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Giorgio Ruffolo
La società non può essere sacrificata al dio mercato
2 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
Mercato, PIL, competitività: proviamo a criticare questi idoli e a ragionare sul benessere. Una proposta di ieri (la Repubblica, 14 agosto 2001), più attuale che mai

Per il povero Marx è proprio una nemesi. Lo hanno crocifisso per quel suo determinismo economico: che vergogna, ridurre tutta la lussureggiante fioritura delle idee al cieco brancolare degli interessi! Engels si provò a spiegare che non era proprio così: che bisognava intendere la cosa con un po' più di un grano di sale. Ma invano. E la vulgata staliniana del marxismo finì poi, compitando in modo barbarico la lezione dei maestri, per ribadire quella versione semplificata. Ma poiché la storia, come il buon Hegel sapeva, si vendica, il goffo catechismo deterministico di Stalin battezzò la più colossale e disumana impresa volontaristica della modernità: l'Unione Sovietica.

Ma ora, che succede? Che il determinismo economico risorge dalle sue ceneri: però, da destra. Una nuova vulgata neoliberista (pare che la nostra epoca non ci lasci che dei nei!) si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico. A dire la verità, più che di una teoria si tratta di una fede: perché - così come il complesso pensiero marxiano fu pietrificato nelle litanie staliniane - anche la lucida aritmetica degli economisti classici e le geometrie eleganti dei marginalisti sono state immerse in un brodo mistico.

Mercato e Mercati non sono più modelli di scuola, ma divinità imperscrutabili. Così, le società più ricche e più potenti della storia si paralizzano all'inizio di ogni settimana, nell'attesa trepidante dell'apertura delle Borse, le nuove ambigue Pizie del turbocapitalismo.

Quest'ansia è però controllata da una incrollabile certezza. Per sottrarsi allo stress, bisogna essere e mantenersi competitivi. Questo è il Verbo del nostro tempo turbinoso: correre come Alice sul tappeto perverso. Sacrificare ogni lusso - l'educazione, la salute, l'aria pulita, la sicurezza della vecchiaia e una decente prospettiva di lavoro stabile - all'esigenza di stare al passo. E questo passo si misura ormai alla stregua del mondo intero: la competitività è internazionale, o non è.

Ma che cos'è questa competitività internazionale che sola può propiziare la grazia imperscrutabile dei Mercati? Il fatto sorprendente è che nessuno l'ha mai definita. Proprio come Dio. Secondo Paul Krugman, insigne economista americano, che ha scritto nel 1997 un libro brillante sull'argomento, è "un'ossessione pericolosa". E prima ancora, è un concetto vuoto di senso. Non significa niente se applicata, come si fa spesso del suo proprio campo - che è quello del mercato in senso stretto - ai paesi, alle nazioni. Non c'è, del resto, metafora più fuorviante e melensa insieme di quella che rappresenta una economia nazionale come una impresa. L'azienda Italia diventò di moda nei tardi anni Settanta, anche tra gli allora giovani socialisti rampanti: li faceva sentire più moderni, più fichetti. Poi si è banalizzata, è diventata un must del linguaggio politico-manageriale. Più che una moda, però, questa metafora costituisce, dice Krugman, una vera ossessione: pericolosa, se la si prende sul serio. Se davvero si pensa che le nazioni competono tra loro come le imprese; e che ci siano imprescrittibili vincoli dettati da questa gara alla allocazione delle risorse tra usi pubblici e privati o alla distribuzione del reddito tra gruppi sociali.

Il fatto è che un paese non è un'azienda, non è mosso dalle sue motivazioni, non è sottoposto ai suoi limiti. Certo, sono entrambe forme di organizzazione sociale. Ma anche la gallina e l'uomo sono entrambi bipedi. L'impresa è un'attività strumentale promossa e diretta da soggetti precisi rivolti al fine del profitto. Ciò le impone dei vincoli, violati i quali fallisce; e la pone in concorrenza con altri soggetti rivolti allo stesso fine. La comunità nazionale è una collettività esistenziale dalla formazione e dai fini largamente indeterminati. Non ha una posta specifica da perseguire.

Non ha una linea di galleggiamento precisa da mantenere. Le nazioni, ovviamente, possono scomparire in una guerra o in una rivoluzione, ma non in un'Opa. Le società possono disgregarsi, ma non portano i libri in tribunale.

Insomma, le nazioni non corrono su una pista, testa a testa, per massimizzare una performance, perché non c'è nessuna misura di quella performance. Qual è la misura della competitività? A prima vista, sembrerebbe ovvio: il saldo della bilancia dei pagamenti correnti. Ma se così fosse l'economia americana, con il suo deficit esterno mostruoso, sarebbe la meno competitiva del mondo, mentre l'Europa, col suo rilevante avanzo commerciale, se la caverebbe brillantemente.

Non c'è dunque un concorso internazionale che ci obbliga a correre tutti nella stessa direzione. C'è - meglio, ci dovrebbe essere - una gara tra le nazioni per conseguire livelli sempre più alti di benessere. E per concorrere a questa gara, un'alta produttività, garantita da un elevato tasso di innovazione tecnologica, è vitale. Ma questa esigenza, che deve ovviamente tener conto dei risultati del mercato, deve essere armonizzata con le altre che assicurano la coesione sociale: la formazione, la salute, il lavoro, la sicurezza, oggi l'ambiente. Ora, lo stabilire i termini di questa combinazione - questo è il punto - è responsabilità politica della collettività. Essi non possono essere dettati dalle imperscrutabili leggi del mercato: anche perché ci sarebbe - come dire? - un grosso conflitto d'interessi.

Facciamo una congettura. Suppose that, (come diceva il grande Ricardo, per spiegarsi): supponiamo che gli economisti, stanchi di perseguire la cometa fuorviante del Pil (o Pirl che dir si voglia) inventino un metodo nuovo di contabilità sociale, che permetta ad ogni paese di costruire e di scegliere democraticamente la sua propria - diciamo così - WWW (Welfare Wishful Way, un indicatore desiderabile di benessere): una combinazione, necessariamente diversa per ogni paese, di obiettivi riguardanti lo stato auspicabile della ricchezza, della fiscalità, della disuguaglianza, della protezione sociale, della salute, dell'educazione, dell'ambiente. Coerente e, naturalmente, aggiornabile. Il successo di un paese sarebbe misurato non dalla sua capacità di crescere come Frankenstein, senza sapere perché e verso dove; ma dalla misura in cui si avvicina a quell'indice. La sua competitività reale con gli altri paesi sarebbe misurata dallo scarto relativo rispetto a quell'indice. Finalmente sapremmo davvero chi è il più bravo. E gli economisti recupererebbero pienamente la "degnità" sociale di una scienza che è sorta al servizio dell'uomo e non dei ricchi e potenti.

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