Uno dei compiti più urgenti di cui i pochi che si preoccupano della possibile, necessaria, indispensabile rinascita di una sinistra decente – una sinistra il cui sfacelo è in questi giorni di primarie del tutto evidente, né i nuovi dirigenti sembrano rendersene adeguatamente conto anche perché tanti di loro a questo sfacelo hanno abbondantemente contribuito e non sembra abbiano nessuna intenzione, da Torino a Napoli, di tirarsi da parte – sarebbe quello di ridar dignità a chi si occupa della cosa pubblica non solo da politico e da amministratore (ceti e professioni di cui non ci si fida più) ma da cittadino, nell’antico significato che dava alla parola citoyen la Rivoluzione francese. Da cittadino che insieme ad altri cittadini costituisce gruppi, fonda cooperative, dà vita a iniziative di protesta e di proposta, e afferma o nega a seconda del caso.
La dizione “società civile” è molto bella, ma si giustifica oggi soltanto se chi se ne fa carico impara ad annoverare tra le forme del suo intervento quello della “disobbedienza civile”. Sono convinto che l’eccessiva remissività della società civile nei confronti della politica, e in sostanza la delega ai politici delle proprie battaglie, sia una delle maggiori cause, se non la maggiore, del declino del nostro paese, e che essa sia stata favorita dai politici, che hanno continuato a sottomettere corrompere castrare per ragioni di mera rivalità tutto ciò che si muove al di fuori del loro controllo. E penso soprattutto alla tradizione politica del Pci e dei suoi eredi. Non è il caso però di dimenticare le responsabilità che le organizzazioni della società civile hanno avuto nel loro stesso declino, a volte per timidezza, più spesso per opportunismo.
Come sempre succede – e proprio per questo ogni nuova organizzazione o associazione dovrebbe tenerlo nel debito conto – alla fase “eroica” iniziale subentra nella storia di ogni iniziativa importante la fase del consolidamento e della burocratizzazione. Del compromesso. Tra le associazioni di società civile di più lunga storia, si è parlato spesso in questi giorni di Italia nostra, che venne fondata per “proteggere i beni culturali e ambientali” del nostro paese nel lontano 1955 da alcuni italiani di valore tra i quali Umberto Zanotti Bianco (un grande personaggio nella storia del volontariato e non solo, dirigente per tanti anni della Associazione per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia oggi un po’ fiacca), Trompeo, Bassani, Elena Croce eccetera, e che ha avuto in Antonio Cederna la sua colonna e, credo, il più attivo e migliore dei suoi rappresentanti. Si devono all’associazione Italia nostra, con sedi in molte città italiane, tanti risultati importanti, per esempio la legge 394 sulle aree naturali, la difesa delle coste, il parco del Delta del Po, quello dell’Appia antica a Roma eccetera, tante battaglie talora vinte e talora perse e più spesso vinte (o perse) a metà o per più della metà...
Ma pian piano, e poi velocemente con la morte di Cederna, anche Italia nostra ha finito per perdere la sua fisionomia e la sua autonomia, come ha dimostrato di recente uno scandalo milanese (la pubblicazione con il nome di Cederna di testi manipolati da una dirigenza, diciamo così, filo-palazzinara, le dimissioni di un probo e acuto urbanista come Vezio De Lucia e di tanti altri, le esplicite divisioni interne che sembrano preludere a qualche scissione e alla nascita di nuove organizzazioni).
In passato, Italia nostra è stata accusata a torto da certa sinistra di essere troppo borghese e un tantino snob, e in questo c’era qualcosa di vero, ma quella sinistra, tutta proiettata sulle tematiche dello sviluppo, aveva anche il torto di una grande insensibilità “ecologica”, di considerare con molta sufficienza le lotte per la difesa dell’ambiente e del patrimonio artistico. Che si sono invece rivelate centrali, fondamentali. Chiedersi se Italia nostra supererà la crisi che sta attraversando, è chiedersi se sarà in grado l’Italia di superare la crisi che sta attraversando, ma questo dipende anche dai singoli, da ciascuno di noi. In un saggio recente e importante, Salvatore Settis ricostruisce e analizza il disastro ambientale legandolo strettamente al degrado civile (Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi), e si chiede come si sia potuto arrivare a tanto, e come si dovrebbe cercare di rimediare alla luce dei dettami della Costituzione.
Dipende da noi, egli dice, da ciascun cittadino. Si spera che all’interno di Italia nostra vincano i “nostri” e non i politici, e tantomeno i distruttori dell’ambiente e della bellezza stessa del paese, con tutti i loro complici; si spera che Italia nostra possa diventare un punto di riferimento attivo per gli indignati e gli esasperati, ma insistendo sull’attivo, sulla concretezza delle buone proposte, e anche delle risposte al malaffare alla corruzione alla distruzione; si spera che possa riorganizzarsi, e organizzare risposte adeguate alla vastità e profondità del disastro ambientale che questi ultimi trent’anni hanno enormemente accresciuto, facendo berlusconianamente del Bel Paese un paese isterico e imbecille, e sempre più brutto.