Italia S.p.A. si intitola il nuovo libro di Salvatore Settis (Einaudi, pagg. 149, euro 8,80). E´ un´accorata requisitoria sullo stato del nostro patrimonio artistico e sui rischi che corre la stessa identità nazionale se si usura quella parte della sua memoria.
La minaccia deriva da un inquietante paradosso, avverte Settis. Fu l´Italia a imporre nel mondo un modello di conservazione scaturito dalle corti rinascimentali e approdato, fra l´Unità e la seconda guerra mondiale, a una serie di saperi, di norme e di strutture che molti paesi, quando hanno potuto, hanno anche solo parzialmente riprodotto. Quel modello era fondato sul ruolo centrale che lo Stato si riservava nella salvaguardia. Ebbene, tutto l´impianto è ora logoro e si spegne progressivamente. E´ una lenta ritirata, promossa - ecco il paradosso - proprio dentro lo Stato, uno Stato che «confisca se stesso» (in copertina è riprodotto il sanguinolento quadro di Goya in cui Crono divora i suoi figli). Una marcia che il governo di centrodestra ha accelerato partorendo la «Patrimonio S.p.A.», la quale prende in carico tutti i beni pubblici, compresi quelli demaniali e di valenza culturale, li infila in un gigantesco catalogo immobiliare e potrebbe anche venderli.
Settis ha sessantun anni. E´ nato in Calabria, dirige la Scuola Normale di Pisa e per quasi sei anni ha guidato il Getty Research Institute di Los Angeles. E´ storico dell´arte e dell´archeologia. Lo considerano un´autorità indiscussa e da quando ha preso a lanciare i suoi appelli (anche dalle colonne di Repubblica) ha scosso un ambiente rimasto tramortito dalle iniziative del governo Berlusconi. Un po´ come ha fatto Franco Cordero per la giustizia.
Urbani, Tremonti e persino Berlusconi giurano sul loro onore che non venderanno mai il Colosseo...
«Non c´entra niente la loro personale moralità. Ma fino a ieri il nostro patrimonio artistico era per legge rigorosamente inalienabile».
E ora?
«Ora non più. Come fanno a sapere Urbani, Tremonti e Berlusconi che cosa potrebbero decidere fra cinquant´anni i loro successori? La legge che hanno approvato è chiarissima. E poi perché parlano solo del Colosseo? E´ assai poco consolante che per rimettere in sesto il bilancio o per costruire autostrade si cominci col vendere monumenti «minori»».
Ma il ministero per i Beni e le attività culturali deve autorizzare la vendita.
«E cosa cambia? Per cedere un monumento ci vorranno due firme e non solo una. Posso immaginare quale conti di più. Il ministero per i Beni culturali è stato messo ai margini e le sue strutture mortificate da una serie di marchingegni burocratici di rara inefficacia».
Urbani è riuscito a tanto?
«Non solo Urbani, per la verità. La strategia distruttiva inizia quando Gianni De Michelis inventò i "giacimenti culturali". Da patrimonio prezioso in sé e bisognoso di molte cure e molti soldi si passò all´idea che quei beni servissero a far soldi».
Ma De Michelis non era ministro dei Beni culturali.
«Appunto. Era al Lavoro. Ma questo è il sintomo di quale considerazione godesse il ministero per i Beni culturali».
Siamo nel 1986. Poi cosa è successo?
«E´ successo che sulla poltrona di ministro si sono alternate tutte mezze figure. E i Beni culturali sono diventati un residuo. Pensi che il primo concorso dopo il 1991 fu bandito solo nel 1995 e furono assunti undici, dico undici, archeologi in tutta Italia, molti meno di quanti fossero andati in pensione. Lo stesso è accaduto per gli storici dell´arte. Un dissanguamento continuo».
Qualcosa è cambiato con il centrosinistra.
«Walter Veltroni ha alimentato molte speranze. Per la prima volta un vice presidente del Consiglio su quella poltrona. Un leader nazionale. Destinare al nostro patrimonio i soldi del Lotto è stata un´ottima scelta».
Sono stati restaurati musei. Si sono allungati gli orari di apertura.
«E´ vero. Ma la riforma voluta da Veltroni aggiunse ai "beni" le "attività" culturali, lasciando intendere che bisognava rimpolpare il magro carnet de bal del ministero. E anche che le mostre erano più importanti dei musei».
E che le piazze erano più belle se ospitavano i concerti.
«Certamente. Poi si sono aggiunte le competenze sullo sport e lo spettacolo, si sono moltiplicate le direzioni generali, si è spezzettata l´amministrazione. Nel frattempo montava la retorica del privato».
In che senso?
«Nel senso che si è ritenuto che i privati potessero fare più e meglio di un´amministrazione che lentamente si smantellava. Si è cominciato con la legge Ronchey, che però si limitava alle caffetterie e alle librerie nei musei, senza intaccare nulla di essenziale. Ma poi si è andati molto, molto oltre».
Fino a dove?
«Si è allungata la lista dei servizi concessi ai privati: le guide, l´assistenza didattica, l´organizzazione di mostre. Tutte attività che negli altri paesi europei sono affidate all´amministrazione, perché si ritiene che siano strettamente legate alla conoscenza e alla tutela».
Altro?
«Certo. Le fondazioni. La legge Bassanini e alcuni decreti hanno trasformato in fondazioni enti dello Stato, enti di ricerca importanti, consentendo per esempio la privatizzazione dell´Istituto nazionale di Archeologia e Storia dell´Arte di Palazzo Venezia a Roma. Privatizzazione promossa dal centrosinistra e attuata da Urbani. Prima si è lasciato che annaspasse, poi lo si è separato dalla sua biblioteca e proprio mentre in Francia si fondava una struttura analoga - siamo nel 1997, il nostro istituto fu fondato quando ministro era Benedetto Croce - invece di rilanciarlo è finito ai privati».
Mi perdoni. Lei per chi vota?
«Per il centrosinistra. Ma che vuol dire? La sinistra è stata affetta da un deficit culturale, che mi auguro comprenda, dichiarando di voler invertire la rotta. La gente capirebbe. I governi di centrosinistra hanno pensato di fare venti per evitare che la destra facesse cento. Senza rendersi conto che la destra sta facendo cento trovandosi il venti già fatto. Ma guardi che anche a destra ci sono molte personalità che contrastano questa svendita dello Stato».
Un´altra suggestione maniacale sembra il fascino suscitato dai musei americani. Lei li conosce. Sono un esempio?
«No. Qui scontiamo una forma di genuflessione culturale. In America andiamo a pescare modelli astratti, l´università, per esempio, scartando uno dei tratti più positivi di quella società, che è la capacità di autocritica. Noi pensiamo che l´ideologia del mercato presupponga uno Stato leggerissimo: niente di più falso negli Stati Uniti».
Restiamo ai musei.
«I musei americani funzionano benissimo. Ma non hanno alcun nesso storico o culturale con il territorio che li ospita. Se un museo di Los Angeles vende un quadro di Tiziano non toglie nulla alla storia della California. Se le Gallerie dell´Accademia di Venezia cedessero un Carpaccio mutilerebbero la storia della città e di tutta l´Italia. Il nostro patrimonio culturale è storicamente un insieme il cui collante non saprei definire meglio che "tradizione nazionale", "identità nazionale". Questo è il modello italiano formato nei secoli. E per questo lo Stato ha conservato un ruolo cruciale di tutela, sia che il patrimonio sia pubblico, sia che il patrimonio sia privato».
Ma i musei americani, si dice, potrebbero essere esempio di buona conduzione. O no?
«Anche qui: ma si sa di cosa si parla? Il Metropolitan o il Getty sarebbero in passivo se potessero contare solo sui biglietti (al Getty, oltretutto, si entra gratis) o sui ristoranti o sui gadget. Le spese del Getty vengono ripianate dal patrimonio di cui è dotato il museo e che viene oculatamente investito producendo profitti. Al Metropolitan pensano il Comune di New York e le donazioni private. Gli Uffizi o Capodimonte hanno questi fondi? Dove stanno i privati disposti a questi esborsi? E poi, scusi, perché mai dovrebbe valere per l´Italia il modello americano se i direttori del Getty, del Metropolitan e di altri musei hanno firmato un appello contro le ipotesi di privatizzazioni previste l´anno scorso dal governo Berlusconi?»
Secondo lei è stato un bene aver distinto, perfino nella riforma di un articolo della Costituzione, la tutela del patrimonio attribuita allo Stato e la gestione del patrimonio alle Regioni?
«E´ un pasticcio che produce effetti destabilizzanti. Tutela e gestione sono due momenti connessi di un unico processo: la ricerca e la conoscenza del bene da tutelare e da gestire. Per misteriose ragioni qui non ha funzionato il modello americano, dove chi tutela gestisce. Prenda il deposito di un museo: chi decide quale anfora tirare su dal magazzino per esporla? Chi tutela o chi gestisce?»
Questo sistema apre ulteriori varchi ai privati?
«Questo non lo so. So però chi se ne avvantaggia».
Chi?
«Gli avvocati, perché fioccheranno mille contenziosi, con il risultato di paralizzare tutto. Qualche giorno fa il Consiglio di Stato ha bocciato Urbani: vedrà, andremo avanti così».
Avanti così con «i talibani a Roma», come ha intitolato il suo primo capitolo?
«Per la verità quel titolo l´ha coniato la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ed è appropriato. Mai come ora il nostro patrimonio è minacciato. Mai, neanche quando Napoleone spogliò molti musei italiani. Io credo che capiremo presto da questo governo se lo Stato, come Crono, continuerà a divorare i propri figli o se, come ancora mi auguro, capirà che così facendo ucciderà se stesso».