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Marco Revelli
Perché non piace ai neo-liberali
16 Febbraio 2006
Altre persone
Ci sono uomini, come Piero Gobetti, che non possono essere vincitori, ma senza i quali una società è morta. Nell'ottantesimo anniversario della morte provocata da un'aggressione fascista, un articolo da la Repubblica del 15 febbraio 2006

A ottant’anni dalla morte Piero Gobetti rimane, nell’Italia di oggi, figura inquieta. Certamente non conciliata, né conciliante. Nonostante l’approdo di pressoché tutte le culture politiche del nostro paese a una formale adesione al liberalismo, il «liberale» Gobetti non è stato unanimemente accolto, come forse superficialmente ci si sarebbe potuto aspettare, nel novero dei «padri della patria» ma continua, come ogni buon «eretico» che si rispetti, a ricevere - accanto a minoritarie ma convinte adesioni - scomuniche e anatemi.

Nonostante il suo liberalismo. O forse proprio a causa del suo (particolare) liberalismo.

Che tipo di «liberale» era dunque Gobetti? Forse per comprenderlo la via più breve, e sintetica, è la lettura della densa serie di scritti che pubblicò sulla sua rivista di battaglia, Rivoluzione liberale nel 1922, a ridosso della marcia su Roma, nel momento drammatico e intensissimo in cui, potremmo dire, Gobetti diventò Gobetti, e nel naufragio del vecchio mondo definì il senso della propria azione politica e culturale: «Abbiamo sempre saputo - scriveva, ad esempio, in un articolo del 23 novembre, intitolato “La Tirannide” - di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione». «La nostra - aggiungeva nello stesso numero, in una nota dedicata a “Questioni di tattica” - è un’antitesi di stile. Noi non combattiamo specificamente il ministero Mussolini, ma l’altra Italia». E precisava nella pagina accanto, sotto il titolo definitivo, “Elogio della ghigliottina”: «Il fascismo vuol guarire gli italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l’appello nominale dei cittadini, tutti abbiano dichiarato di credere alla patria, come se nel professare delle convinzioni si limitasse tutta la praxis sociale. Si può valorizzare il regime, si può cercare di ottenerne tutti i frutti: [Noi] chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro». Considerando il fascismo «autobiografia della nazione» - la prova provata e il frutto delle nostre «tare storiche», della fragilità del nostro Risorgimento e della nostra coscienza politica -, affidava la possibilità di emendarsene a una rottura netta nella continuità delle classi dirigenti - a una «rivoluzione», appunto - e offriva se stesso e il proprio gruppo in consapevole «sacrificio».

Questo era dunque il liberalismo di Gobetti. Un liberalismo non accademico, lontano anni luce dall’estenuata cultura notabilare dei liberali del suo tempo, forgiato nel fuoco di uno scontro politico mortale con la dittatura incipiente e proprio per questo attento più ai valori dell’autonomia, alle pratiche della liberazione, alla dimensione antropologica ed etica che non a quella giuridica e istituzionale. L’unico tipo di liberalismo capace di far fronte al vitalismo selvaggio del fascismo sorgente. Certo esso si nutriva più del culto einaudiano per il libero e aperto confronto (diciamolo pure: per lo scontro) tra le classi sociali - dell’idea del valore salvifico del «conflitto» per una sana cultura civile - , che non della problematica anglosassone della separazione dei poteri e della ingegneria costituzionale. E declinava l’idea di libertà in una chiave apertamente attivistica, come capacità («dovere») di ognuna delle parti in campo di perseguire con chiarezza e con nettezza il proprio progetto, di «mantenere le posizioni» con intransigenza (come «libertà positiva», libertà «di»), più che come passiva tolleranza e indifferenza (come «libertà negativa», libertà «da»). Con una visione che può anche definirsi «elitistica»: affidata a minoranze virtuose. Venata persino di una non taciuta vocazione «pedagogica». E tuttavia, per un paese cui era mancata, storicamente la propria «rivoluzione», che non aveva mai vissuto una vera rottura col passato, giudicata necessaria per conquistare la propria tardiva modernità.

Si spiega così - con questo nucleo sostanzialmente etico del liberalismo gobettiano - il sospetto, quando non l’aperta antipatia nei suoi confronti da parte dei tardivi neo-liberali di fine secolo. Domenico Settembrini e Lucio Colletti, alla domanda sulla sua attualità, in occasione della riedizione de La rivoluzione liberale nel 1995, avevano risposto rispettivamente: «Nessuna» e «Quel libro serve solo a D’Alema», mentre Cofrancesco la commentava sul Corriere della Sera sotto il titolo “La rivoluzione inattuale”, e la rivista Liberal apriva il fuoco con Giuseppe Bedeschi. Il suo veniva incluso tra i «linguaggi non secolarizzati», tipico più di un riformatore religioso che di un politico pragmatico; la sua visione giudicata obsoleta perché «il conflitto non verteva su consistenti interessi mondani, ma su impegnative concezioni del mondo». Ernesto Galli della Loggia, infine, ne contesterà l’asimmetria nel giudizio su fascismo e comunismo, e soprattutto l’eticizzazione del liberalismo gobettiano, come forma paradossalmente interna all’«ideologia italiana».

Né quest’ostilità stupisce. Il liberalismo etico di Gobetti era infatti incompatibile con ogni «cerchiobottismo», con ogni vocazione bi-partisan, con ogni pratica di accomodamento e di neutralizzazione di cui - aldilà della retorica «polarizzante» del maggioritario - era avida la nascente seconda repubblica.

Esso rompeva con ogni cultura del compiacimento e dell’autocompiacimento nazionale. Praticava una sobria ed esigente cultura del disagio: un’impietosa denuncia dei propri vizi e delle proprie insufficienze. Era «anti-italiana» nella sua sostanza programmatica. Non poteva che entrare in conflitto con l’Italia avida di unanimismo, bisognosa di riconciliazione, che apriva le porte a ogni proprio passato tenera con i propri tanti vizi, aspra con le poche virtù: l’Italia desiderosa di continuità e assoluzione delle proprie classi dirigenti entrata finalmente nell’epoca del liberalismo edonistico e del cittadino-consumatore.

L'immagine è un disegno di Felice Casorati

Chi è Piero Gobetti

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