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Vittorio Gregotti
Città infinite e globali
4 Settembre 2006
Megalopoli
Il tema della forma urbana fra le insufficienze dell'architettura e le aporie della disciplina. E la politica è il convitato di pietra...Da la Repubblica, 4 settembre 2006 (m.p.g.)

La Biennale di Architettura di Venezia promette nel titolo (Città, architettura e società) e nelle interviste al suo coordinatore, di occuparsi in modo temerario del serissimo problema della grande città.

Metropoli, megalopoli, città mondiali, città regione. Non si tratta solo del fatto che più del 50% della popolazione del globo è oggi insediata nelle città; una quota sempre più rilevante si va concentrando in complessi urbani sempre più vasti o in sistemi urbani composti da più insediamenti connessi da campagne urbanizzate sempre più ampie.

E un fenomeno fatale, logico ed inarrestabile o solo una fase dello sviluppo? La nozione di città, che risale a più di 5000 anni, in questi casi è per esse ancora utilizzabile? Perché la fine della città nella dispersione promessa dalle comunicazioni immateriali ed annunciata più di trent´anni or sono si è invece ribaltata nel gigantismo o nelle città infinite assai di più che nelle megalopoli in quanto sistemi urbani vasti e complessi preannunciati dagli studi di Gottman ormai mezzo secolo fa? Perché invece le città medie (specie quelle europee) perdono progressivamente popolazione residente ed identità e si trasformano in meccanismi di servizio di «city users» o in «entertainment city»? Le ragioni, è ovvio, sono assai diverse, anche se sovente sovrapposte in diversa misura, nelle distinte aree del globo e la bibliografia intorno ad esse di varie discipline, dalla sociologia all´antropologia dall´ecologia ambientale alla politica urbanistica è vastissima ma in gran parte constatativa piuttosto che propositiva; se non nelle forme dell´utopia architettonica tecnologica o fumettistica.

La povertà poi espelle cittadini dai centri urbani e ne attira dalla campagna nelle periferie disperse o concentrate quantità rilevanti: rilevantissime e sovente incalcolate nei paesi del Terzo Mondo. L´estensione delle periferie ha quasi ovunque travolto in termini di dimensioni quella della città consolidata.

La globalizzazione seleziona e concentra in poche città (le «global cities» descritte da Saskia Sassen) il potere decisionale e finanziario, cioè oggi economico che decide sugli stessi spostamenti localizzativi della produzione ormai deterritorializzata, cioè scissa dall´area urbana di origine.

Peraltro Max Weber scriveva in La Città più di ottant´anni or sono: «Oggi più che mai percentuali preponderanti degli utili delle imprese circolano in luoghi diversi rispetto al luogo di origine dell´impresa che li realizza».

Ma occuparsi della città significa anche tentare di capire il ruolo delle architetture che la costruiscono e ne formano l´assetto visibile abitabile con le proprie articolazioni identificabili ma anche cercare di correggere la centralità dell´estetica dell´oggetto che ha occupato purtroppo negli ultimi anni la cultura architettonica a dispetto della costituzione di un disegno urbano.

Anche se nessuno parla più di «grandeur conforme», anche se il demone dell´espansione infinita ha travolto ogni riflessione sulla scala e sui limiti ragionevoli delle città e sulla sua distinzione dalla campagna, resta, messa in evidenza proprio dalle grandissime città, la questione della forma urbana e del ruolo delle architetture dentro di essa, e che da essa dovrebbero prendere senso.

La città dura assai di più delle motivazioni che hanno prodotto le sue parti e quindi la sua forma dovrebbe fondarne il significato nel tempo. Forse perché l´incessante è diventato un valore che ha messo in questione quello della durata, il disegno urbano è diventato un´attività tanto dimenticata quanto ideologicamente avversata: al massimo si pratica come una mimesi della transitorietà, della rapidità dello sviluppo che nega ogni principio di stratificazione, una somma di oggetti di design ingranditi e concorrenziali che sembrano opporsi volontariamente ad ogni decifrabilità per chi ne percorra gli spazi pubblici aperti, concepiti ormai come spazi residuali. Ma proprio l´estensione quantitativa della grande città, il moltiplicarsi infinito dell´eccezione come la ripetizione meccanica della pura produzione edilizia impediscono la riconoscibilità delle cose: se si costruiscono, come a Shanghai, 4500 grattacieli in pochissimi anni, ogni variazione del tipo edilizio diventa irrilevante come l´edificio nell´estensione deregolata dello «sprawl» delle periferie esterne o il rumore indistinto dell´uniformità monofunzionale dei quartieri residenziali della prima periferia.

Sia la moltiplicazione meccanica del prodotto edilizia che la ripetizione capricciosa delle differenze sono sospese nel vuoto della mancanza di ogni principio insediativo che le fondi e le organizzi in modo necessario verso una forma urbana e le sue regole. La regola insediativa è il contrario dell´uniformità e ciò che permette al ritmo della città, alle sequenze ed alla gerarchia delle parti ed alla varietà di istituirsi; è ciò che rende visibile l´identità del sito, che permette all´immagine sociale di espandersi.

Tutto questo è messo da parte: non se ne trova traccia nello stato attuale dello sviluppo delle grandi città; nessuna istituzione è riuscita a dare risposte all´impeto dell´ammassamento, all´aumento vertiginosamente quantitativo delle iniziative, alla religione dello sviluppo (quasi sempre a vantaggio di pochi). Di principi capaci di organizzare in modo comprensibile i nuovi materiali delle città se ne trovano solo tracce velleitarie o elisioni totali proprio anche nella cultura architettonica che ne dovrebbe avere la responsabilità, una cultura che non è stata in grado di produrre risposte convincenti e non nominalistiche intorno alla forma urbana del presente.

Nel 1960 Lloyd Rodwin insieme a Kevin Lynch raccolse in un libro dal titolo “Il futuro della metropoli” una serie di contributi di diverse discipline intorno al tema che, anche se essenzialmente volte alla cultura degli Stati Uniti, hanno costituito per molti anni un punto di riferimento. A distanza di quasi mezzo secolo, è quindi importante confrontarsi con i nuovi dati a disposizione e cercare di riflettere sul vasto, globale cammino percorso dalle cose e su quello breve delle idee dell´architettura della forma urbana.

Mi auguro quindi che la prossima Biennale di Architettura, che promette nel titolo di lasciare da parte i vuoti formalismi delle ultime due o tre edizioni tutte concentrate sulle bizzarrie estetiche dell´oggetto-edificio, non dimentichi le questioni della forma della città e delle sue parti, questioni che in quanto architetti ci competono pur con tutto il peso delle contraddizioni del presente ma che sono cruciali per il senso stesso della cultura architettonica.

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