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Silvia Truzzi
Angelo Del Boca e la Resistenza tradita:
8 Luglio 2015
Resistenza
«Sognavo un’Italia pulita, invece è ancora Nera. Al popolo piace l’uomo forte, il cesarismo. Così si spiegano Berlusconi e Renzi. Non è per questo che abbiamo combattuto». Silvia Truzzi intervista lo scrittore, che va vissuto una lunga stagione con gli occhi aperti.
«Sognavo un’Italia pulita, invece è ancora Nera. Al popolo piace l’uomo forte, il cesarismo. Così si spiegano Berlusconi e Renzi. Non è per questo che abbiamo combattuto». Silvia Truzzi intervista lo scrittore, che va vissuto una lunga stagione con gli occhi aperti.

Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2015

L’appuntamento è al Castello di Lisignano: “La famiglia di mia moglie ci abita da oltre cento anni. Il primo inquilino era stato un messo del Barbarossa, nel XII secolo”. In questa storia comincia tutto molto tempo fa.

Angelo Del Boca, novanta primavere portate con invidiabile leggerezza, aspetta su una panchina, all’ombra di un albero, di fronte alle mura fortificate di questa dimora antica, sulla strada dei castelli piacentini: è da poco uscito Nella notte ci guidano le stelle, diario partigiano scritto oltre settant’anni fa. “La mia è una famiglia nobile. Intorno al 1200 nasce nella zona di Boca, a Borgomanero, vicino a Novara. Erano proprietari terrieri. Il mio bisnonno ha avuto 22 figli. Uno era un prete eccezionale con tre lauree, nominato Cavaliere del Regno d’Italia. Aveva intuito che le acque minerali sarebbero state un grande business, come si dice oggi. Consigliò lui a mio nonno di acquistare le fonti di Crodo: con le acque fondò un impero, ora lo stabilimento è della Campari. Lì mio padre aprì un albergo. Sventuratamente nel ‘24, l’anno prima che nascessi, ha venduto tutto e ha comprato dei buoni del Tesoro: trent’anni dopo erano carta straccia”.

Dov’è cresciuto?

A Novara: mio padre, grazie a Dio, aveva comprato una grande casa, dove abbiamo vissuto per molti anni. Lì ho scritto il mio primo romanzo, uscito per Einaudi, L’anno del giubileo, che ha vinto anche il premio Saint-Vincent. Era il 1948, in palio c’erano 300 mila lire e tra i concorrenti c’era Moravia. Ho fatto gli studi a Novara, mi sono diplomato e poi mi sono iscritto al primo anno di Lettere, a Torino. Subito dopo è scoppiata la guerra.
Quali erano gli umori politici in casa?

Le mie sorelle erano molto fasciste. Una era maestra elementare, ma era stata presa dal Fascismo, incaricata di fare un giornale per i soldati al fronte. Invece mia mamma era antifascista, proprio di quelle che sputavano sul quadro di Mussolini che era in cucina, appeso da mia sorella. E mio padre era sostanzialmente impolitico.
Dopo l’8 settembre si arruola a Salò?
Non proprio. Mia madre mi aveva consigliato di lasciare Novara. Andai da certi miei parenti nel Modenese: lì trovai un mio cugino che stava organizzando una brigata partigiana. Ma i fascisti hanno arrestato mio padre: quando il soldato era renitente, prendevano il padre. Era il loro ricatto. Ho preso il primo treno e mi sono presentato. Immediatamente mi hanno spedito in Germania: nella Foresta Nera stavano organizzando le divisioni di Graziani, addestrate dai tedeschi benissimo. Lì ho imparato a fare il soldato: ci sono stato sette mesi, un addestramento durissimo, nella neve, mangiando quasi niente. Siamo tornati in Italia in luglio. Dopo Verona, Mussolini è venuto a trovarci in Germania. Ricordo che mentre ci passava in rassegna, il Duce ha detto: “Non andrete a combattere contro i partigiani, andrete a combattere contro gli americani e gli inglesi”. Una falsa promessa.

Nessuno voleva combattere contro i propri fratelli?

Nessuno, a parte qualche fanatico privo di senso dell’onore. A un certo punto ci mandano ad assediare una formazione partigiana, qui vicino a Bobbio. In quei giorni accade un episodio che m’induce a disertare. Ero già deciso ad andarmene, perché ero già partigiano prima che mi portassero in Germania. Durante un combattimento con i partigiani, rimangono feriti due o tre ragazzi di cui uno giovanissimo. Era ferito a una gamba, una sciocchezza. Un mio ufficiale – voglio fare nome e cognome – si chiamava Longarotti, tenente Longarotti, l’ha ucciso fracassandogli il cranio con gli scarponi. La prima reazione è stata sparargli, ma poi ho pensato: ammazzano me e finisce. Mi sono detto “con gli assassini non rimango più…”.
Lei non aveva mai ucciso?

Probabilmente durante i combattimenti. Però mai uno contro uno. Ho chiesto a un parroco di mettermi in contatto con una formazione partigiana cui mi potessi unire. Sono andato di notte con dieci miei compagni che avevo convinto. Però non sono rimasto con loro: erano della divisione Cichero, comunisti, e non mi hanno trattato bene. Ero allievo ufficiale, come studente universitario, loro pensavano che fossi un ufficiale: “Te non ti vogliamo, i tuoi ragazzi, se vogliono rimanere, possono”. Invece sono tutti venuti con me. Così torniamo a Bobbio, dove troviamo un comandante partigiano, Italo Londei. Era maestro, aveva fatto la campagna di Russia e la guerra in Grecia. Aveva grande esperienza, era un uomo di grandissima umanità. I comunisti della Cichero mi avevano tolto tutti i vestiti, a Bobbio ero arrivato in ciabatte, con una tuta legata insieme dagli stracci. Italo mi ha rivestito, e con lui ho cominciato a fare il partigiano.
In che periodo siamo?
Siamo nel settembre-ottobre del ‘44. Alla fine di dicembre – ero diventato uno dei capi della brigata – il comandante mi dice: “Scendi in pianura per procurare denaro, medicinali e viveri”. I viveri ho fatto in fretta: sono andato in una fattoria e ho rubato cento vacche.
Rubato?
Diciamo prelevato. Ho prelevato cento vacche dalla corte di un fascista. Abbiamo attraversato il fiume in una zona che ancora sto male a pensarci. Andavo nelle farmacie e dicevo: datemi quello che potete. Tenevamo una specie di registro e lasciavamo delle “ricevute”. Scrivevamo: il tale ci ha dato dieci vacche, gli verranno ripagate. Dopo la guerra tutti sono stati risarciti completamente. Anche quello delle vacche.
L’ha rivisto?
Per Dio! Sì. Una volta mi ha fatto una scenata anche nella piazza di Agazzano. L’ho insultato anch’io, gli ho gridato “fascista”.
Torniamo alla missione di recupero viveri.

L’ho raccontata perché la sera di San Silvestro del ‘44 è stata la prima volta che ho messo piede in questo castello. Lo ricordo come fosse ieri. Arrivo e mi accoglie un’atmosfera cupissima. Mi dicono: “Fai piano, la figlia del proprietario sta morendo”. Per venti giorni non l’ho vista. Sapevo che stava migliorando, poi l’ho incontrata un giorno sulla scala. Maria Teresa. Era bellissima. Aveva otto anni più di me, aveva fatto studi di medicina, era già una donna. La malattia al cuore le era venuta perché aveva attraversato il Trebbia in gennaio dopo che avevano distrutto il ponte, a nuoto. Aveva un castello… io non avevo niente, la mia unica proprietà era una bicicletta.
Però v’innamorate.
Subito, lì sulla scala. Lei teneva un diario e anch’io, coincidono perfettamente: mentre io mi innamoravo di lei, lei si innamorava di me. Anche se i genitori non erano tanto d’accordo, un anno e mezzo dopo la fine della guerra ci siamo sposati.
Perché il suo diario partigiano è rimasto nel cassetto per settant’anni?

Sulla Resistenza ho scritto altri due libri. Uno è il mio primo libro di racconti pubblicato da Einaudi, Dentro mi è nato l’uomo. Qualche anno dopo è uscito La scelta, con Feltrinelli: raccontava in maniera molto precisa, già da storico, la Resistenza. Questo diario mi sembrava semplice e ingenuo: l’ho scritto mentre c’era la guerra, ero un ragazzo. L’ho messo in un cassetto e l’ho dimenticato. Mimmo Franzinelli sapeva che avevo un testo nel cassetto e mi ha chiesto: “Perché non lo pubblichi per i settant’anni dalla Liberazione?”. Sono andato a rileggerlo e ho pianto. Non ho cambiato neanche una riga.


Lei ha sempre avuto posizioni molto forti soprattutto sull’“avventura coloniale” in Africa, rivelando anche l’uso dei gas.

Montanelli lo negava. Per trent’anni c’è stata una specie di lotta tra noi. Una lotta feroce, ogni volta che usciva un mio libro, Indro diceva: “Di nuovo Del Boca con le sue balle sui gas. Io c’ero in Africa e non ho mai sentito l’odore di mostarda”. Diceva così perché l’iprite sa di mostarda. Ma lui non aveva sentito odore di mostarda perché quando hanno cominciato a gettare i gas non era più al fronte, era in ospedale.

Perché Montanelli ha negato così pervicacemente?
Era innamorato della sua “avventura africana”. Era partito volontario, comandava un piccolo reparto di indigeni eritrei. Per trent’anni mi ha dileggiato. Poi gli ho proposto di mettere la cosa nelle mani di un mediatore. Insieme abbiamo scelto Susanna Agnelli, che allora era ministro degli Esteri e il generale Corcione, ministro della Difesa. Hanno fatto un’inchiesta stabilendo che avevo ragione io. Indro ha accettato la verità: “Le carte mi danno torto, mi arrendo. E chiedo scusa a Del Boca e ai lettori che ho infastidito”.
L’Italia è stata una potenza coloniale da operetta. Cosa che non si può dire di altri Stati europei, come la Francia: che effetto le fa oggi la chiusura sulle politiche migratorie?
Qualche settimana fa Alex Zanotelli e io abbiamo fatto un appello contro la guerra alla Libia: sarebbe la terza volta che entriamo in guerra contro la Libia. Non serve a niente: oggi la Libia è una polveriera, è troppo divisa. Soltanto Gheddafi era stato in grado di mantenere compatta questa nazione per 42 anni.
Lei è stato il biografo di Gheddafi.

Mi aveva raccontato che ogni anno faceva un viaggio nel Paese e andava a parlare con ogni capo tribù: con loro aveva un rapporto molto stretto e li teneva uniti. Soltanto un uomo come Gheddafi era in grado di tenere insieme questa nazione.
Che pensa del dibattito fascismo-antifascismo: è ancora inspiegabilmente vivo, forse anacronisticamente vivo.
Tutto dipende dall’amnistia Togliatti, terribile perché ha ripulito tutto quello che c’era da ripulire. Si ricorda quel Longarotti che aveva scassato il cranio di un ragazzino? L’ho rivisto dieci anni dopo la Liberazione e sa cosa faceva? Il magistrato ad Aosta. Lo avevano accusato di omicidio: l’ergastolo era stato tramutato in dieci anni e i dieci anni in nulla. Quella volta mi sono dovuto trattenere, lo stavo per picchiare.
La Resistenza è una guerra che hanno fatto in pochi e dopo hanno usato in molti. O no?
Non eravamo più di 150 mila. Hanno sfilato, da supposti partigiani, in 300 mila. Infatti io non sono andato alla sfilata: avevo saputo che andavano delle persone che non erano partigiani.
Altri Paesi europei hanno fatto molto più i conti con la loro Storia?

In Germania il dibattito è ancora vivo, ed è un dibattito serio, storico. Aveva ragione Giorgio Bocca quando diceva: “Ho fatto la guerra contro i fascisti perché ero convinto che si potesse eliminare il fascismo. Ma adesso ne sono molto meno convinto”. In fondo l’italiano è molto fascista.
Piace l’uomo forte, l’attitudine al comando?

Sì e questo spiega il successo di Berlusconi prima e di Renzi ora. Piace il cesarismo, piace quest’uomo che gridava “rottamo tutti”. Piace l’uomo forte, l’uomo che decide, l’uomo che non ha dei tentennamenti.
Era questa l’Italia che v’immaginavate sulle montagne?
No, assolutamente. Ho scritto un articolo subito dopo la Liberazione per il giornale di Piacenza. L’ho riletto molti anni più tardi e mi sono dato dell’ingenuo. L’Italia che immaginavo io era un’Italia così depurata, così pulita. Ma erano sogni.
Chi sostiene le ragioni dell’amnistia dice che dopo le guerre c’è sempre bisogno di una pacificazione.
Anche in Francia hanno fatto un’amnistia, però è servita per qualche migliaio di persone. Da noi è servita a decine di milioni: tutta la popolazione era fascista. Dopo la guerra c’è stata una stagione di grande fervore, anche intellettuale, si è cominciato a ricostruire il Paese. Con foga, con convinzione e testardaggine. Accanto a questo la Costituente è riuscita, con un grande sforzo di mediazione, a produrre una carta fondamentale, che ha retto fino ad oggi nonostante gli urti e le spallate. Pare che tutti quelli che arrivano al governo vogliano toccare la Costituzione. È pazzesco.
Lei ha fatto anche il giornalista.

Per trent’anni. Sono stato inviato speciale alla Gazzetta del Popolo, dal 1950 al ‘68. Poi al Giorno sono stato caporedattore centrale. Mi ha chiamato Italo Pietra, che era stato partigiano come me. Il caporedattore del giornale era molto bravo ma aveva fatto una sciocchezza: una sera è andato via prima e nella notte due treni si sono scontrati a Voghera con cinquanta morti. La notizia è uscita su La Stampa e non sul Giorno: così sono stato chiamato io. Sono rimasto lì fino all’81, quando ho deciso di andarmene perché mi avevano offerto un posto di insegnante all’Università di Torino.
Cosa ricorda dell’esperienza dei quotidiani?
La prima parte è stata la più bella: per vent’anni sono stato inviato speciale e godevo di un’assoluta libertà. Avevo vinto dei premi, avevo già scritto libri: mi lasciavano fare quello che volevo. E quindi se dicevo: voglio andare in Etiopia a raccontare la guerra vista dagli etiopici, mi rispondevano “Parti subito!”. Sono andato in India, in Vietnam, in Giappone…
In Vietnam durante la guerra?

Di guerre ne ho fatte tante: l’Algeria, l’Angola, l’Egitto, il Sudan. La peggiore è stata il Vietnam: mi sono trovato molte volte in condizioni incredibili, ho pensato di non farcela. Ti ammazzavano anche in camera da letto. Nei miei viaggi ho incontrato anche persone incredibili.
Per esempio?
Madre Teresa. È stata un’esperienza stupenda, ho vissuto con lei un’intera giornata, dalle 4 del mattino fino a sera, nella sua missione a Calcutta. Aveva una forza d’animo incredibile. Dovevo vincere gli attacchi di vomito quando lei puliva i malati di lebbra. Era una donna tranquilla, semplice, veniva da una famiglia poverissima. Ma era intelligentissima: insieme abbiamo incontrato un architetto che le sottoponeva un progetto per la missione. Lei era preparatissima, gli suggerì ogni sorta di migliorie.

Riferimenti

Alcuni scritti di Angelo Del Boca sono inseriti nel vecchio archivio di eddyburg nella cartella Italiani Brava Gente.

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