possibile però, sarebbe riservato a pochi ed è un’ipotesi che non ci interessa.
Ecco perché è indispensabile che l’attenzione di tutte le parti sane della società si concentri su questa piccola regione: la Basilicata deve diventare un simbolo ed un’occasione di riscossa per chi non vuole arrendersi alla distruzione del pianeta ed occorre una chiara, ferma e palese presa di posizione a favore della Basilicata affinché tutti conoscano i misfatti che vi accadono e si attivino per sostenere e condividere l’azione di comitati e cittadini locali nel loro quotidiano confronto con i colossi dell’energia e con le istituzioni.
Potere al Popolo non può che essere in prima linea in questa battaglia.