Sulla concordia ordinum fra ministri della repubblica, pubblici amministratori, imprenditori e bel mondo assortito quanto alla necessità di un maggior impegno del privato nella gestione del nostro patrimonio culturale (v. gli articoli riportati su eddyburg), è davvero esercizio vano sprecare qualche stupore. E all’enciclopedica saggezza del Presidente di Confindustria che nella fattispecie propone ricette sui destini del nostro patrimonio culturale solo i più pervicaci e faziosi spiriti radical bolscevichi possono ormai opporre qualche critica. Quanto alla soluzione indicata - il ricorso al privato come soluzione unica delle inefficienze del pubblico - in tempi di neoliberismo arrembante, appare scontata, anche se riproposta, nell’occasione, davvero in forme così rozzamente datate e con slogan di tale provincialismo ideologico da consigliare per lo meno un rapido avvicendamento di ghost-writer: speravamo di aver superato la visione dell’Italia “padrona” e “a gratis” del 50% del patrimonio culturale mondiale, ma a quanto pare nulla dell’armamentario d’antan ci è stato risparmiato, e dunque “privato è bello e buono” e di tale generosità da aver sborsato, complessivamente e sull’intera area torinese, come è stato orgogliosamente ribadito, ben 16 milioni di euro in venti anni!
Mentre la munificenza della Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali torinesi (che comprende, fra gli altri, Fiat e Pirelli, Toro e Bancaintesa) celebrava i propri fasti, a pochi kilometri di distanza, si inaugurava una delle imprese più rilevanti degli ultimi tempi, di recupero del nostro patrimonio culturale; proprio nelle stesse ore tornavano a risplendere, per il piacere di tutti noi, le meraviglie barocche della Venaria Reale: 200 milioni di euro in meno di 10 anni. Tutti soldi pubblici.
Intendiamoci, Venaria è solo un esempio, fulgido, meno isolato di quello che si voglia credere, ma non così normalmente diffuso come si possa sperare: quotidianamente eddyburg sottolinea, senza sconti “di parte”, come la gestione pubblica del nostro patrimonio sia largamente carente su più fronti. Anche da parte di chi scrive è stato sottolineato, a più riprese, come, fra gli aspetti positivi del nuovo Codice dei Beni culturali e del paesaggio sia da annoverare la maggiore apertura nei confronti dei privati: la partita per una tutela davvero attiva ed efficace del nostro patrimonio è tanto difficile e complessa che il ricorso al più ampio numero di risorse è non solo auspicabile, ma pressoché indispensabile.
Ma, come sempre, in un quadro in cui gli attori in gioco aumentano e le interrelazioni si complicano, altrettanto indispensabile appare il richiamo all’adesione di un insieme di regole condivise che salvaguardi, in primo luogo, la specificità del bene culturale e ne garantisca il suo statuto di bene pubblico.
In questo senso l’adesione incondizionata del ministro Rutelli alle affermazioni assai poco culturalmente attrezzate della kermesse torinese, appare a dir poco contraddittoria rispetto agli ondivaghi atteggiamenti del suo Ministero nei confronti di proposte assai equilibrate e rigorosamente regolamentate nella ripartizione dei ruoli di collaborazione fra enti pubblici e privati (il caso Campania su tutti).
E poi, proprio a Torino, il richiamo alla città sabauda come esempio di rinascita urbana attraverso la cultura rappresenta davvero un clamoroso effetto di fallacia causale: la città, regno incontrastato degli italici sovrani dell’auto, dal secondo dopoguerra fino a qualche lustro fa, durante tutta la fase di sviluppo industriale è rimasta prigioniera di una cappa di conformismo culturale che ne ha ingrigito il clima sociale e urbano per decenni e dal quale solo robustissime dosi di investimenti pubblici l’hanno risollevata in questa faticosa fase di riconversione postindustriale. Il successo non effimero di cui gode attualmente Torino sul piano culturale e sociale si deve quasi esclusivamente ad oculate e lungimiranti strategie di governo pubblico (soprattutto sul piano locale). In questo ambito agli Agnelli, davvero padroni della città (e non solo) per decenni, sono ascrivibili probabilmente, negli anni, molte elargizioni che difficilmente, in un computo anche solo volgarmente quantitativo, potranno mai lontanamente equiparare i cospicui aiuti pubblici, finanziari e non, cui la stirpe imprenditoriale ha attinto a piene mani ogni qualvolta (molto, molto spesso), la propria gestione privata dimostrava la sua inadeguatezza anche in termini di cultura industriale. E lo “scrigno” del Lingotto: un insieme senz’anima e senza eleganza di costosissime tele radunate a consacrare l’epopea di un capitalismo provinciale e approssimativo, che ha estrinsecato le sue migliori virtù intellettuali nell’applicazione dell’assunto “socializzare le perdite e privatizzare i profitti”.
Proprio per questo, la pretesa di inversione dei ruoli che si intravede in filigrana, ma distintamente, dietro lo slittamento lessicale reiteratamente ribadito dal consesso imprenditorial-finanziario – non più mecenati, ma “sponsor attivi” e superamento del “semplice” mecenatismo, a favore di “strategie aziendali”, che vuol dire, in soldoni, largo ai privati non solo come finanziatori, ma con un ruolo di vero e proprio indirizzo “strategico”, induce i nostri incoercibili spiriti malevoli, a nostalgie quasi inconfessabili: “aridàtece Giulio II”.