Il 22 maggio 2006 il quotidiano la Repubblica pubblicava, su due intere pagine e con un richiamo in prima, un articolo di Paolo Rumiz su uno dei peggiori crimini consumati in Etiopia dalle truppe fasciste. L’articolo raccontava, in sintesi, ciò che lo storico Matteo Dominioni aveva scoperto nei dintorni di Ankober, seguendo l’itinerario indicato da una mappa dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito.
Si tratta di un’immensa caverna nella quale alcune migliaia di etiopici, partigiani combattenti ma anche donne e bambini, si rifugiarono il 9 aprile 1939, durante uno dei frequenti rastrellamenti ordinati da Amedeo di Savoia e dal comandante delle truppe, generale Ugo Cavallero.
Per snidare gli arbegnuoe (i partigiani) dalla caverna, il plotone chimico della divisione “Granatieri di Savoia” utilizzò i lanciafiamme e, quando queste armi si rivelarono inefficaci, impiegò l’artiglieria, con bombe caricate a iprite e arsine. Tuttavia, occorsero tre giorni di intensi bombardamenti per eliminare “il focolaio di rivolta”. Secondo i documenti militari italiani, i morti “accertati” furono 800, ma gli etiopici, che Dominioni ha interrogato nella regione, parlano invece di migliaia di uccisi. Cifra convalidata anche da ciò che di macabro e di terrificante Dominioni ha rinvenuto nella sua ispezione della caverna.
L’episodio, certamente tra i più gravi accaduti in Etiopia (ma neppure il più angoscioso, se confrontato con le stragi di Addis Abeba del 19-21 febbraio 1937 e con la totale distruzione della popolazione della città conventuale di Debrà Libanòs), è il risultato di una di quelle “operazioni di grande polizia coloniale” che hanno caratterizzato il periodo della presenza italiana in Etiopia. Dopo aver sconfitto in 7 mesi, con una serie di battaglie campali, gli eserciti dell’imperatore Hailè Selassiè, Mussolini era persuaso di aver concluso le operazioni belliche. Invece, non era che all’inizio. Per cinque anni avrebbe dovuto contrastare una generale e insidiosa guerriglia, ricorrendo a una controguerriglia fra le più feroci e cruente. In effetti, gli italiani non riuscirono mai a conquistare tutto l’impero del Negus.
L’Etiopia è il paese che maggiormente ha pagato, in termini di vite umane, le aggressioni dell’imperialismo italiano. Ma la repressione è stata durissima anche in altre colonie africane, come la Libia e la Somalia. Nel Memorandum presentato dal governo imperiale etiopico al consiglio dei ministri degli esteri, riunitosi a Londra nel settembre del 1945, si parlava di 760mila morti, facendo riferimento solo alle perdite subite tra il 1935 e il 1943 e non a quelle della prima guerra italo-abissina del 1895-96. Alcuni storici libici e lo stesso governo di Gheddafi indicano, dal canto loro, in mezzo milione gli uccisi tra il 1911 e il 1943. Si tratta di due cifre non scientificamente documentate.
Tuttavia, i morti etiopici accertati non sono meno di 350mila e quelli libici superano certamente i 100mila. Nelle repressioni ordinate in Somalia dal quadrumviro fascista Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, tra il 1926 e il 1928, sono stati uccisi almeno 20mila somali. Gli eritrei non hanno subito dure repressioni (se si eccettua quella del 1894 contro il degiac Batha Hagos), ma hanno perso almeno 30mila ascari nelle campagne di conquista libiche, somale ed etiopiche. Tirando le somme, i governi di Crispi, Giolitti e Mussolini sono responsabili della morte di 500mila africani.
L’articolo di Paolo Rumiz sulla “foiba abissina” ha suscitato commenti e proposte di notevole rilievo. Il giurista Antonio Cassese, ad esempio, suggeriva di seguire l’esempio della Germania, che ha reagito al nazismo scavando a fondo nel proprio passato recente, facendolo conoscere alle giovani generazioni, erigendo monumenti e musei alla memoria. Egli proponeva, inoltre, di creare una commissione di storici che esaminasse ciò che è avvenuto in Etiopia (e nelle altre colonie italiane, aggiungiamo noi) e preparasse «una documentazione e un’analisi rigorose».
In seguito alla proposta di Antonio Cassese (apparsa sulla Repubblica del 23 maggio), noi chiedevamo ospitalità allo stesso giornale per avanzare un ulteriore suggerimento: quello di istituire una Giornata della memoria per i 500mila africani che l’Italia crispina, giolittiana e fascista hanno sacrificato nelle loro sciagurate campagne di conquista. Nello stesso giorno (27 maggio) in cui Nello Ajello esponeva la nostra proposta sul giornale romano, scrivevamo una lettera al ministro degli affari esteri, Massimo D’Alema, per metterlo al corrente della nostra iniziativa.
La scelta di D’Alema non era casuale o solo dettata dalla stima che nutriamo per lui. In realtà egli è stato il primo – e unico – capo del governo italiano che, dinanzi al monumento ai martiri di Seiara Sciat, nel corso del suo viaggio a Tripoli del 1° dicembre 1999, ammise in modo esplicito la colpa coloniale. Contiamo sulla sua sensibilità e capacità di leggere la storia, anche quella che si vorrebbe rimuovere a tutti i costi.
Nella lettera a D’Alema, facevamo osservare che gli attuali rapporti con le nostre ex colonie non sono sereni, a cominciare da quelli con Tripoli, turbati dal mancato risarcimento dei danni di guerra. Una ricerca a tutto campo, eseguita con metodi scientifici, sui crimini commessi in Africa, non potrebbe che allontanare dal nostro paese il sospetto che si voglia rimuovere il passato e negarne gli aspetti più deteriori, come sta facendo da tempo il Giappone. Ciò potrebbe anche agevolare la soluzione del problema del contenzioso, che si trascina da anni.
Quanto alla Giornata della memoria per i 500mila africani uccisi, ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simbolico. Noi siamo convinti che potrebbe avere riflessi non effimeri su popolazioni che non soltanto lottano contro la povertà e 1’Aids, ma anche cercano disperatamente anche una propria identità. Se questa Giornata venisse fatta propria dal nostro governo, – scrivevamo nella lettera a Massimo D’Alema – si raggiungerebbe anche l’obiettivo di riconoscere ufficialmente le colpe e gli orrori del nostro passato coloniale nella maniera più esplicita, nobile e definitiva.