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Diego Novelli
Diego Novelli: Ricordo di Radicioni
18 Ottobre 2017
Raffaele Radicioni
Nuova Società, 17 ottobre 2017. Le parole del Sindaco (il migliore che Torino abbia avuto) che seppe collaborare con l'uomo di cultura e il compagno anche negli anni in cui non governavano più.

Nuova Società

Tra i compagni con cui ho avuto modo di lavorare nel mio lungo percorso di impegno politico a livello istituzionale, Raffaele Radicioni occupa un posto particolare dovuto a due precisi fattori: la specificità dei complessi problemi che assieme abbiamo dovuto affrontare ed il suo carattere mite, saldamente impiantato però sulla coerenza ed il rigore del suo pensiero politico e intellettuale. Anche nei momenti più accesi di maggiore tensione del dibattito nella sala Rossa di Palazzo Civico, Raffo (come lo chiamavano gli amici) non ha mai alzato il tono della voce, rispondeva con pacatezza, punto su punto, anche alle accuse più grossolane che gli venivano rivolte, ad esempio, di voler ostacolare lo sviluppo della città, di essere un antiquato conservatore, contro la modernità e la crescita urbana e quindi anche economica.

Ci fu il caso di due consiglieri del Pci irretiti dalle sirene craxiane, molto di moda in quegli anni, che fecero il salto della quaglia, motivandolo perché contrari alla politica urbanistica dell’Assessore Radicioni che ledeva gli interessi della città. Con tono, si potrebbe dire evangelico, nella riunione del gruppo comunista che precedette l’infuocata seduta del Consiglio con all’ordine del giorno il caso, invitò tutti noi alla calma, quasi scusando i due voltagabbana «perché - disse - non sanno quello che stanno facendo, non sono in grado di capire». Non era altezzosità la sua, era una semplice, implicita critica rivolta al suo partito per il non sufficiente impegno culturale nella battaglia delle idee, tra la gente, per spiegare che il diritto alla casa, ad esempio, non significava costruire, costruire, senza regole, anonimi caseggiati alla periferia, privi di servizi in molti casi, come accade negli anni ’50, ’60, addirittura senza la urbanizzazione primaria: strade, fognature, illuminazione pubblica.

Così la modernità di una città per Radicioni non era decretata dal numero di grattacieli. Anche se il problema si pose con l’opera di una star dell’architettura, di un amico, un maestro sicuramente progressista collocato a sinistra, come Renzo Piano, progettista della sede dell’Istituto Bancario San Paolo, per soddisfare l’ambizione, per non dire il capriccio, dell’allora presidente dell’Istituto che ha voluto lasciare un ricordo di sé medesimo, nella città. Noi (uso il plurale perché anch’io venni così considerato) siamo stati definiti, scherzosamente, ma con un lieve senso di irrisione, “urbamistici”, o “urbamastici”. Torino è stata la culla di questa nuova disciplina, grazie al Movimento di Comunità fondato da Adriano Olivetti. Per essermi iscritto ad un corso tenuto dal prof. Giovanni Astengo, presso la sede di Comunità del mio quartiere, fui criticato poiché avevo ceduto al paternalismo del grande capitalista di Ivrea, dimenticando la lotta di classe. Il settarismo non è mai morto.

Infine voglio menzionare in questo ricordo sicuramente non esaustivo, la coerenza di Raffo contro il dissennato consumo dei suoli, contemporaneamente alla mercificazione, con la compra-vendita, delle cubature. I fautori di questo mercato (compresi molti parroci guidati da un uomo della Curia che hanno venduto la cubatura delle loro chiese ai proprietari delle case confinanti affinché potessero sopraelevare gli edifici esistenti) lo hanno giustificato definendolo in sede politica «urbanistica contrattata», in modo scriteriato sono giunti a fare cassa, per finanziare addirittura la spesa corrente, cioè, la parte ordinaria del bilancio.

Caro Raffo, nel rivolgerti l’ultimo saluto, credo di poter dire a nome di tutti coloro che, non retoricamente amano Torino, che la città ti è debitrice di riconoscenza. Tu hai rappresentato concretamente il vero schieramento progressista e riformatore poiché hai operato per un reale cambiamento ponendo quale base, quale comun denominatore, il valore dell’uomo. La sfida, tuttora aperta, è tra la cultura della “prossimità” e la cultura del “rambismo” che ha al centro esclusivamente il profitto e quindi i consumi. È necessario, come tu ci hai insegnato, riproporre questo confronto senza imbrogli e senza ipocrisie, senza temere l’accusa di non essere moderni: avere la capacità, la volontà, l’intelligenza di misurarsi con i reali valori della modernità significa affrontare le grandi contraddizioni presenti nella società contemporanea, per garantire un futuro a questa “macchina” meravigliosa che è la città dell’uomo.

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