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Federico Rampini
Cina, operai contro azienda italiana "Picchiati e trattati da schiavi"
5 Novembre 2005
Italiani brava gente
Se gli italiani hanno “la coscienza in regola, per dimostrare la loro correttezza c’è una soluzione”. Da la Repubblica del 4 novembre 2005

PECHINO - La delocalizzazione non esporta solo posti di lavoro. Per la prima volta un’azienda italiana è al centro di una dura battaglia operaia in Cina, accusata di gravi abusi contro i diritti umani. La DeCoro, produttrice di divani con una fabbrica nella zona industriale di Shenzhen, è denunciata per lo sfruttamento e perfino le violenze commesse da manager italiani sui dipendenti locali. Il presidente dell’azienda smentisce tutto e grida al complotto, ma la protesta finisce con grande rilievo sulla stampa indipendente di Hong Kong. Secondo questa versione è dopo un’aggressione contro tre leader operai, finiti all’ospedale lunedì, che tremila dipendenti della DeCoro hanno abbandonato la fabbrica e hanno manifestato bloccando l’autostrada di Pingshan.

Gridavano «fermate la violenza, vogliamo giustizia e protezione dei nostri diritti». È intervenuta la polizia anti-sommossa e li ha dispersi a manganellate. La ribellione, esplosa mercoledì mattina, si è conquistata così l’attenzione del South China Morning Post. Il quotidiano di Hong Kong, che non è sottoposto alla censura del governo cinese, ha una vasta rete di informatori nella regione meridionale del Guangdong dove si trova Shenzhen. È dal Guangdong che negli ultimi mesi filtrano notizie sempre più frequenti di scioperi e lotte operaie. Il boom economico che ha fatto di questa provincia di 83 milioni di abitanti la zona più ricca della Cina, fa esplodere le rivendicazioni salariali e la conflittualità sociale. Quando sono sotto accusa delle imprese occidentali lo scandalo è maggiore: contestate nei propri paesi perché trasferiscono l’occupazione all’estero, queste aziende rivelano in Cina dei comportamenti inaccettabili (oltre che illegali) a casa loro.

Le denunce più clamorose finora hanno colpito grandi multinazionali che appaltano la produzione a fornitori locali senza scrupolo. La Repubblica ha documentato nei mesi scorsi casi di sfruttamento minorile o abusi dei diritti umani in cui sono state accusate aziende cinesi che lavorano «in conto terzi» per Walt Disney, Timberland, Puma. Ora invece per la prima volta è sotto accusa una piccola azienda tutta italiana, coinvolta in modo diretto e non tramite il giro dei subappalti a produttori locali. Il South China Morning Post pubblica la foto di due operai, Chen Zhongcheng e Liang Tian, ricoverati in ospedale con gli occhi tumefatti e alcune fasciature. Liang ha raccontato che i dirigenti italiani lo hanno picchiato, insieme a due compagni, il 31 ottobre. Secondo lui, erano andati a lamentarsi dai capi dopo che l’azienda aveva cercato di tagliare del 20% i loro salari. Di fronte al rifiuto degli operai la DeCoro ne avrebbe già licenziati ottanta a settembre. Il salario medio in quella fabbrica è di 250 dollari al mese. «Mi hanno preso a pugni nello stomaco - ha raccontato Liang - ho perso conoscenza per qualche secondo. Mi hanno calpestato il viso quando ero a terra. Era umiliante». Un altro operaio, Li Fangwei, ha riferito che le violenze sono frequenti: «Picchiano regolarmente gli operai cinesi. Sono come dei lupi. Sono razzisti e ci trattano da schiavi». Secondo un compagno la polizia non li ha difesi: «Dopo il primo episodio di violenza abbiamo fatto denuncia ma la polizia non ha fatto niente. Non ci fidiamo più delle autorità. Vogliamo proteggerci da soli». Interpellato da Repubblica in Italia, ieri sera il presidente della DeCoro, Luca Ricci, ha smentito di aver chiesto tagli salariali del 20%. Ha smentito anche di aver scritto una lettera di scuse ai tre operai ricoverati in ospedale (dettaglio riportato dal South China Morning Post). «Ci sono stati degli italiani che hanno picchiato degli operai cinesi, ma non è vero che questo è avvenuto durante una disputa sulla riduzione dei salari. Gli operai erano stati licenziati per motivi che riguardano il loro comportamento sul luogo di lavoro, poi sono rientrati abusivamente in azienda. Non credo che siano stati gli italiani a picchiare per primi, ma credo che l’abbiano fatto per reazione». Ufficiosamente gli italiani si descrivono come vittime, evocano manovre contro di loro, magari organizzate da concorrenti locali. L’esperienza indica che il governo cinese, pur essendo inflessibile nel reprimere i conflitti sociali, qualche volta si mostra più tollerante se il bersaglio delle proteste operaie è un’impresa straniera. In particolare se i padroni sono giapponesi, taiwanesi, o (più raramente) americani: in quei casi scatta un riflesso nazionalista che legittima perfino gli scioperi, normalmente vietati. Quando sulla stampa di Pechino affiorano notizie di proteste contro salari bassi e sfruttamento, quasi sempre si scopre che dietro c’è una multinazionale, non un’azienda cinese.

Questo non significa però che le rivendicazioni siano inventate dalla stampa, o manovrate dal potere politico. In quelle aziende straniere che pagano salari superiori alla media cinese e che offrono condizioni di lavoro umane (ci sono anche quelle, e ne ho visitate), sarebbe difficile convincere i dipendenti a scioperare o a manifestare. Se i dirigenti della DeCoro hanno la coscienza in regola, per dimostrare la loro correttezza c’è una soluzione. Il presidente Luca Ricci inviti a visitare la fabbrica di Shenzhen le sue rappresentanze sindacali italiane, assistite da interpreti forniti dall’Ufficio internazionale del lavoro, o dalle organizzazioni umanitarie con sede a Hong Kong. Una visita aperta anche ai giornalisti italiani, con ampia facoltà di intervistare gli operai cinesi, sarebbe la prova della buona fede dell’azienda. Nell’attesa, l’unica versione dettagliata dei fatti è quella uscita sull’autorevole e indipendente quotidiano di Hong Kong.

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