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Bernardo Valli
Oggi la decisione alle Nazioni Unite
29 Novembre 2012
Articoli del 2012
«Il voto simbolico per la Palestina che divide l’Europa. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leader armatodella sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, ma ancheobiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia., La Repubblica, 29 novembre 2012
«Il voto simbolico per la Palestina che divide l’Europa. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leader armatodella sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, ma ancheobiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia., La Repubblica, 29 novembre 2012

C’È MOLTO di surreale e di tragico nel rito che l’Assembleagenerale dell’Onu si appresta a compiere nelle prossime ore. È scontato che unacospicua maggioranza del vasto campionario mondiale raccolto nel Palazzo diVetro si pronunci in favore della promozione della Palestina da sempliceorganismo osservatore a Stato osservatore; ed è altrettanto scontato che laPalestina continui poi a essere l’entità territoriale militarmente occupata,qual è dal 1967; e che lo Stato tanto auspicato, promesso e temuto resti unmiraggio.
In concreto, con i due tempi che scandiranno il ritodell’Onu, la Palestina passerà dallo strapuntino di semplice osservatore a unsedile riservato agli Stati che non lo sono sul serio. Il Vaticano, animato daaltre ambizioni, se ne accontenta. Per la Palestina è una promozione piuttostosimbolica, anche se il voto dell’Assemblea generale ha in realtà un pesotutt’altro che insignificante, sul piano politico e morale. A dargli valore sonoanche le promesse mancate. Quante volte è stato auspicato, annunciatoùuno Statopalestinese?
In questo senso il voto è una prima, timida riparazione.Denuncia l’incapacità di ieri e di oggi di chi conta nel mondo. Basta osservarecome ci si è dati da fare nelle ultime ore per impedirlo. Ed è evidentel’angoscia dei paesi europei, il cui voto farà la differenza nella qualità delrisultato. La loro scelta riguarda la giustizia, non solo la politica.
Surreale è senz’ altro la procedura e tragico il risultato se li si mette aconfronto con le aspirazioni degli abitanti di quella Terra troppo santa etroppo contesa. Nell’autunno di un anno fa, Abu Mazen, presidente dell’Autoritàpalestinese, aveva chiesto che il suo paese, fino allora presente all’Onu con l’OLP(Organizzazione per la liberazione della Palestina) nella veste di sempliceosservatore, diventasse uno Stato membro a pieno titolo. Ma quel tentativo èfallito perché, dopo il voto dell’Assemblea generale spettava al Consiglio diSicurezza decretare l’ammissione di uno Stato membro a pieno diritto, e gliStati Uniti avrebbero posto il veto. Washington riteneva e ritiene infatti chesi debba arrivare al riconoscimentodi uno Stato palestinese attraversonegoziati con Israele e non con «un colpo di mano» alle Nazioni Unite.L’esigenza della Casa Bianca coincide con quella israeliana, e blocca lasituazione, perché la società politica di Gerusalemme vive una stagione digrande intransigenza. La quale assomiglia a un rifiuto a vere trattative. Allavigilia delle elezioni politiche, previste per gennaio, nel Likud, principalepartito al governo, ha prevalso alle primarie la corrente meno incline a unautentico dialogo con i palestinesi.
Un anno dopo, Abu Mazen comunque ci riprova, ma con una richiesta meno impegnativa.All’Assemblea generale, dove il veto americano non conta, chiede appunto, oggi,che la Palestina sia promossa da entità osservatrice a Stato osservatore (e nona Stato membro, come richiesto nel 2011). Votare l’ammissione di un paese aquel titolo non significa riconoscere diplomaticamente lo Stato, e quindidichiarare ambasciata la rappresentanza che i palestinesi hanno già in tantecapitali.
All’interno delle Nazioni unite il nuovo status aprirebbetuttavia a loro alcune porte. Ad esempio quella dell’Organizzazione mondialedella sanità o del Programma alimentare. Quella della Corte penaleinternazionale comporta più problemi, perché in quella sede i palestinesipotrebbero denunciare gli israeliani e quindi promuovere processi scomodi perlo Stato ebraico. C’è stato un fitto andirivieni tra Washington, Gerusalemme eRamallah, dove risiede Abu Mazen, per convincere quest’ultimo a impegnarsi sualcuni punti: in particolare a non ricorrere alla Corte Penale internazionale,quando ne avrà acquisito il diritto. In proposito americani e israelianiavrebbero ottenuto una vaga promessa: i palestinesi hanno detto
che non usufruiranno di quella possibilità durante i primi sei mesi. Poi sivedrà. Saeb Erekat, principale negoziatore palestinese, ha respinto un invito aWashington per evitare le pressioni americane. Quando nell’ottobre 2011 laPalestina fu ammessa all’Unesco come Stato membro, gli Stati Uniti sospesero ifinanziamenti all’agenzia incaricata della cultura e dell’educazione.Finanziamenti pari a più del venti per cento del suo bilancio. Qualirappresaglie saranno adottate in questa occasione?
Gli israeliani ne hanno agitate parecchie: abrogazione degliaccordi di Oslo del 1993, che regolano i rapporti tra Israele e l’Autoritàpalestinese; aumento degli insediamenti in Cisgiordania che contano già più diseicentomila coloni; confisca dei diritti di dogana; proibizione ai dirigentipalestinesi di uscire dalla Cisgiordania: ma di fronte alla tenacia di AbuMazen il governo di Gerusalemme ha abbassato i toni. E non si parla più disanzioni. Dice Yigal Palmor, portavoce del ministero degli esteri, che nullaaccadrà se i palestinesi si accontenteranno di fare festa a Ramallah percelebrare la loro vittoria simbolica, e poi ritorneranno sul serio al tavolo deinegoziati. Ma Abu Mazen sa che non può andare a trattative alle condizioniposte dagli israeliani.
Il suo non è soltanto un confronto con Gerusalemme. Labattaglia di Gaza, dove gli avversari palestinesi di Hamas celebrano lavittoria
che si sono aggiudicati, ha ridotto il suo già scarso prestigio. Gli esaltaticombattenti di Hamas considerano la moderazione Abu Mazen come una forma dicollaborazionismo. L’iniziativa all’Onu è la sua battaglia incruenta. Èl’offensiva politica dei palestinesi che rifiutano l’uso delle armi. Questo èun motivo per assecondarla. È vano condannare il terrorismo se poi non si tendela mano a chi lo rifiuta.
Anche tra quelli di Hamas sono emerse in queste ore alcune voci in suo favore.Il voto di New York interessa Gaza, dove si è imparato che le armi servono asfogare la collera, a combattere i soprusi, ma non a risolvere i problemi. Allavigilia dell’appuntamento di New York, Khaled Meshaal, uno dei leader (MohammedMorsi, il presidente egiziano, l’ha voluto al suo fianco durante la crisi diGaza) ha dato un pubblico appoggio a Abu Mazen. Lo ha fatto in aperta polemicacon Ismail Haniye, il primo ministro. Entrata in società dopo un lungoisolamento, grazie agli alleati e ispiratori egiziani, i Fratelli musulmani alpotere al Cairo, e lusingata dai gesti d’amicizia della Turchia di Erdogan, lagente di Gaza seguirà il

voto all’Assembleagenerale come se fosse una battaglia. L’esito potrebbe contribuire col tempo ademolire le mura del loro ghetto.Sugli europei incombe nelle prossime ore una grossa responsabilità. Come alsolito non sono riusciti a prendere una decisione comune. E quindi vannodispersi al voto. Ma devono sapere che il loro parere contrario o anche unaastensione, con l’inevitabile sapore di viltà, significherebbe una sconfittaper Abu Mazen, e in generale per i palestinesi che come lui rifiutano laviolenza e ricorrono alla politica. Decine di ministri arabi visitano Gaza,dove si festeggia un’azione militare che ha appena fatto decine di morti, emigliaia nel passato. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leaderarmato della sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, maanche obiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia.

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