INVANO abbiamo atteso che il presidente Monti o il ministro Passera convocassero nella giornata di ieri i responsabili della Fiat, in seguito alla disdetta unilaterale del piano di investimenti Fabbrica Italia.
Sono intervenuti Diego Della Valle e Cesare Romiti per censurare l’addio annunciato di Marchionne, ma il governo no: forse aspetta, per darsi una mossa, che anche la disperazione degli operai di Mirafiori, Melfi, Cassino, Pomigliano degeneri nelle forme estreme ormai tristemente consuete? Non sono bastate le lezioni dell’Ilva e dell’Alcoa? Capisco che sia difficile per la classe politica riconoscere di essere stata presa in giro dalla multinazionale che nella primavera 2010, già in piena crisi di sovrapproduzione, vaneggiava di un raddoppio delle automobili da fabbricare in Italia, con investimenti (mai pianificati) per la stratosferica cifra di 20 miliardi. Una promessa, mai formulata per iscritto, in cambio della quale Marchionne ha preteso e ottenuto la deroga contrattuale dalle normative vigenti; imponendo sacrifici ai lavoratori dopo aver estromesso dagli stabilimenti il sindacato più rappresentativo.
Se il precedente governo di destra assecondava per convenienza politica la prova di forza della Fiat, e gli stessi dirigenti del Partito Democratico hanno rivelato sudditanza psicologica nei confronti della presunta “modernità” di Marchionne, l’attuale premier e i suoi ministri tecnici appaiono invece prigionieri di una sorta di integralismo accademico: le aziende devono essere lasciate libere di seguire il loro mercato; investano dove meglio credono; e il governo resti un passo indietro.
Bel risultato. La rinuncia a pretendere una politica industriale concordata si è sposata così all’applicazione ideologica della dottrina secondo cui i posti di lavoro si salvano concedendo maggiore flessibilità all’azienda. È falsa l’equazione “meno diritti uguale più lavoro”, come la storia si è già incaricata di dimostrare, non solo in Italia. Ma proprio lo stesso giorno in cui la Fiat preannunciava la cancellazione degli investimenti promessi, Monti ribadiva questa sua antica certezza: indicando lo Statuto dei Lavoratori, peraltro già modificato per facilitare i licenziamenti, come ostacolo alla crescita dell’occupazione.
Quali interessi tutela il governo: l’economia nazionale o il piano della multinazionale? Cosa ha fatto per armonizzarli o quanto meno per condizionarli? Si è forse udita la voce del sindaco di Torino e del suo predecessore Chiamparino divenuto nel frattempo presidente di una grande fondazione bancaria legata al territorio? Renzi, candidato alle primarie, correggerà il suo appoggio incondizionato a Marchionne? E Bersani saprà offrire risposte credibili all’ansia delle famiglie e delle comunità minacciate nel loro futuro? Qui non si tratta di negare la realtà del drastico calo delle vendite di automobili in Europa; semmai il vertice Fiat dovrebbe spiegare perché nel trend negativo continua a fare peggio dei concorrenti. La sua espansione mondiale in mercati dinamici come gli Usa e il Brasile, grazie a cui gode di un florido bilancio per la gioia degli azionisti, è un fattore positivo imprescindibile che giocoforza modifica la strategia aziendale. Ammettiamo pure che l’amministratore delegato della multinazionale debba privilegiarne gli interessi globali, anche a discapito
della nazione da cui la Fiat ha estratto la sua linfa vitale: se la Fiat fosse rimasta italiana, probabilmente sarebbe morta.
Ma quel che vale per il manager necessariamente “apolide” non vale per il nucleo di controllo dei suoi azionisti. La famiglia Agnelli-Elkann che oggi beneficia di una invidiabile patrimonializzazione miliardaria grazie all’innesto americano, non può d’un colpo prescindere dal suo legame storico con la realtà italiana.
Faceva effetto trovare nei giorni scorsi sulla copertina di
Panorama ilvolto sorridente del presidente della Fiat, John Elkann, che annunciava un’iniziativa filantropica a favore di 200 (duecento) studenti meritevoli di Torino, cui sarà fornito un prestito d’onore per la somma totale di 2 (due) milioni di euro. Spiacevole coincidenza, mi auguro involontaria, questa mancetta; a fronte della disdetta del piano d’investimenti che si tradurrà, ormai pare inevitabile, nella distruzione di un patrimonio tecnologico e occupazionale d’inestimabile valore.
Nel capitalismo anglosassone spesso evocato come esempio da seguire, gli azionisti beneficiati da grandi profitti adoperano la parola “restituzione” per indicare le modalità attraverso cui intendono onorare il debito morale contratto con la società in cui si sono arricchiti. Avvertono uno stimolo del genere gli azionisti Fiat nei confronti dell’Italia, di cui sono stati per oltre un secolo classe dirigente? E il governo che pare come ammutolito di fronte alla disperazione sociale, Passera che da banchiere contribuì a salvare la Fiat e ora traccheggia al cospetto della realtà del lavoro penalizzato, vorrà finalmente cimentarsi nell’apprendistato della politica? Chi inchioderà la Fiat alle sue responsabilità storiche, scoprendo che un governo dispone di leve efficaci se vuole farsi dare retta dai capitalisti?
La fuga della Fiat ferisce non solo le famiglie dei suoi dipendenti ma l’intera comunità nazionale; rivelandosi questione politica per eccellenza, se solo la si volesse affrontare.