Così tramonta un simbolo dell’industria italiana
Luciano Gallino
L’acciaio è un materiale composto soprattutto di ferro, nonché di carbonio in misura inferiore al 2 per cento, più una dozzina di altri elementi presenti in una misura che varia da una frazione millesimale (il molibdeno) a oltre il 10 per cento (il cromo). Ha molte caratteristiche positive. Se si varia il tenore dell’uno o dell’altro elemento, si ottengono migliaia di tipi di acciaio dalle prestazioni diversissime quanto a elasticità, capacità di sopportare carichi oppure urti, resistenza alla corrosione, modalità di lavorazione. Grazie alla sua natura proteiforme, l’acciaio è presente ovunque, dalle mollette dei cellulari alle arcate dei viadotti ferroviari e stradali, dalle carrozzerie di auto ed elettrodomestici allo scafo delle navi, dagli strumenti chirurgici alle ruote dei treni. Possiede inoltre la virtù di essere riciclabile senza fine. Presenta però anche, l’acciaio, una caratteristica negativa: la sua produzione è altamente inquinante. Gli impianti siderurgici sono capaci di diffondere sia al proprio interno sia per chilometri quadrati attorno a sé grandi quantità di polveri a grana grossa oppure sottili, più ogni sorta di fumi visibili e di veleni invisibili, dal benzopirene alla diossina. Il maggior problema per l’abbattimento del grado di inquinamento deriva dal fatto che in pratica ciascuno dei tanti pezzi di un impianto contribuisce per conto suo all’inquinamento. In misura variabile diffondono polveri, fumi e veleni le cokerie quanto gli altiforni, la laminazione a caldo quanto quella a freddo, le fornaci elettriche quanto i convertitori.
Al fine di ridurre l’inquinamento sono state seguite nel mondo tre strade. La prima consiste nello sviluppare tecnologie specifiche per abbattere l’inquinamento nel punto preciso dell’impianto in cui si genera. È una strada piuttosto costosa. Un’altra strada è consistita nel costruire impianti più piccoli, le cosiddette mini-acciaierie, che di per sé inquinano meno e costano meno in tema di prevenzione. Esse presentano tuttavia il difetto di non poter produrre molti tipi di acciaio che invece riescono bene nei grandi impianti integrati. Ampiamente
praticata è poi la terza strada, in specie nei paesi emergenti, ma non soltanto in essi. In questo caso la proprietà, spesso con l’assenso del governo nazionale o locale, trasmette per vie dirette o indirette un messaggio: se volete posti di lavoro e reddito, dovete sopportare senza fare storie quel po’ di inquinamento che il nostro impianto genera.
A fronte di queste premesse, dal caso dell’acciaieria di Taranto si possono trarre varie lezioni. Una è locale. Che lo stabilimento sorto a ridosso della città fosse molto inquinante lo si sapeva da quarant’anni, cioè dal momento in cui la Italsider che lo aveva creato ne realizzò il raddoppio. Sarà vero che i successivi proprietari – l’Ilva che fa capo al gruppo Riva – hanno effettuato investimenti notevoli al fine di ridurre l’inquinamento, ma pare evidente che essi non sono bastati.
L’elenco dei tipi di inquinanti e delle loro quantità diffusi negli ultimi anni dall’impianto in questione, messo insieme da varie fonti dalla magistratura di Taranto, è agghiacciante. Ci si dovrebbe
spiegare come mai la Regione, il ministero dell’Industria ovvero dello Sviluppo, i governi che si sono succeduti nello stesso periodo non abbiano saputo intervenire con mezzi efficaci per rimuovere la cappa di veleni che grava sulla città.
La seconda questione è nazionale. Nel 2011 l’Italia ha prodotto 29 milioni di tonnellate d’acciaio. Assai meno della Germania, ma quasi il doppio di quante non ne abbiano prodotte, a testa, Francia e Spagna, e tre volte la produzione del Regno Unito. Più o meno la metà dell’acciaio italiano proviene da Taranto. Si tratta in pratica di una delle ultime produzioni industriali su larga scala che esistano in Italia. Non si può fermarla in gran parte per un periodo indefinito, al fine di consentire alla proprietà di procedere da sola, se e quando ne avrà voglia, per introdurre le tecnologie necessarie ad abbattere sul serio l’inquinamento. Occorre procedere al più presto, d’intesa con la proprietà, a interventi radicali attuati con il massimo e il meglio dei mezzi che si possono mobilitare sul piano interno e internazionale. Senza farsi illusioni. L’impianto di Taranto, che ha il pregio ma anche il difetto di essere il più grande d’Europa, non può materialmente venire convertito in una mezza dozzina di mini-acciaierie. Né si può pensare di fargli produrre in breve acciai di varia e superiore qualità, perché ogni tipo di acciaio richiede macchinari ad hoc, che comporterebbero grossi investimenti addizionali oltre a quelli anti-inquinamento.
Infine c’è la questione globale. Molti settori dell’industria, del commercio e della finanza si sono sviluppati per decenni, creando al proprio interno posti di lavoro ma infliggendo anche a gran numero di persone elevatissimi costi esterni in termini di rischio, inquinamento, distruzione dell’ambiente, condizioni di vita. Taranto è stato tristemente esemplare da questo punto di vista. È arrivato il momento di porre fine a tale scambio perverso. Per diverse vie, con diversi mezzi, i costi esterni dello sviluppo, le cosiddette esternalità, dovrebbero essere drasticamente ridotti o riportati all’interno delle imprese che li generano.
Due diritti da difendere
Stefano Rodotà
È possibile che entrino duramente in conflitto la salute, diritto fondamentale della persona (art. 32 della Costituzione), e il lavoro, fondamento della Repubblica (art. 1)? Sì, è possibile. E non è la prima volta che, nelle piazze italiane, si pronunciano le terribili parole “meglio morti di cancro che morti di fame”. Quando si è obbligati ad associare il lavoro con la morte, si tratti di produzioni nocive o di infortuni, davvero siamo di fronte a inammissibili violazioni dell’umanità delle persone. Il lavoro si trasforma in condanna quotidiana, che non arriva però da una maledizione biblica, ma dal modo in cui è concretamente organizzato il mondo della produzione.
Da dove cominciare per cercare di comprendere queste vicende? Ancora una volta ci aiuta la Costituzione con il suo articolo 41. Qui si dice che l’iniziativa economica privata, dunque l’attività d’impresa, «non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana». Vale la pena di sottolineare la lungimiranza dei costituenti, che posero la sicurezza prima ancora di libertà e dignità. E la sicurezza riguarda il lavoro, ma è pure sicurezza per i cittadini nell’ambiente e per i prodotti che consumano. Quelle parole nella Costituzione piacciono sempre di meno e si cerca di cancellarle,
in nome della legge “naturale” del mercato. In un decreto recente, salvato acrobaticamente dalla Corte Costituzionale, si è messo abusivamente al primo posto il principio di concorrenza, nel tentativo di ridimensionare la portata complessiva di quell’articolo. Lungo è il catalogo dei fatti di cronaca che rendono evidente la mortificazione del lavoro attraverso il sacrificio della salute del lavoratore. Taranto è il nome di un luogo che si aggiunge a Marghera, Casale Monferrato, Val di Chiana, per citare solo i casi più noti. Quando l’attività d’impresa viene organizzata prescindendo dal fatto che la sicurezza dei lavoratori è un obbligo giuridico e un dovere collettivo, sono sempre devastanti le conseguenze umane e sociali.
La soluzione non poteva venire dalla tecnica molte volte usata di monetizzazione del rischio – denaro in cambio di salute. Bruno Trentin sottolineava la necessità di andare oltre l’ottica puramente retributiva e di tutelare nella sua integralità la persona del lavoratore. Né può venire dalla pretesa di un silenzio della magistratura di fronte a violazioni gravi e ripetute di un diritto fondamentale e di specifiche norme di legge.
Sempre più spesso i lavoratori sono vittime di ricatti. Occupazione a qualsiasi prezzo, anche della vita. Occupazione con sacrificio della libertà, come è accaduto con il referendum di Mirafiori sovrastato dalla minaccia della chiusura della Fiat. Questa è la spirale da spezzare. Soluzioni provvisorie possono essere ricercate, ma ad una sola condizione: la restaurazione integrale dei diritti dei lavoratori, che diventa anche la via per tutelare i diritti di tutti, come quello all’ambiente.
Sono tempi duri per i diritti fondamentali, per quelli sociali in specie. In nome dell’emergenza, siamo ormai di fronte a vere e proprie sospensioni di garanzie costituzionali. Si è dimenticato che l’articolo 36 della Costituzione prevede che la retribuzione debba garantire al lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa». Non essere il prezzo della perdita d’ogni diritto.