Le lotte studentesche esplose in Europa negli ultimi mesi, legate ad occasioni contingenti – come le proteste contro l'aumento delle rette nel Regno Unito o quelle contro il ddl Gelmini in Italia – meritano una riflessione di portata più generale. Un rapido sguardo storico ci mette innanzi tutto sull'avviso di un fenomeno di ampia portata: la crescita costante della popolazione studentesca universitaria nell'ultimo mezzo secolo. In Italia gli studenti universitari erano 402 mila nel 1965-66, raggiungono la cifra di 1 milione e 685 mila nel 1995- 96, si attestano a poco meno di 1 milione e 800 mila nel 2009-10. Spettacolare è anche la crescita degli scritti nel Regno Unito che tra il 1980 e il 2002 passano da poco più di 800 mila a oltre 2 milioni. Crescita proseguita fino a oggi. Nello stesso ventennio, nell'Europa a 15, essi più che raddoppiano , passando da 6 milioni e mezzo a 13 milioni e mezzo.
A che cosa si deve una tendenza sociale e culturale così evidente e negli ultimi decenni così accelerata? Senza dubbio essa è figlia dello sviluppo “generale delle forze produttive”, direbbe Marx. Le società industriali e postindustriali reclamano in maniera crescente forza-lavoro dotata di formazione superiore, in grado di soddisfare i bisogni produttivi e di creazione di servizi che il capitalismo richiede in questa fase di tarda maturità. Ma questa è solo una una faccia del processo.
Il crescente numero di ragazzi che prosegue gli studi iscrivendosi all'Università è figlio di un altro fenomeno: la sempre più accentuata disoccupazione giovanile e il tentativo di sfuggirla e di sottrarsi a un lavoro subalterno e precario grazie a una più elevata formazione. L'ideologia della competizione, nuova religione della nostra vita quotidiana, fa il resto. Com' è noto a livello generale, e come ha mostrato per l'Italia Livi Bacci ( Avanti giovani, alla riscossa, 2008), l'ingresso dei ragazzi nel mondo del lavoro si è spostato, significativamente, sempre più in avanti. Parlo di un fenomeno ormai storico, che dura cioé da due-tre decenni.
A tal proposito va ricordato quanto sia infondato il tentativo di molti commentatori di spiegare tutte le difficoltà del capitalismo attuale con la crisi in corso.Il loro sforzo apologetico di convincerci a tirare momentaneamente la cinghia, in attesa del luminoso avvenire che sta dietro l'angolo, ha lo scopo di farci accettare il vecchio modello di accumulazione oggi a pezzi.Ma quel modello, dal punto di vista della capacità di creare lavoro, era in rotta da tempo. Nel 2000, quindi 8 anni prima della Grande Crisi del nuovo millennio, nei 30 paesi dell'OCSE si contavano ben 35 milioni di disoccupati ufficiali. Creare pochi posti di lavoro e crearli precari è una tendenza ormai sistemica del capitalismo del tempo presente.
Ora, a partire dalla Processo di Bologna (1999) i gruppi dirigenti dell'UE hanno avviato un progetto di razionalizzazione degli studi universitari, tendente a uniformare a livello continentale procedure e forme di valutazione, ma con un intento strategico che apparirà evidente in seguito: staccare l'istituzione universitaria dall'ambito del welfare per trascinarla nell'agone del mercato. Da allora e in maniera sempre più evidente negli ultimi anni, gli sforzi dei riformatori si è indirizzato a fare dell'Università del Vecchio Continente una New Public Company, vale a dire una azienda pubblica, gestita secondo stretti criteri di economicità e di profitto. Una impresa come le altre in un mondo di imprese. Gli studenti, trasformati in clienti, dovevano pagare in maniera economicamente soddisfacente per sostenere l' offerta formativa di cui facevano domanda. Domanda e offerta si dovevano incontrare. E anche la formazione, dentro le aule delle Facoltà, doveva assumere la forma di prestazioni standardizzate sottoposte a valutazioni misurabili con crediti, secondo il nuovo e glorioso linguaggio bancario. E naturalmente gli studenti sono stati invitati a competere tra di loro. Così come le Facoltà e le Università, spinte a conquistarsi gli studenti-clienti con adeguate campagne pubblicitarie.
Quanto è avvenuto nelle Università inglesi illumina di chiarezza solare fino a che punto si è spinto il processo di aziendalizzazione degli studi, ma anche di mercificazione della vita. L'aumento delle rette fino a 9000 sterline l'anno – a parte i costi per vivere - che verranno anticipate agli studenti dallo stato sotto forma di crediti (secondo il modello USA) determinano un mutamento drammatico nella condizione di tantissimi giovani. Essi sono costretti a indebitarsi seriamente fino al conseguimento della laurea, senza nessuna certezza della riuscita finale. A parte l'ipoteca del debito che graverà per anni sulle loro spalle, da sostenere per lo più con lavori incerti e precari, non può certo sfuggire la novità che fa davvero epoca: gli studenti sono costretti ad assumersi precocemente dei rischi d'impresa. Da giovani in formazione si trasformano in imprenditori che investono nel proprio curriculum, ipotecando il proprio immediato futuro. Il neoliberismo mostra gli ultimi cascami del suo delirio economicista, mentre estende ulteriormente gli spazi sociali dell'indebitamento. Ma per questa strada infila un cuneo di disuguaglianza nella massa dei giovani e completa un processo ormai evidente degli ultimi anni: l'emarginazione sempre più conclamata dei ceti medi. Fenomeno di paradossale inversione nella storia del capitalismo contemporaneo.
Ora, io credo che l'attuale pressione sia economica che di ordinamenti indirizzata contro l'Università pubblica in Europa ( ma anche in USA, come mostra un'ampia letteratura) risponda a molteplici logiche. Avere una massa crescente di giovani laureati costituisce un vantaggio evidente per gli attuali gruppi dominanti. Da questa si possono selezionare più agevolmente i quadri eccellenti che sono in grado di far fare un salto di qualità al processo di valorizzazione del capitale: grandi manager, scienziati, creatori di brevetti, inventori di nuovi prodotti e servizi. La retorica dell'eccellenza che domina nelle ciarle pubbliche quotidiane ubbidisce a tale specifico fine. Ma la dimensione di massa di questa nuova manovalanza intellettuale costa troppo e perciò si tende da tempo ridurla e a selezionarla. Una strada intrapresa da tempo è quella di diminuire gli spazi dei saperi umanistici. Tutto ciò che rimanda a formazione, mondo umano, sapere critico e disinteressato, in una parola cultura, va vigorosamente ridotto. E' materia non edibile, come sostiene un ministro della Repubblica italiana, dichiarando l'evidente intento del capitalismo attuale e dei sui rappresentanti di muovere ormai apertamente contro gli assetti della nostra civiltà. L'altra strada, che nell'Italia degli ultimi due anni ha conosciuto fasti inauditi, è quella di tagliare i costi generali, trasferendoli alle famiglie.
Quest'ultima necessità sembra ubbidire a realistici vincoli di bilancio e quindi difficilmente aggirabile. In realtà, si tratta di una contabilità fasulla che trasforma l'interesse capitalistico in senso comune. Addirittura in realistico buon senso, specie di questi tempi, in cui la Crisi è stata trasformata in una sorta di minaccia divina, cui chinarsi rassegnati e pazienti. Che cosa appare , invece, a uno sguardo analitico che osservi i fenomeni a un livello minimo di profondità? Come già aveva osservato Marx, la formazione scolastica e culturale di un individuo soddisfa due diverse sfere di esigenze: per un verso arricchisce spiritualmente la persona, lo emancipa dalla sua condizione naturale, lo dota di sapere per sé. Ma al tempo stesso lo predispone a servire in forme più elevate la valorizzazione del capitale. Nessuno, nella società capitalistica contemporanea, sfugge a questo compito generale. Oggi, come già nell' '800 di Marx « tutte le scienze sono catturate al servizio del capitale.”.
Ma allora non può sfuggire la ben diversa contabilità che oggi va messa in luce. Tanto le famiglie che lo stato, nell'investire in formazione, non elevano solo culturalmente le nuove generazioni. Contribuiscono potentemente alla valorizzazione del capitale, creando forza lavoro altamente qualificata per le imprese. In alcuni casi, come nelle Facoltà di Economia, con i soldi pubblici si preparano soldatini pronti alla “guerra economica” senza neppure dotarli di quella cultura che potrebbe renderli non solo tecnici della crescita, ma anche esseri pensanti. I risparmi delle famiglie e il danaro di tutti, rastrellato attraverso la fiscalità generale, va a valorizzare l'impresa economica dei privati. E solo una ristretta élite di giovani parteciperà, più tardi, al banchetto dei profitti capitalistici. Chi restituirà alle famiglie il valore in più che con i loro risparmi hanno generato per il capitale? In che misura il fisco gravante sulle imprese restituirà allo stato gli investimenti sostenuti per valorizzare la forza lavoro altamente qualificata che esse impiegano?
E' evidente dunque che il bene comune del sapere necessità oggi di una nuova contabilità. Gli oneri per la sua produzione vanno ripartiti secondo un nuovo calcolo dell'utilità generale. Gli studenti europei mostrano di aver compreso l'aspro fronte di classe in cui si inscrive oggi la loro lotta. Quando la capiranno le formazioni politiche che si richiamano alla sinistra?
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L'articolo di Piero Bevilacqua uscirà anche sul manifesto