Il 19 dicembre 2005 la Commissione Europea ha reso noto di aver avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia per violazione della direttiva 79/409 CE (cosiddetta direttiva “uccelli”) da parte del progetto MoSE. Il 18 ottobre una comunicazione analoga era stata inoltrata in riferimento ad un’altra “grande opera”, il ponte sullo Stretto, per violazioni di quella stessa direttiva e della n° 92/43 (“habitat”), ad essa collegata. Di qui la comprensibile soddisfazione delle associazioni che avevano promosso quei ricorsi (si vedano specialmente i siti del Wwf e della Lipu, con il testo del ricorso sul MoSE) e le reazioni di parte contraria, sulle quali vorrei soffermarmi.
Un chiarimento intanto sulla procedura d’infrazione e la “messa in mora” dell’Italia. Le autorità responsabili, dal ministro Matteoli al Magistrato delle Acque di Venezia, si sono affrettate a sminuirne l’importanza, seguite acriticamente da una parte della stampa. Secondo Mario Pirani (Repubblica, 23 gennaio), per esempio, non si tratterebbe d’altro che “di una lettera di un direttore generale dell’Ambiente”, senza reale valore perché l’ultima parola sarà comunque della Corte di Giustizia e non c’è ancora, quindi, “nessuna condanna” dell’Italia. Le cose però sono un po’ più complicate e un minimo di conoscenza delle leggi sarebbe desiderabile. L’art. 169 del trattato di Roma, che regola la materia, infatti recita:
“La Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente trattato, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni. Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di Giustizia”.
È vero, quindi, che si tratta di una procedura articolata in più stadi, e che, se il contenzioso dovesse prolungarsi, l’ultima parola sarebbe rimessa alla Corte, ma è altrettanto vero che il “parere motivato” di cui parla il trattato non è né un atto politico né il capriccio di un funzionario, ma un provvedimento da prendere assai sul serio, dietro il quale c’è un’attenta istruttoria, e che un’eventuale successiva condanna avrebbe pesanti implicazioni finanziarie, sia dirette (per la penale che l’Italia dovrebbe pagare) che indirette (per la revisione o il blocco tardivo del progetto ormai avviato). L’invito ad una sospensione cautelare dei lavori in attesa di una risoluzione del contenzioso non è perciò una “perdita di tempo”, come scrive Pirani, ma un elementare richiamo ai principî di buon andamento della pubblica amministrazione.
Politici e giornalisti al seguito non hanno mancato di ironizzare, naturalmente, sulla “turbativa che il Mose potrebbe portare alle diverse specie di volatili”, sulla “sensibilità ornitologica” dei funzionari europei, e così via irridendo, definendo “ridicola” l’intera vicenda, e facendo appello da ultimo alla saggezza del senso comune: certo, la tutela dell’ambiente è importante, ma sono necessari “compromessi ragionevoli” fra “i valori della natura e quelli del progresso umano” (!) (sempre Pirani, su “Repubblica” del 30 gennaio). Ma le cose stanno davvero così? A Bruxelles sono proprio impazziti? Ancora una volta sarà utile rifarsi al testo della legge. Va premesso che l’individuazione dei siti d’interesse comunitario prescinde da qualsiasi considerazione di carattere economico (sentenza CGE 11 lug. 96, causa C-44/95) e che gli stati membri s’impegnano, sin dal momento della loro proposta, a garantirne l’integrità. Motivi “imperativi” di rilevante interesse pubblico (ove si tratti di specie o habitat prioritari, soltanto la salute o la sicurezza delle popolazioni) possono bensì esser fatti valere in deroga alla norma, ma all’interno della suddetta “procedura d’incidenza”, alla quale vanno sottoposti tutti i “piani o progetti” che interessano anche non direttamente (ossia dall’esterno) i siti e sono suscettibili di avere “incidenze significative” su di essi (Dir. 92/43, art. 6, c. 3-4), garantendo il contraddittorio e la partecipazione al procedimento. Qualora, in mancanza di alternative praticabili, il progetto debba comunque aver corso, ne deve essere informata la Commissione Europea e devono essere adottate misure compensative – non di semplice mitigazione, si badi, come nella VIA ordinaria – tali da salvaguardare comunque l’integrità del sito (ivi, c. 4). Come si vede, si tratta di una legge nello stesso tempo rigorosa e intelligentemente elastica. L’eventualità di un conflitto fra le esigenze “imperative” del progetto e la tutela di specie a rischio vi è infatti prevista, assieme alle modalità di una sua ordinata composizione (che non è affatto un “compromesso”).
Cos’è successo e cosa succede con le nostre “grandi opere”? Anche a voler ammettere che esse rispondano sempre alle esigenze “imperative” di cui parla la legge (il che è davvero difficile da concedere per il Ponte, la Tav, il Quadrilatero umbro e tanti altri progetti infilati di prepotenza nel listone) e che ad esse non sussistano alternative, nel caso abbiano incidenza sui siti protetti dalla Comunità sarebbe stato comunque necessario attivare l’apposita procedura, informarne la Commissione e proporre concretamente le misure di compensazione (non di “mitigazione”!) a tutela della loro integrità (per esempio acquisendo aree umide di superficie equivalente): senza dimenticare che il costo, spesso non indifferente, di quelle misure va poi messo nel conto, assieme a tutto il resto, della convenienza globale dell’opera. Niente di ciò è accaduto. Nel caso del Ponte di Messina persino l’elenco dei siti era incompleto, mentre con il MoSE è stato fatto valere il sofisma che, essendo la valutazione d’incidenza assorbita all’interno di quella di VIA, ed essendo quest’ultima, ai sensi della famigerata legge obiettivo, rinviata al parere finale del Consiglio dei Ministri, qualora l’esito sia negativo (com’è successo nel 1998), l’obbligo di legge fosse adempiuto. Così, incredibilmente, anche il Tar Venezia (26 lug. 2004, n° 2481): questo tribunale per altro, nel considerare i “benefici derivanti dalla realizzazione delle opere medesime” un argomento valido in sede di valutazione d’incidenza, ha dimostrato di aver completamente frainteso la direttiva. A Bruxelles, invece, sono stati di diverso avviso, e hanno deciso la messa in mora.
È vero quindi, come già rilevato qui su eddyburg nella postilla al secondo articolo di Pirani, che la censura della Commissione non si riferisce soltanto alla mancata valutazione d’incidenza prevista dalla direttiva sugli uccelli, ma all’intera procedura di VIA, la quale in realtà è stata disattesa o contraddetta. Di questi vizi la plateale omissione della valutazione d’incidenza è solo una spia. Altro che “sensibilità ornitologica”!
Da tutto ciò è bene trarre alcuni insegnamenti. Va chiarito anzitutto che quelli censurati non sono vizi formali, ma di sostanza. La trasparenza e il diritto alla partecipazione rappresentano, a partire dalla convenzione di Aahrus del 1998, premesse irrinunciabili di tutti i processi di compatibilità ambientale, e non possono essere richiamati ex post, in corso d’opera (bisogna “spiegare meglio” il progetto alle popolazioni). Ancora: la “perdita di tempo” lamentata di continuo dalle lobbies e dai loro portavoce è solo apparente, al contrario il rigore delle procedure in sede di rilascio delle autorizzazioni è la strada maestra per risparmiare tempo “dopo” ed eliminare alla radice e in modo credibile ogni contenzioso, comprese le lamentate derive localistiche. Un processo di compatibilità ambientale seriamente condotto, infatti, deve contemplare anche la cosiddetta “opzione zero”, e questa è un’altra, ovvia, ragione per cui non può essere posposto nel tempo: esso,
“lungi dal tradursi in un nuovo (e formale) adempimento burocratico della procedura volta alla realizzazione di un’opera pubblica, ben può (anzi deve) incidere sullo stesso momento della approvazione del progetto definitivo, che dalla valutazione ambientale può uscire più o meno profondamente trasformato rispetto alla sua impostazione iniziale, ed è altrettanto chiaro che una valutazione ambientale spostata in avanti nel tempo rispetto all’anzidetto momento, da un lato viene a priori deprivata di tutta la sua positiva capacità di concorso alla determinazione di quelle scelte, già compiute nelle decisive fasi progettuali, che l’abbiano preceduta, dall’altro si rende suscettibile di snaturare le stesse fasi successive” (Cons. Stato, sez. IV, 5 set. 2003, n° 4970).
Infine, il fatto che, per scelta politica, un’opera sia stata definita “prioritaria” non autorizza per nulla ad abbreviare o aggirare le procedure di compatibilità ambientale, le quali invece dovrebbero precedere quella decisione, influenzandola. Né quelle procedure possono essere “attenuate” o abbreviate solo per il fatto che l’opera è, o è stata definita, “importante”. Queste considerazioni – è evidente – rinviano alla radice di tutti i mali, cioè alla mai abbastanza deprecata legge obiettivo (n° 443/01) e al suo decreto attuativo (n° 190/02). Una legge nata, come ha scritto un acuto interprete,
“sulla base di una singolare, quanto criticabile, nozione di interesse pubblico, identificato nella realizzazione dell’opera in sé, come si evince chiaramente dalla relazione governativa al disegno di legge. Sulla base di un siffatto presupposto, qualsiasi ostacolo di carattere giuridico si frapponga rispetto al compimento dell’obiettivo – la realizzazione dell’opera – deve essere superato, anche se esso è rappresentato da una disciplina legislativa a protezione di valori di primaria importanza nell’ordinamento costituzionale, come, ad esempio, il regime dei vincoli a tutela degli interessi urbanistici, ambientali, paesaggistici, storico artistici ecc.” (C. Iannello, “Il Foro Amministrativo. TAR”, II, 2003, pp. 1125-26).
Sarebbe opportuno che quanti si battono contro i mostri nati all’ombra di quella legge, a Venezia, a Messina o in Val di Susa, risalissero alla loro origine comune e ne avessero chiare le insanabili contraddizioni. Operativamente, bisognerebbe poi che quelli che si sono mossi in sede legale, sia a livello nazionale che comunitario, unificassero i loro sforzi, in modo da evitare duplicazioni di interventi e dispersione di energie. Ciò è tanto più vero alla luce del recentissimo pronunciamento negativo del Tar Lazio sulla Tav, che aspettiamo di leggere per esteso. Non possiamo sperare, però, che la giustizia comunitaria si pronunci ultra petitum: soprattutto se il petitum non c’è, è parziale o arriva troppo tardi!
Più in generale, occorre che tutti ci rendiamo conto dell’importanza della normativa comunitaria nella fase travagliata che stiamo attraversando. Sono leggi che per fortuna il governo non può modificare o abrogare. In più, sono sovraordinate alle leggi nazionali, che vanno disapplicate in caso di conflitto. Il legislatore può certo cercare di aggirarle o recepirle malamente, come fa adesso con provvedimenti contraddittori e pasticciati (si pensi a quelli sui rifiuti, oggetto di altra procedura d’infrazione, o alla mostruosa legge-delega ambientale appena approvata da un ramo del parlamento). Ma proprio perciò quella normativa bisogna conoscerla e farla valere immediatamente, con diffide e ricorsi, a tutti i livelli e in tutte le sedi possibili: amministrative, penali e comunitarie.
Grazie davvero, quindi, agli uccelli e alle leggi che li difendono. Ci siamo accorti che difendono anche noi. Ricordiamo che la direttiva del ’79 è stata emanata nella consapevolezza che insieme a quelle specie, comune patrimonio europeo, si proteggevano, con l’intero habitat, le altre specie al di sotto di loro nella catena biologica. E anche, si può aggiungere, quelle che vivono accanto a loro, noi compresi.
È davvero così. Per rifarmi dalle trivialità che sono stato costretto a citare e alleggerire il discorso, voglio concludere con le parole di un classico, piene di verità:
“Si rallegrano sommamente [gli uccelli] delle verzure liete, delle vallette fertili, delle acque pure e lucenti, del paese bello. Nelle quali cose è notabile che quello che pare ameno e leggiadro a noi, quello pare anche a loro. [Degli altri animali] nessuno o pochi fanno quello stesso giudizio che facciamo noi, dell’amenità e della vaghezza dei luoghi. E non è da meravigliarsene: perocché non sono dilettati se non solamente dal naturale” (Leopardi, Elogio degli uccelli, nelle Operette morali).