DAVANTI al rovinoso crollo di una delle più famose passeggiate d’Italia, la “via dell’amore” alle Cinque Terre, vedremo dispiegarsi il consueto rituale, identico a quanto accadde più o meno un anno fa a Vernazza. Ministri e assessori deplorano le impensate fatalità, accusano la sfortuna, il caso, la siccità, un acquazzone, le alluvioni, frane a sorpresa, divinità ostili.E naturalmente pronunciano le più solenni promesse.
«Presto un piano contro il dissesto idrogeologico», proclama pensoso il ministro dell’Ambiente Clini. Evidentemente, essendo stato Direttore Generale di quel Ministero per soli dieci anni prima di diventare ministro, non ha avuto il tempo di pensarci prima. Questa ed altre sceneggiate somigliano (come due gocce d’acqua) a quel che accade quando crolla a Roma la Domus Aurea o il Colosseo, quando si sfarinano le case di Pompei, quando si scopre che ville e musei, parchi e chiese, sopravvivono per pura forza d’inerzia. Anche qui, grandi deprecazioni del ministro di turno, dichiarazioni solenni, promesse immarcescibili. Poi nulla. Fino alla prossima frana, al prossimo crollo, alla prossima “disgrazia” di cui incolpare la sorte maligna.
E allora proviamo a ricordarcelo, che cos’è questa Italia. È il Paese più franoso d’Europa (mezzo milione di frane in movimento censite nel 2007), il più soggetto al danno idrogeologico e all’erosione delle coste, anche per «interventi sull’ambiente invasivi e irreversibili» sui due terzi del territorio (dati Ispra). Per non dire del rischio sismico: negli ultimi cento anni, circa 150 terremoti di cui una quarantina gravissimi, 1600 Comuni colpiti, almeno 250.000 morti. Eppure a ogni terremoto ci sbalordiamo come davanti a un evento imprevisto.
Non sappiamo costruire, in questo Paese, una cultura della prevenzione, e le buone pratiche che ne conseguono. Dopo ciascuno di questa «serie di sfortunati eventi », ci ritroviamo a leccarci le ferite, specialmente quando ci siano di mezzo vite umane (anche nel crollo di ieri ci sono quattro feriti, di cui due gravi). Siamo bravissimi a dimostrare solidarietà, mobilitare protezione civile e volontari, raccogliere fondi via sms. Siamo veloci a fare i conti degli enormi danni, non solo in vite umane, ma in guasti all’ambiente, alle attività economiche, al patrimonio pubblico e privato, all’immagine dell’Italia (i feriti di Riomaggiore sono australiani), al paesaggio.
Una cosa sola non sappiamo fare: prevenire i disastri mediante la manutenzione del territorio. Ricordiamo un precedente significativo: nell’ottobre 2009, quando la frana di Giampilieri (presso Messina), uccise almeno 37 persone, la posizione di quel governo fu espressa icasticamente dalla sequenza di due dichiarazioni, a pochi giorni di distanza dalla frana: il sottosegretario Bertolaso dichiarò che era impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti); il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo (Clini era il suo direttore generale) dichiarò subito che il Ponte sullo Stretto andava fatto, e subito. Riassumendo: due miliardi per mettere in sicurezza il territorio non si trovano; dieci o venti miliardi per costruire un Ponte il cui costo esatto nessuno è in grado di indicare,
sì.
Fra il governo Berlusconi e il governo Monti c’è, da questo punto di vista, perfetta continuità. Sul fronte dell’ambiente, la promozione di Clini da direttore generale a ministro ha un solo significato possibile: gattopardescamente, «bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’è». Si continuano a promuovere “grandi opere”, come l’inutile (se non dannosa) Tav in Val di Susa e sotto Firenze; si propugna l’idea di assediare le nostre coste con una cintura di piattaforme petrolifere. Si proclama, per ora senza molto credito, che si troveranno per queste imprese ottanta, novanta, cento miliardi. A quel che pare non viene in mente a nessuno che la vera prima “grande opera” di cui l’Italia ha bisogno è la messa in sicurezza dell’intero territorio, consegnato da decenni alla speculazione e cementificazione selvaggia. Mettere in sicurezza il territorio non vuol dire solo arginare le frane e prevenire i sismi. Vuol dire prima di tutto promuovere l’agricoltura, anziché mortificarla come costantemente si fa, e controllare il rapporto fra suoli edificati e suoli coperti da vegetazione. Dovrebbe voler dire, per questo governo, approvare con procedura d’urgenza l’ottimo disegno di legge del ministro Catania sui suoli agricoli, anziché immetterlo in una corsia lentissima, in modo che si arrivi alla fine della legislatura senza averlo approvato.
Stracciarsi le vesti non serve, e specialmente poco credibile è chi se le straccia, a ogni disgrazia, da più di dieci anni. Strutturare la prevenzione è (dovrebbe essere) il primo passo per gestire l’emergenza, e per ridurre il numero delle emergenze. Come scrisse molti anni fa Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, «ci vorrebbe assai poco, una volta saputo che quasi metà della nazione è esposta a gravi rischi, proiettare su questa scala le perdite subite a ogni evento [anche alle Cinque Terre], e calcolare il corrispettivo danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse, come purtroppo certamente persisterà, l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica». O questa raccomandazione di un grandissimo tecnico è troppo complicata da capire per il nostro “governo tecnico”?