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Piero Fassino
«Togliatti un padre della Repubblica e fondatore di una sinistra nuova»
15 Agosto 2005
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Quarant'anni fa moriva Palmiro Togliatti. Intervistato da Paolo Franchi sul Corriere della sera del 21 agosto 2004, il leader dei DS ricorda il ruolo e i limiti di uno dei più positivi protagonisti della costruzione della democrazia in Italia. L'immagine è una riduzione del quadro di Renato Guttuso, I funerali di Togliatti

È possibile, a quarant’anni dalla morte, formulare un giudizio equilibrato su Palmiro Togliatti, o almeno sul Togliatti «italiano» del periodo 1944-64? E può tentarlo, questo giudizio, il segretario di un partito nato sulle ceneri del vecchio Pci? Piero Fassino pensa di sì. Ma a due condizioni. «La prima: non piegare la valutazione storica alle contingenze della politica attuale. La seconda: guardarsi dalla tentazione di rimuovere, perché nessuna nazione e nessun partito possono avere un futuro se recidono le proprie radici».



Cosa rappresenta Togliatti per la democrazia italiana?

«Come De Gasperi, Nenni, Saragat e La Malfa, Togliatti è stato un padre della Repubblica. La svolta di Salerno ha cementato l’unità antifascista, decisiva per la scelta repubblicana e la Costituzione. Il sì all’articolo 7 ha posto le basi per superare una contrapposizione ideologica fortissima in un Paese segnato dalla questione cattolica, l’amnistia ai repubblichini ha contribuito a voltare pagina e andare oltre...».

È d’accordo con chi sostiene che il comunista Togliatti è riuscito dove avevano fallito i socialisti, a costituzionalizzare un movimento operaio intriso, ben prima del ’21, di sovversivismo e di estremismo?

«Sì. E direi anche che, in qualche modo, Togliatti ha ripreso il grande disegno di Turati e Giolitti, spezzato dalla prima guerra mondiale e dal fascismo. E alla tradizione riformista Togliatti si è rifatto, in alcuni casi anche esplicitamente, nella lotta politica condotta all’interno stesso del Pci nel ’45 contro chi voleva "fare come in Grecia"».



In questo senso, si potrebbe anche dire che Togliatti è stato un rifondatore. Forse l’unico nella storia del Pci.

«Forse, considerando il suo tempo, è stato anche qualcosa di più, il fondatore di una sinistra nuova nella storia nazionale. Il suo Pci, il "partito nuovo", non è più quello della clandestinità e della cospirazione. È un partito di massa, radicato in una società che si sforza di interpretare e di rappresentare. È un partito che diventa rapidamente il punto di riferimento di una parte grandissima dell’intellettualità. E non è un partito ideologico. Il primo volume pubblicato dagli Editori Riuniti non è Il Capitale di Marx ma il Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Prefato da Togliatti».



Non teme che le piovano addosso accuse di continuismo, o addirittura di apologia per un leader comunista che è stato tra i principali collaboratori di Stalin?

«Quello che sto dicendo su Togliatti lo potrei dire, in ambiti diversi, per tutti gli altri padri fondatori della Repubblica, a cominciare da De Gasperi. Ciascuno di loro, all’indomani della guerra, ha ricostruito la propria parte politica con l’ambizione di darle una funzione nazionale, e sapendo bene che in nessun modo sarebbe bastato rifarsi alle esperienze e alle identità dell’Italia prefascista. Anche per questo tutti i partiti democratici, che sono stati grandi scuole di formazione delle classi dirigenti, hanno contribuito in misura determinante a incivilire l’Italia».



A differenza dagli altri padri fondatori, Togliatti fu, e si considerò sino ai suoi ultimi giorni, un autorevolissimo dirigente del movimento comunista internazionale. E le sue scelte, e le sue svolte, non erano affatto in contraddizione con la strategia di Stalin e dell’Urss.

«Sì, il Togliatti "italiano" coesisteva con il Togliatti esponente di primo piano del comunismo internazionale. Ma proprio questa contraddittoria coesistenza precluse al Pci la possibilità di essere una credibile alternativa di governo. Togliatti cercò di limitarne i danni: la teoria dell’"unità nella diversità" e del policentrismo, elaborata a cominciare dal ’56, vanno lette anche in questa chiave...».



Il ’56 è l’anno del XX Congresso, e della denuncia, da parte di Krusciov, dei crimini di Stalin: ma Togliatti non apprezzava affatto né Krusciov né la destalinizzazione. Il ’56 è anche l’anno della sanguinosa repressione della rivoluzione ungherese: ma Togliatti apprezzò, anzi, a dire il vero, invocò, il secondo intervento dell’Armata Rossa a Budapest.

«È verissimo, la diffidenza verso Krusciov e la destalinizzazione, e l’atteggiamento sull’Ungheria, sono una terribile e incancellabile responsabilità di Togliatti. In realtà è solo dopo la rottura tra i sovietici e i cinesi, tra il ’62 e il ’64, nei suoi ultimi anni di vita, che Togliatti pone con più forza, come dimostra il Memoriale di Yalta, la questione dell’autonomia. Non bastava davvero. Il tentativo fallì definitivamente nel ’68, con la "normalizzazione" della Cecoslovacchia di Dubcek e la teoria brezneviana della "sovranità limitata". Fu allora che Longo, con la condanna dell’intervento, superò di fatto l’"unità nella diversità". E iniziò un cammino che avrebbe portato il Pci prima all’eurocomunismo, poi allo "strappo" di Berlinguer con Mosca, nell’81, e infine, alla svolta di Occhetto».



Riconoscerà che 21 anni sono molti, per prendere atto dell’irriformabilità di un sistema resa evidente già dalla repressione del tentativo di «riforma dall’interno» di Dubcek.

«È vero, il cammino è stato troppo lento. La svolta avremmo potuto farla già nel ’70, di fronte alla prima crisi polacca; alla fine di quel decennio, di fronte all’intervento sovietico in Afghanistan; nell’81, di fronte al golpe militare a Varsavia. Di volta in volta, Berlinguer accentuò la durezza delle critiche, ma non le portò alle estreme conseguenze, nella speranza che, in un mondo meno segnato dalla guerra fredda, quelle critiche potessero aiutare, a Est, le forze più riformatrici».



Non crede, dunque, che sia stata determinante la preoccupazione per la reazione di militanti e simpatizzanti ancora molto legati al mito dell’Urss?

«Una preoccupazione di questo tipo la nutriva già Togliatti, che pure con l’Urss non intendeva affatto rompere: e infatti cercò costantemente di far sì che nessuna novità della sua politica potesse essere vissuta da una parte importante del partito come uno smarrimento di identità. Berlinguer non poteva e non voleva tornare all’antico. L’eurocomunismo, l’intervista sulla Nato, il voto unitario sulla mozione di politica estera di tutti i partiti dell’arco costituzionale: tutto questo appartiene agli anni della solidarietà nazionale. E tuttavia anche Berlinguer è frenato dalla paura di smarrire le radici. Quando denuncia l’"esaurimento della spinta propulsiva" del modello sovietico, il compromesso storico è già entrato in crisi, e la politica del Pci si indurisce anche per rassicurare il partito: l’ulteriore presa di distanze da Mosca non comporta "cedimenti" in Italia».



E siamo alla «svolta di Occhetto». Che avviene un minuto dopo la caduta del Muro, non un minuto prima.

«Ma era in incubazione dall’autunno dell’88. E, se fossimo stati meno autoreferenziali, e più capaci di metterci in sintonia con i tempi della storia e della politica, avremmo potuto farla sei mesi prima, dopo Tien An Men. Ciò non toglie che si trattò di una rottura di continuità vera: così vera che una minoranza importante del Pci non la condivise, e ci fu una scissione. Non cambiammo solo il nome. Mutò la forma del partito, con l’abbandono del centralismo democratico. Mutò, con l’adesione all’Internazionale socialista, la sua collocazione internazionale. Non sapemmo, è vero, indicare con nettezza l’approdo socialdemocratico cui doveva giungere il nostro lungo percorso: lo abbiamo fatto negli anni successivi».



E di Togliatti, cosa resta?

«Viviamo in un’epoca, in un mondo e in un’Italia del tutto diversi, è quasi inutile dirlo. Ma una lezione, di sostanza, non di metodo, resta viva. E cioè l’idea che un partito non si fonda sull’ideologia, ma sulla sua capacità di mettere radici nella società, e di esercitare una funzione nazionale. Al governo come all’opposizione. Nel ’44 Togliatti lavorò per una sinistra capace di concorrere alla costruzione della democrazia, e si inventò per questo un partito nuovo. Oggi, in tempi di bipolarismo, al più grande partito della sinistra spetta il compito decisivo di concorrere alla riorganizzazione del centrosinistra, creando, con la federazione dell’Ulivo, una forte guida riformista. Sarà il tema del nostro Congresso».

Una biografia di Palmiro Togliatti

Il quadro di Renato Guttuso

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