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Silvio Testa
Anche il Mose ha un peccato originale
20 Agosto 2005
MoSE
Finalmente i giornali danno spazio alle soluzioni alternative per la Laguna di Venezia elaborate negli ultimi anni. Un articolo de il Gazzettino del 1 febbraio 2005 illustra le critiche degli ingegneri Di Tella, Sebastiani e Velmo e ne illustra le proposte

Anche il Mose ha un peccato originale. Una scelta progettuale che a cascata ha imposto enormi appesantimenti e irrigidimenti dell'intera struttura, facendo lievitare a dismisura costi e tempi di realizzazione e costringendo a complicare, e dunque a rendere meno affidabile, l'architettura dell'intera macchina che dovrebbe difendere Venezia dalle acque alte eccezionali.

«Il risultato sarà un impatto devastante per l'ambiente lagunare», ha denunciato ieri l'ing. Vincenzo Di Tella, che a 4 anni dall'ideazione ha potuto illustrare alla commissione Legge speciale del Comune il suo progetto alternativo, sviluppato allo stadio di preliminare in collaborazione con gli ingegneri Paolo Vielmo e Gaetano Sebastiani: una sorta di Mose riveduto e corretto, che Di Tella ha brevettato.

«Il Mose è nato 30 anni fa e non tiene assolutamente conto dell'evoluzione dell'ingegneria off shore», ha sostenuto Vielmo, ricordando di essere stato incaricato dalla Fiat Impregilo, quand'essa faceva ancora parte della compagine societaria del Consorzio Venezia Nuova, dell'analisi critica del progetto. «Ma tutti i suggerimenti per la sua ottimizzazione - ha ricordato - più che un muro di gomma hanno trovato un muro di cemento armato».

Peccato che le opposizioni abbiano disertato in massa l'audizione: Di Tella, Sebastiani e Vielmo, infatti, non sono scatenati ambientalisti, né tre persone qualunque, ma probabilmente i tre massimi esperti italiani in progettazioni off shore, una vita professionale spesa nella Tecnomare a realizzare piattaforme oceaniche e le più diverse tecnologie marine in giro per il mondo, sopra e sotto l'acqua.

«Il Mose emerge contro corrente», ha spiegato Di Tella, evidenziando come la risultante tra la spinta netta di galleggiamento sulle paratoie, che si innalzano svuotandosi con pompe di aria compressa dei quasi 2 mila metri cubi d'acqua che le tengono a riposo sul fondo, e la spinta del battente di marea si traduca in una inversione dei carichi sui giunti che fissano i portelloni ai loro alloggiamenti. «La paratoia - ha insomma tradotto Di Tella - tende a strappare le sue cerniere, e sono pronto a discuterlo a tutti i livelli».

C'è, insomma, la possibilità di ribaltamento delle paratoie, e ciò ha imposto al progettista, Alberto Scotti, di prevedere delle strutture a collasso determinato che possano rompersi prima che cedano le paratoie, allagando tutto il tunnel di servizio e mettendo in crisi l'intero sistema. «Se Scotti ci facesse avere un suo curriculum - ha polemizzato Di Tella - dimostrandoci quante strutture off shore ha progettato in vita sua, forse capiremmo qualcosa di più».

Secondo Di Tella, il peso delle paratoie, sovradimensionate per evitare problemi di risonanza con le onde del mare, la necessità di enormi e non sperimentati connettori meccanici, il fatto che la loro gestione richieda un continuo e controllato pompaggio d'aria, hanno imposto il tunnel, 12 mila pali in cemento per le fondazioni per evitare cedimenti, ciclopiche spalle di sostegno, l'isola davanti al Bacàn, una centrale elettrica da 10 mila megawatt, i cantieri di costruzione a Malamocco, la conca di navigazione, il dragaggio di milioni di metri cubi di fondali, la demolizione delle dighe foranee. «Tutto - ha sottolineato Di Tella - tranne che graduale, sperimentale, reversibile come richiesto dalla legge».

Nel progetto Di Tella, invece, le paratoie a gravità si innalzano con la marea, restando zavorrate tranne una piccola camera di manovra che, svuotata di appena 50 tonnellate d'acqua con banali compressori, mette il sistema in movimento. «È il livello dell'acqua che fa salire le paratoie - ha spiegato il progettista -, il sistema è intrinsecamente stabile, non serve alcun controllo perché non dobbiamo lottare con la corrente, anche nel peggior dislivello di marea non c'è inversione di carico sulle cerniere». Dunque, tutto più leggero, più agile, adattabile ai fondali esistenti, realizzabile in un normale cantiere navale con tecnologie sperimentate e affidabili, installabile a pezzi.

A materiali e costi unitari analoghi, il Mose2 richiederebbe 2 anni di lavori contro 8 del Mose e costerebbe 1382 milioni di euro contro 2296 (2070 ha precisato Di Tella contro 3440 se venissero applicati i «mai visti» corrispettivi e gli oneri aggiuntivi del 50 per cento calcolati dal Consorzio), ma in acciaio e a gara d'appalto costerebbe 402,5 milioni di euro contro i 753,6 dei lavori in concessione unitaria al Consorzio. «Il Comune chiederà un confronto pubblico tra i due progetti nelle massime sedi», ha concluso la Commissione, ed è curioso che il Magistrato alle Acque, a cui Di Tella ha chiesto a luglio e a dicembre del 2003 di presentare il suo progetto, non abbia mai neppure risposto.

Critiche anche al Terminal petrolifero

(S.T.) All'ing. Alberto Scotti, progettista del Mose, ieri devono essere fischiate le orecchie. Gli ingegneri Vincenzo Di Tella e Paolo Vielmo, infatti, non hanno solo attaccato la sua creatura (vedi servizio qui sopra ), ma hanno anche pesantemente criticato con una nota il suo progetto per la realizzazione di un terminal petrolifero in mare. «Un progetto - hanno scritto - che si basa su soluzioni inusuali rispetto a tecnologie sperimentate e consolidate senza motivarne la scelta, carente per quanto riguarda le procedure operative per la gestione del terminale e la realizzazione delle condotte sia nella parte in laguna che in mare».

I due tecnici ex Tecnomare hanno sostenuto che non sono state esaminate soluzioni flessibili negli obiettivi, nei tempi di realizzazione e nei costi, e che dai dati meteo e dalle elaborazioni presentate si evince una discutibile determinazione delle condizioni estreme di progetto per le opere civili. «Il progetto - hanno sottolineato - esamina solo condizioni estreme per le opere civili, e non prende in considerazione le condizioni ambientali limite per le manovre di entrata nel porto e accosto agli attracchi».

La soluzione progettuale, hanno poi aggiunto Di Tella e Vielmo, non è mai messa in discussione e data come la migliore possibile. «Una soluzione del tutto inusuale di un megaporto off shore - hanno sostenuto -, e condotte in un tunnel a pressione atmosferica, con i costi di investimento così elevati e senza un'analisi dei rischi e una stima dei costi di gestione, richiede per legge un confronto tecnico/economico con soluzioni classiche di ormeggio a punto singolo, per il terminale off shore, e di condotte sottomarine interrate o protette in ambiente bagnato ("Wet") anche per la parte lagunare».

I due ingegneri hanno illustrato brevemente le più classiche soluzioni alternative suggerendo, per il terminal, di chiedere referenze alle tre ditte più conosciute al mondo, la Sbm di Monaco, la Bluewater olandese, la Sofec americana, e per le condotte ai leader mondiali che sono invece le italiane Saipem e Snamprogetti.

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