Il patrimonio diffuso è minacciato dalle città, e le città sono minacciate dalla scomparsa delle campagne. Questo l’argomento del mio intervento, che articolerò in quattro punti: 1. perché è bene che la campagna rimanga, o rientri, in città; 2. Che cosa ha cacciato e caccia la campagna dalla città; 3. l’irrefrenabile consumo di suolo; 4. quali spazi la campagna dovrebbe riconquistare nella città.
Perché è bene che la campagna rimanga, o rientri, in città
Le città sono oggi spesso diventate – in molti paesi, tra cui l’Italia –un luogo nel quale sono accatastate famiglie e attività, stipate in grandi involucri di cemento armato e mattoni, raccordati tra loro da nastri d’asfalto. Da moltissime città, soprattutto nelle periferie che sono state costruite nell’ultimo mezzo secolo e che costituiscono il 90% dell’urbanizzato attuale, la natura è scomparsa. Restano i giardini storici nei centri antichi, e quei pochi parchi urbani e spazi verdi ancora agricoli che qualche amministrazione comunale intelligente ha realizzato negli anni 70 e 80 del secolo scorso. Ma anche questi sono minacciati dall’espandersi dalla “repellente crosta di cemento e asfalto”, per adoperare le parole di Antonio Cederna.
La perdita che abbiamo subìto è gravissima. Perché la vita dell’uomo sia ragionevolmente vissuta, il rapporto immediato, quotidiano con la natura è essenziale. Non basta il verde dei balconi, né qualche striminzito alberello o qualche aiuola spartitraffico per farci vivere come abitanti del pianeta Terra. Il verde, la natura (sia quella selvatica che quella foggiata dal lavoro dell’uomo) è indispensabile alla nostra vita. Per ragioni che hanno a che fare con la nostra formazione, la consapevolezza del nostro ruolo nel pianeta che abitiamo, per la nostra cultura, il piacere, il benessere, la salute.
Oggi si è sempre più consapevoli della utilità del verde urbano alla fisiologia umana. Si considera in particolare essenziale il suo ruolo di moderazione microclimatica, di depurazione dell’aria, di attenuazione dei rumori, l’azione antisettica, il contributo alla difesa del suolo, alla depurazione idrica, alla conservazione della biodiversità.
É necessario che la città riprenda dentro di sé la campagna, che la campagna si re-impossessi della città. Così come era una volta, nei primi decenni della mia vita, quando le colline della mia città erano coltivate a vigne e a orti, quando bastava fare cinquecento passi per trovarsi in un bosco di castagni. Quando i prodotti dell’agricoltura che si mangiavano venivano da un paio di chilometri da casa, ed erano nutriti dallo stesso sole che entrava dalla mia finestra. Quando il sapore non era cancellato dalle lunghe soste negli armadi frigoriferi. Quando il latte che bevevo era prodotto dalle mucche che potevo vedere nella passeggiata fuoriporta, e il pesce che mangiavo veniva dal mare che vedevo dalla mia finestra. Per sapere che rapporto c’era tra la gallina, il pollo e le uova, e per sapere che i conigli mangiavano le carote, non dovevo guardare su un libro di zoologia. L’aria che respiravo era sana, era lavorata dalle foglie degli alberi che vedevo ovunque. E l’acqua minerale la bevevano solo i malati ricchi.
É stato inevitabile che questa perdita vi sia stata, che questo regresso sia avvenuto? Dobbiamo chiamarlo “inevitabile portato della modernità”? Lo escludo. Ci sono città, soprattutto fuori d’Italia, dove la campagna entra in città. Entra con il formato dei grandi parchi, i cui tentacoli verdi si spingono senza interruzioni nei quartieri vicini al centro e si collegano magari ai grandi parchi storici. Entra con gli orti urbani, lottizzati e assegnati agli abitanti dei quartieri nelle immediate adiacenze. Entra con dei cunei agricoli ancora coltivati dagli agricoltori, come hanno tentato di fare anche in qualche città italiana urbanisti intelligenti e amministrazioni sagge e civili.
Dobbiamo insomma recuperare la campagna in città, perché le cose belle, utili, sane che una volta caratterizzavano le città (insieme ad altre cose brutte, dannose e malsane, che siamo stati felici di perdere) tornino nelle nostre vite e in quelle dei nostri figli e nipoti. E perché quello che ancora c’è – i brandelli di verde, di natura – non siano anch’essi seppelliti sotto la “repellente crosta”. Come rischia di accadere.
Che cosa ha cacciato la campagna dalla città
Città e campagna sono due utilizzazioni che condividono il medesimo spazio: il territorio. A seconda della concezione che si ha del territorio la condivisione può assumere il carattere di una collaborazione o di una concorrenza, di una integrazione o di un conflitto.
Nel nostro mondo si manifestano di fatto due concezioni di territorio.
Secondo l’una il territorio è il contenitore neutrale di qualsiasi oggetto; è un insieme di risorse di cui ci si può appropriare per trasformarle; è un paesaggio da plasmare e riplasmare secondo il capriccio dell’operatore e l’interesse dell’utilizzatore.
Secondo l’altra concezione il territorio è un insieme di risorse finite, è un patrimonio, un insieme di patrimoni, depositati dall’opera congiunta della natura e del lavoro e la cultura dell’uomo; è un paesaggio - testimonianza anch’esso del lavorìo della natura e della storia - da custodire e manutenere e trasformare, comprendendone e rispettandone le regole formative.
Dobbiamo ammettere che nel nostro paese è la prima concezione quella dominante. Non si è cercato un equilibrio nell’uso del territorio. Non si è compreso che il territorio non urbanizzato, non trasformato in una “repellente crosta”, è una risorsa essenziale, e che quindi è lecito sottrarne parte solo se ciò è indispensabile per soddisfare esigenze che altrimenti sarebbero sacrificate. Non si è cercato di ridurre la sottrazione di suolo alla ruralità.
Ciò è dipeso in gran parte dal fatto che un’area utilizzabile per la costruzione di manufatti privati (abitazioni, uffici, fabbriche, capannoni) dà una rendita enormemente superiore a quella percepibile con gli usi rurali.
In altri paesi europei si è ovviato a questo squilibrio mediante la rigorosa imposizione di politiche e di regole, che le amministrazioni pubbliche hanno saputo far rispettare: l’acquisizione preventiva delle aree che saranno utilizzate per l’urbanizzazione, le regole della pianificazione, il prelievo – fiscale o contrattato – di quote consistenti della differenza tra rendita urbana e rendita agraria.
Perciò vediamo – in Germania, in Austria, in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi, in Francia, nei paesi scandinavi – ampi parchi e ampie zone agricole all’interno stesso delle città, e confini netti che separano città, paesi e villaggi dalla campagna circostante.
Perciò, in Italia, vediamo invece dilagare quel fenomeno – che negli altri paesi si cerca di contrastare– che si chiama “consumo di suolo”. Precisamente, una riduzione patologica dello spazio rurale ben al di là delle strette necessità di realizzare residenze, attrezzature produttive e commerciali e servizi urbani per le esigenze della società. Uno spreco di territorio, origine a sua volta di altri sprechi di risorse scarse e non riproducibili.
L’irrefrenabile consumo di suolo
L’Unione europea ha espresso da tempo preoccupazione per il crescente consumo di suolo, derivante soprattutto dal disordinato espandersi delle città in grandi aree invase da insediamenti a bassa densità dispersi su territori frammentati da strade e altre infrastrutture, largamente impermeabilizzati, in cui l’agricoltura viene ridotta in campi tagliuzzati, il paesaggio agrario viene cancellato – e con esso le testimonianze della storia e dell’arte, la gestione dei reflui e dei rifiuti viene resa più difficile e provoca un aumento dell’inquinamento[1].
I documenti dell’Unione europea sottolineano come lo spazio consumato per persona nelle città europee sia più che raddoppiato negli ultimi 50 anni. “Negli ultimi 20 anni, l’estensione delle aree edificate in molti paesi dell’Europa occidentale ed orientale è aumentata del 20 %, mentre la popolazione è cresciuta soltanto del 6 %”.
In particolare, si rileva come la dispersione degli insediamenti provochi l’irrefrenabile espansione della motorizzazione individuale, l’aumento dei costi, il coinsumo energetico, l’inquinamento. Inoltre – osserva l’Agenzia europea per l’ambiente – “le infrastrutture dei trasporti segnano profondamente il paesaggio, in diversi modi, basti pensare, ad esempio, all’impermeabilizzazione del suolo, che aumenta gli effetti delle inondazioni, o alla frammentazione delle aree naturali”.
Negli altri paesi europei il consumo di suolo ha spesso dimensioni comparabili a quelle nostrane, ma in Italia ci sono quattro differenze rilevanti.
(1) L’insieme del nostro territorio è caratterizzato da una grande fragilità per la sua struttura morfo-geologica e la sua pessima manutenzione.
(2) Le aree pianeggianti e fertili - che sono quelle dove il consumo di suolo si concentra – sono in Italia una frazione modesta del totale, circa un quarto del totale, mentre mancano le grandi pianure che caratterizzano Germania, Francia e i paesi dell’Est europeo.
(3) Il nostro territorio rurale è particolarmente dotato di testimonianze storiche e artistiche diffuse ovunque le quali, integrate alle ricchezze dei nostri paesaggi, costituiscono per la loro disseminazione una ricchezza che gli altri paesi ci invidiano.
(4) Infine – ed è forse la circostanza più preoccupante - in Italia nulla si fa per contrastare il consumo di suolo, a livello sia dello stato che delle regioni,. Anzi, soprattutto negli ultimi decenni (grosso modo a partire dalla metà degli anni 80) si sono via via abbandonate le pratiche di governo del territorio che nei due decenni precedenti erano state adottate in gran parte delle regioni del Nord e del Centro.
Non esiste nessuna ricerca seria, a livello nazionale, che abbia almeno quantificato, con criteri unitari che consentano confronti diacronici e sincronici, l’effettivo consumo di suolo, la sua dinamica, il suo effetto sull’ambiente e sulla vivibilità. I dati generali, di livello nazionale, che circolano sono totalmente inaffidabili. Essi si riferiscono o alla riduzione delle superfici agrarie (che non dipende solo dal consumo di suolo, ma anche dall’uscita dal mercato di aziende agricole e dalla rinaturalizzazione di aree marginali), oppure dalle rilevazioni satellitari. Queste si basano sull’impiego di un programma (Corine, COoRdination of INformation on the Environnement) , al quale sfuggono del tutto l’edificazione sparsa, i nuclei di abitazioni, le infrastrutture, le catene di capannoni e di casette[2].
La situazione è drammatica. E penso che cosa succederà quando misureremo l’effetto delle politiche più recenti, che continuano a stimolare un’attività edilizia completamente svincolata dai fabbisogni reali e finalizzata solo a valorizzate economicamente i terreni mediante l’impiego estensivo del mattone.
Quali spazi la campagna dovrebbe riconquistare nella città
Mi sembra che tre siano gli obiettivi più immediati, per chi voglia sperare che, anche in Italia, città e campagna ritrovino una convivenza e un’integrazione.
(1) Evitare l’ulteriore espansione delle città, combattere lo sprawl urbano (lo “sguaiato distendersi della città sulla campagna”). Altri paesi europei hanno adottato provvedimenti che vanno in questa direzione, e da cui si può imparare. Sono stati presentati in Parlamento italiano disegni di legge che vanno nella direzione giusta. Ma anche in assenza di leggi nazionali e regionali qualcosa si può fare. Comuni sensibili a questo tema possono imporre un limite rigoroso all’espansione urbana, tracciando confini rigorosi che separino città e campagna: come ha fatto lo stato del Washington negli Usa, e più d’un comune virtuoso in Italia. Le previsioni di piani regolatori vistosamente sovradimensionati si possono modificare senza dover pagare nessun indennizzo ai proprietari[3].
(2) Difendere gli spazi destinati a verde pubblico o verde agricolo nei piani regolatori vigenti. In moltissime città essi sono a rischio. Si tenta di sacrificarne un pezzo alla volta per ottenere qualche area per servizi. É un’operazione sbagliata. Se non ci sono risorse per acquisire aree per realizzare oggi un parco pubblico meglio destinare l’area a verde agricolo e stabilire regole che ne consentano l’uso ricreativo e produttivo insieme: sono attività che possono benissimo integrarsi.
(3) Chiedere che i grandi vuoti urbani siano in parte consistente destinati a verde. I vuoti che si formano per l’abbandono di installazioni industriali, militari o di servizi obsolete non devono essere adoperati solo per la realizzazione di edifici, ma che una parte consistente, almeno il 50%, deve venir restituito alla natura, e che devono essere utilizzate le vaste aree industriali nelle periferie urbane, soprattutto nel Mezzogiorno, urbanizzate per attività manifatturiere che non sono mai decollate.
Al di là e oltre iniziative in questa direzione – diciamo di carattere urbanistico –, credo che, per ottenere che la campagna riconquisti la città e i cittadini si giovino della campagna, e anche per ottenere un sostegno più largo alle attività di integrazione dell’agricoltura con tuti gli abitanti, residenti e viaggiatori, delle città sia utile dare risposte efficaci alle numerosissime sollecitazioni per un’alimentazione più sana, legata al territorio e alla cultura dei luoghi, per una formazione dei bambini più legata alla natura e alla conoscenza dei suoi cicli.
Mi riferisco alle pratiche per la formazione di “filiere brevi” tra il produttore e il consumatore, alla ristorazione con il Menu a km Zero, ai Gruppi di acquisto solidale, e alle molte altre forme nelle quali si esprime il desiderio di uscire da una vita sempre più omogeneizzata, artificializzata, in definitiva malsana per il fisico e alienante per lo spirito.
Per concludere
Nella sua bella relazione, che condivido integralmente, Massimo Quaini si è riferito alla battaglia in corso tra il globale dell’economia finanziaria, della “turbo capitalismo”, e il locale. Ci domandiamo: il globale, quel globale, ha ormai vinto?
Io non so se davvero, come afferma il titolo del libro di Giorgio Ruffolo, “il capitalismo ha i secoli contati”. Ruffolo scriveva quel libro prima della crisi dell’anno scorso, e del resto rivelava già, nel suo testo, la fragilità del capitalismo e le ragioni della necessità di superarlo. Quello che so, e di cui sono convinto, è che oggi occorre difendere il locale e tutto ciò che di buono la storia ci ha lasciato. E che però, contemporaneamente, si debbano cercare le strade che consentano di superare la contraddizione tra il globale e il locale, e soprattutto di costruire una società in cui il valor d’uso prevalga sul valore di scambio, la qualità sulla quantità.
[1]Si vedano in particolare i seguenti rapporti dell’European Environment Agengcy: EEA Report 03/2006 (The continuous degradation of Europe's coasts threatens European living standards), 04/2006 (Urban sprawl in Europe) e 10/2006 (Urban sprawl in Europe. The ignored challenge)
[2] L’unità minima di territorio omogeneo rilevato da Corine è 25 ha, pari a un quadrato di 500x500 m. Nella provincia di Lucca l’amministrazione ha fatto un confronto puntuale tra il consumo reale, misurato sulle mappe topografiche, e quello del Corine. Ebbene il consumo reale è di 17.000 ha, quello rilevato dal Corine è di 11.000 ha: il 50% in meno. Cfr M. Baioni, M.P Casini (a cura di), a cura di, Prospettive per il governo del territorio, Provincia di Lucca, 2006.
[3] Si vedano in proposito il parere pro veritate del prof. Vincenzo Cerulli Irelli e la relazione del sottoscritto.