15 agosto 2018. Contributo al dibattito che argomenta come sia solo l'urbanistica di sinistra ad essere morta, mentre quella di destra è assai attiva e modella i nostri territori. Qui i riferimenti al dibattito.
E’ moribonda l’urbanistica di sinistra, al contrario di quella di destra che invece gode di buona salute e opera quotidianamente.
Gli urbanisti militanti nella sinistra italiana, compreso il sottoscritto, hanno spesso peccato di superbia nel pensare che il loro “fare urbanistica” fosse l’unico, fosse il verbo.
Facevamo coincidere il nostro sistema di valori etici e politici con gli obiettivi della pianificazione e della programmazione territoriale, nell’assunto che l’urbanistica si potesse esercitare solo in quel modo, in ciò supportati e seguiti da una classe di politici e amministratori culturalmente affini, che al cospetto della realtà attuale oggi diciamo bravi, che necessitava di piani che guardassero a un futuro migliore e quindi chiedevano una pianificazione ispirata in tal senso.
In realtà un’altra urbanistica è sempre esistita e esiste tuttora; è l’urbanistica di destra, servile alla speculazione fondiaria, all’interesse del capitale, un’urbanistica che utilizza solo il contratto pubblico/privato per determinare le trasformazioni, che agisce su parti della città ed è quella che oggi prevale e serve, aloo stesso modo di come facemmo noi allora, l’attuale classe dirigente, sia di destra, sia di sinistra, da questo punto di vista con risultati molto simili.
Di fatto, constato un’ovvietà, ma la voglio dire: la sinistra è scomparsa, affogata nella melassa del perbenismo borghese dimenticando la sua matrice culturale, la destra si conferma per considerare il territorio un luogo ove sviluppare interessi economici e quindi libera da vincoli al libero esercizio del profitto. Stessa sorte per l’urbanistica come l’intendiamo noi.
Credo sia morente solo quel tipo di urbanistica che abbiamo visto esercitare negli sessanta-settanta e parte negli anni ottanta, riducendosi ai minimi termini sino ai giorni nostri e questo perché è in estinzione una componente fondamentale del processo di pianificazione; la committenza pubblica di sinistra.
E’ in piena salute invece quell’urbanistica che ritiene il piano, le sue visioni d’insieme, gli obiettivi strategici, solo pesanti impedimenti all’agire, al concretizzarsi delle opportunità che quotidianamente bussano alle porte dei comuni per proporre fantomatiche occupazioni, fantastici sviluppi economici, straordinarie riqualificazioni, ecc, in verità solo edulcorate speculazioni con evitabili sprechi dio suolo.
Siamo in una fase in cui la politica ha rinunciato all’utopia, al sogno, all’immaginazione di futuri migliori, più equi, più solidali, in maggior equilibrio con la natura. Tutte balle!
Ora si chiede velocità, tempi certi, sfruttamento delle opportunità, concretezza, efficienza, libertà di fare, certezza del profitto.
A questa politica quindi non serve più il piano riflessivo, il piano delle invarianti, men che meno il progetto della città pubblica, il piano delle regole, i sistemi delle tutele paesaggistiche, culturali e ambientali, il contenimento della rendita. Ora chiede soltanto progetti fattibili nel breve periodo (leggasi con le risorse economiche effettivamente disponibili), vuole bei progetti (ben rappresentati con rendering e disegni accattivanti), tempi brevi e certi di realizzazione, così che la variante urbanistica trova subito le argomentazioni a supporto per giustificare l’interesse pubblico, supportata da Vas giustificative e mai problematiche.
Oggi alla politica non serve più la visione d’insieme, bensì una visione per parti, per progetti, così che la città è vista non come un complesso organismo dai delicati equilibri e una comunità che esprime bisogni reali e al tempo stesso speranze di maggior qualità di vita, ma come un semplice mosaico di ambiti da trasformare per determinare rendita e profitto: punto e basta.
Io mi sono formato con l’assioma dello standard urbanistico, oggi. ma a dire il vero da un bel po', constato che gli standard sono un fastidio, i verdi pubblici sono considerati solo fonti di spesa per il bilancio comunale, perciò superabili con quelle odiose monetizzazioni che lasciano brani di città fatti di case, lotti privati, e niente altro.
Ho redatto anch’io piani urbanistici con l’intento di contenere la rendita fondiaria attraverso i Peep, i PIP, i piani dei servizi, la perequazione, con “un’ossatura” che oggi è completamente fuori dal tempo. Oggi, la rendita fondiaria è considerata un falso problema già sconfitto, a dire dei nuovi amministratori, con una tassazione locale già molto alta, o superabile con il concorso alla realizzazione di un’opera pubblica; quindi la questione è meramente ideologica, superata.
Con il sistema valoriale dei decenni sessanta/settanta, prima parte anni ottanta e con gli attrezzi d’allora abbiamo applicato la disciplina per programmare lo sviluppo del territorio e la crescita della città governati dalla sinistra e/o comunque da compagini sensibili a quei principi.
Il prodotto del fare urbanistica non era solo pura tecnica ma parte di un processo di cambiamento. Il Piano aveva un’ossatura, un lessico, ma soprattutto aveva un’anima!
Ora la disciplina è perlopiù impegnata ad applicare la tecnica urbanistica asettica al servizio del privato e del pubblico per smontare ciò che è rimasto dei Piani col risultato di attuare lottizzazioni schematiche, ripetitive, spesso slegate dai contesti circostanti e dai sistemi che strutturano gli abitati.
La letteratura di settore ci ha fatto conoscere i Piano di Gubbio, di Assisi, il Piano Intercomunale del Trentino, il Prg di Modena, il Piano paesistico dell’Emilia Romagna, il PRG di Firenze e di Brescia, leggi regionali come quelle di Toscana ed Emilia Romagna, tutti ottimi esempi di buona urbanistica, talvolta anticipatori di provvedimenti legislativi di grande spessore quali la L.n 765, la L.n 865/71, la L.n 10/1977 e in grado di stimolare dibattiti culturali di notevole spessore, penso alla mancata riforma Sullo ad esempio, che segnarono comunque una crescita della disciplina e la mantenevano al centro del dibattito politico e culturale con autorevolezza.
Intellettuali come Olivetti, Rosi e Pasolini, Calvino, Cederna pur non essendo urbanisti di fatto lo divennero sul campo, con le proprie opere culturali hanno assecondato e sollecitato riflessioni decisive della politica in favore della disciplina urbanistica e contro la speculazione edilizia che imperava con la ricostruzione del dopoguerra. Politici denunciavano speculazioni e corruzione nel governo delle città, per tutti cito Pio La Torre che denunciava dagli scranni del parlamento siciliano la mano della mafia su Agrigento che crollava per colpa della speculazione: l’urbanistica era al tempo stesso capace di denunciare e porsi all’opposizione rispetto al malaffare e alla sciatteria e contemporaneamente di produrre piani di governo del territorio.
Nicolazzi a metà anni ottanta avvia il processo di delegittimazione dell’urbanistica e successivamente Prandini continua il lavoro; si avviano le grandi opere inutili in variante ai piani, poi scoppia tangentopoli e l’urbanistica contrattata emerge come un cancro, infine Lupi, prima come assessore lombardo poi come ministro, con la sua legge urbanistica prima a scala regionale poi nazionale, fa il resto.
La sinistra però segue a ruota, si veda il cedimento della giunta fiorentina sulle aree della Fiat Fondiaria, ma anche delle giunte romane Rutelli e Veltroni, accecate dall’esasperato utilizzo degli accordi col privato finalizzati al recupero delle periferie, ma con risultati assai discutibili e, dulcis in fundo, la nuova L.R 24/2017 della mia regione, l’Emilia Romagna, che sancisce lo smantellamento della disciplina così come l’avevamo praticata e spiana la strada alla mera tecnica urbanistica servile al mercato.
Non è morta l’urbanistica, semplicemente ha preso un nuovo corso, come la politica.
Astengo, Salzano, De Lucia, Nicolini, Insolera, Benevolo, Detti hanno fatto gli assessori del PSI, del PCI, della DC coniugando insegnamento, professione, passione politica. Gli urbanisti impegnati in quegli anni dalle università e dai municipi seppero mobilitare altri settori culturali come il cinema, la letteratura, il giornalismo d’inchiesta, persino il sindacato che indisse il primo sciopero generale sulla casa da cui scaturì la L.n 865/71: da tempo, tutto questo non c’è più!
Allora la sinistra riusciva a distinguersi per le sue proposte capaci coniugare il governo con la lotta per nuove conquiste sociali, scenario completamente diverso rispetto ad oggi in cui quel che è rimasto dell’attuale centrosinistra è impregnato di tanto liberismo.
L’urbanistica del periodo era credibile, convincente, coinvolgente, capace di mobilitare energie positive, perché aveva un'anima, perché osava sfiorare l’utopia, perché aiutava a conquistare spazi di qualità, nuove occasioni di socialità, progettava misurati assetti urbani con al centro i residenti.
Oggi registro una pratica urbanistica perlopiù asettica e neutrale, servile e giustificazionista, unicamente piegata a far corrispondere i programmi di trasformazione urbanistica con piani finanziari che devono dimostrare l’ammortamento dei capitali investiti in sei-otto anni dai fondi d’investimento e una remunerazione del capitale pari al 6%.
Che fare allora? Smetterla di piangersi addosso e assumere le nostre responsabilità civiche,
Io credo occorra ricostruire un fronte intellettuale militante che sappia costruire alleanze con il mondo della cultura, della tecnica, dell’arte e con i cittadini e riproponga le ragioni dell’urbanistica attenta ai bisogni della società, dell’ambiente, in grado di osare per una migliore qualità dell’abitare la città e il territorio. Un’urbanistica credibile e comprensibile.
Suggerisco di andare oltre la lamentela, di non iscriversi alla lista di chi dichiara la morte dell’urbanistica, suggerisco di dar vita a un movimento di opposizione che veda impegnati in prima persona proprio chi ha a che fare con la pianificazione: un movimento che si pone l'obiettivo di far tornare questa questione al centro del dibattito culturale e politico delle realtà locali.
Impariamo da Gramsci, formiamo un blocco intellettuale che promuova i valori che noi attribuiamo alla disciplina inscritta in un moderno programma della sinistra ecologista, credibile, comprensibile anche ai non addetti ai lavori che si contrapponga al “dio mercato”, per il bene dell’ambiente e del territorio e lasciamo di lato i piagnistei che sancirebbero solo la definitiva scomparsa di ogni speranza.