Venerdì, Stefano Rodotà si è alzato per intervenire alla festa del No organizzata dal
Fatto a chiusura della campagna elettorale: è stato accolto da un interminabile applauso del pubblico che lo ha acclamato “Presidente”. Archiviato il risultato, gli abbiamo chiesto una lettura del voto, non solo per la nettissima prevalenza del No ma anche per l’alta affluenza.
Professore, il risultato è stato solo una sconfitta politica di Renzi o anche una risposta al minaccioso sottotesto, “o me o la Costituzione”?
Che questa sia una sconfitta di Renzi è del tutto evidente: lo confermano le parole del presidente del Consiglio di domenica notte. La mia impressione è che l’oggetto del conflitto, alla fine, fosse impadronirsi della Costituzione sottraendola alla possibilità di continuare a essere luogo di principi e di confronto. E facendola diventare uno dei tanti strumenti di un’azione politica tutta rivolta alla chiusura. La Costituzione invece è diventata la strada per uscire da questa
impasse: il che dimostra una diffusa consapevolezza culturale. Si sono confrontate diverse visioni: una certa cultura costituzionale contro una visione dei rapporti politici e istituzionali che alla Carta negava di essere ciò che invece è. Ovvero il patto che lega i cittadini e li rende una comunità.
L'affluenza non ha permesso tentennamenti, anche per il risultato nettissimo.
Perché ai cittadini interessava e molto! Il modo di presentare il Sì e il No è stato indicativo. Il no non è stato soltanto un rifiuto, ma anche un’indicazione di recupero della cultura costituzionale di cui parlavo poco fa.
Negli ultimi anni lei si è occupato prevalentemente di diritti, in un momento di compressione dei diritti fondamentali (lavoro, tutele del lavoro, saluto, rappresentanza, sovranità): possiamo leggere il voto anche sotto questa lente?
Certamente. Segnalo che l’anno prossimo avremo di nuovo prove su questo terreno perché la Cgil ha promosso tre referendum, tra cui quello contro l’abolizione dell’articolo 18. Oggi non finisce un percorso, tutt’altro. Bisogna fare di questo risultato un’analisi che possa guidare le azioni dei prossimi mesi. Torneremo al protagonismo dei cittadini che hanno dimostrato di voler esercitare le loro prerogative in proprio. Ponendo quindi il problema della delega e della rappresentanza: a queste domande bisognerà dare risposta. Non sarà semplice, ma questi problemi non sono più eludibili.
La legge elettorale non era oggetto del referendum, ma ora bisognerà ripensarla tenendo presente il tema della rappresentanza.
Qui dobbiamo sottolineare due cose: è stato imperdonabile fare una legge elettorale – su cui è stata messa la fiducia e che è entrata in vigore dopo più di un anno dalla sua approvazione – che valeva solo per la Camera, dando per scontato che i cittadini approvassero la riforma del Senato. Una classe dirigente deve avere visione e responsabilità: l’arroganza che sottende a questa mossa è inammissibile. Senza dire che, dopo la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum, il compito primo del Parlamento era fare una legge elettorale almeno non incostituzionale. Il cuore di quella sentenza era proprio il tema della rappresentanza. Ora ci troviamo con una legge elettorale che vale per una sola Camera e sui cui c’è più di un sospetto di legittimità costituzionale. Questo sarà il passaggio cruciale: i cittadini hanno chiarito di non essere disposti a rinunciare alle loro prerogative e ai loro diritti.
Lei ha parlato di una pericolosa tendenza alla democrazia di ratifica: il Parlamento tornerà al suo ruolo di rappresentante del popolo e di legislatore?
Dovrà essere così. Ma è dirimente il modo con cui sarà eletto il nuovo Parlamento. Quale sarà la via attraverso cui i cittadini potranno selezionare i loro rappresentati? Bisogna che sia chiaro che non c’è più posto per trucchi da funamboli. I cittadini devono potersi fidare perché altrimenti questo rinnovato interesse per le decisioni comuni scemerà o prenderà altre direzioni se non altre derive. Negli ultimi anni – anzi: lustri – il Parlamento ha subìto il ricatto della fiducia su quasi tutti i provvedimenti dei governi, che hanno abusato della decretazione. Se pensiamo che il disegno della riforma era un rafforzamento del potere esecutivo a scapito del Parlamento, allora diciamo che la direzione indicata dagli elettori - non dai professori o professoroni - è un ritorno alla centralità del Parlamento. Un risultato per nulla ovvio: da tempo si dava per scontato il disinteresse dei cittadini verso la politica. Beh non è così.
I cittadini non hanno creduto al terrorismo e alle profezie nefaste. E nemmeno al fatto che non ci fosse la famosa alternativa...
I cittadini hanno creduto nella democrazia, questa è la verità. Tutte le affermazioni riconducibili all’après moi le déluge erano una negazione della democrazia. Che invece è per sua natura una vicenda aperta.