Più volte eddyburg ha affrontato la questione dei “diritti edificatori”, dimostrandone non solo l’inesistenza ma anche la loro pericolosità, considerato che la loro legittimazione può costituire una seria ipoteca sul territorio a discapito della collettività.
Una delle circostanze in cui tale legittimazione può concretizzarsi è la stesura di un nuovo piano urbanistico che preveda una variazione delle destinazioni d’uso fissate dal piano precedente. Cosa succede se un terreno passa da edificabile ad agricolo? È legittima una scelta del genere, considerate le aspettative, non solo meramente economiche, che i proprietari possono avere maturato rispetto a quella destinazione?
Proviamo a rispondere da due punti di vista: quello della tecnica urbanistica (e del buon senso) e quello della giurisprudenza.
Per quanto riguarda il primo, vale la pena ricordare che un piano urbanistico serve a stabilire regole certe per l’uso del territorio in un arco di tempo ragionevolmente ampio (in genere almeno 10 anni). Per stabilire queste regole, oltre ad avere le idee chiare su quello che dovrebbe essere il futuro di una città, è necessario ipotizzare per quante persone, residenti e non, dovrà essere dimensionato l’assetto della città stessa: detto in altri termini, è necessario prevedere i fabbisogni di una città, soprattutto quelli abitativi, nell’arco di tempo considerato.
Molti dei piani degli anni Settanta furono nettamente sovradimensionati rispetto alle esigenze reali della comunità: l’ottimismo, spesso unito ad una non colpevole incapacità di percepire fenomeni di dispersione insediativa ancora in nuce, portò molti comuni a costruire piani dimensionati per due o tre volte la popolazione effettivamente insediata. Anche lì dove vi è stata una prudente definizione del fabbisogno, il forte decremento della popolazione degli ultimi anni ha messo in discussione le generali previsioni di crescita, con la conseguenza che spesso è toccato alle politiche urbane rimediare alle inadeguatezze dei piani urbanistici.
Le destinazioni d’uso, quindi, non sono che l’esito di un processo più complesso: si definiscono i fabbisogni, in particolare quelli abitativi, si dimensiona il piano, si definisce, infine, il regime dei suoli.
In questa prospettiva, appare evidente che, in un contesto generale di decremento della popolazione e di modifica delle dinamiche insediative, la riduzione delle aree edificabili si può rivelare soluzione necessaria prima che opportuna, in quanto esito finale di scelte fatte sulla base dei fabbisogni previsti.
Non solo: andando aldilà della logica consequenzialità del processo di formazione di un piano, dietro la riduzione delle aree edificabili vi può essere anche il merito politico delle scelte fatte da un’amministrazione.
Chi si può opporre, infatti, alle ragioni di un’amministrazione che decida di contenere la nuova edificazione entro limiti precisi senza consumare ulteriore territorio? E ancora: è davvero così contrario al buon senso che un’amministrazione, in relazione ad un calo della popolazione insediata, ritenga opportuno preservare una porzione di territorio a cui si riconosce un valore proprio perché rimasta inedificata? E infine ecco il nodo cruciale: le aspettative di pochi privati bastano per mettere in discussione scelte, anche drastiche, finalizzate a garantire l’interesse pubblico?
Insomma, dal punto di vista della tecnica urbanistica, la soluzione del problema posto all’inizio appare abbastanza logica; purtroppo, però, il buon senso e la logica non sempre bastano a rendere le scelte solide e inattaccabili. Andiamo a vedere, quindi, se tali scelte possono trovare un qualche aiuto nel mare magnum del diritto e della giurisprudenza.
Il primo punto di partenza non può che essere la legge urbanistica nazionale, la 1150/1942, che nulla dice a proposito di eventuali garanzie ai proprietari per cambi “sfavorevoli” di destinazioni d’uso. Stessa cosa vale per le leggi regionali: nessuna di esse ha ritenuto di dover regolamentare in maniera particolare il passaggio di un suolo da edificabile ad agricolo nel caso di varianti generali agli strumenti urbanistici o di redazione di nuovi piani.
Rispetto al legislatore, invece, il parere dei giudici risulta essere più articolato. Le sentenze in materia sono tante ma tutte dello stesso segno: nella predisposizione di un nuovo strumento urbanistico, un’amministrazione comunale ha piena facoltà di cambiare le destinazioni d’uso rispetto allo strumento vigente, anche se ciò comporta una modifica “peggiorativa” per i proprietari.
Tra le tante sentenze che supportano questa tesi, se ne segnala una in particolare, quella del Consiglio di Stato n. 2827 del 2003 che stabilisce che la reformatio in peius della precedente destinazione di zona non comporta nemmeno l’obbligo di motivazione. Se ne riportano di seguito alcuni passaggi significativi:
“E’ in tale ottica che trova fondamento il consolidato principio giurisprudenziale, secondo cui le scelte urbanistiche dall’Amministrazione comunale costituiscono apprezzamenti di merito, connotati di un’amplissima discrezionalità, sottratte al sindacato di legittimità, proprio del giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi ovvero da arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare (tra le più recenti, C.d.S., sez. IV, 9 luglio 2002, n. 3817; 22 maggio 2000, n. 2934).
III. 2. Le delineate caratteristiche delle scelte urbanistiche escludono, d’altronde, la necessità di una specifica motivazione che tenga conto, anche solo eventualmente, delle aspirazioni dei cittadini, essendo al riguardo sufficiente il semplice riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di piano (ex pluribus, C.d.S., sez. IV, 14 dicembre 2002, n. 6297; 6 febbraio 2002, n. 664; 17 gennaio 2002, n. 250; 19 gennaio 2000, n. 245; 8 febbraio 1999, n. 121; 9 luglio 1998 n. 1073).
L’obbligo di una puntuale motivazione è stato ritenuto sussistente, ai fini del legittimo uso del jus variandi quando, le nuove scelte incidono su aspettative qualificate del privato, quale quelle derivanti: dalla stipulazione di una convenzione di lottizzazione; da una sentenza dichiarativa dell’obbligo di disporre la convenzione urbanistica; da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia; dalla decadenza di un vincolo preordinato all’espropriazione(C.d.S., A.P. 22 dicembre 1999, n. 24; sez. IV, 9 luglio 2002, n. 3817; 27 maggio 2002, n. 2899; 20 novembre 2000, n. 6177; 12 marzo 1996, n. 301); è stato, invece, considerato affidamento generico quello relativo alla non reformatio in peius di precedenti previsioni urbanistiche che non consentono una più proficua utilizzazione dell’area, con la conseguenza che in tali casi non sussiste la necessità di una motivazione specifica delle nuove destinazioni urbanistiche rispetto a quelle che può agevolmente evincersi dai criteri di ordine tecnico – urbanistico seguiti per la redazione dello strumento stesso (C.d.S., sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3146; 20 ottobre 2000, n. 5635; A.P. 22 dicembre 1999, n. 24).
III. 3. Per completezza deve aggiungersi che, in concreto, l’unico limite che incontra l’ente locale nell’esercizio della delicata funzione di pianificazione urbanistica, salvo quello intrinseco – già delineato – della non arbitrarietà, non irragionevolezza e non irrazionalità, è costituito dalle “direttive” contenute nei piani territoriali di coordinamento e in quelli ad essi assimilati, quale – con riferimento al caso che ci occupa – il Piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC), di cui alla legge 30 aprile 1990, n. 40.
La posizione dei giudici appare dunque pienamente coerente con quanto detto prima circa le regole tecniche di redazione di un piano e il merito politico delle scelte fondamentali: addirittura, essa rimarca che, nel caso di reformatio in peius delle destinazioni d’uso, a meno che questa non derivi da scelte inficiate da palese irragionevolezza, non vi è nemmeno l’obbligo di specifica motivazione visto che è sufficiente chiarire quali siano state le scelte generali assunte a fondamento del piano stesso.
La risposta al problema, dunque, è la stessa, sia che la si guardi dal punto di vista della tecnica urbanistica che da quello del diritto e della giurisprudenza.
Rimane, purtroppo, un terzo punto di vista, molto più "discrezionale": quello del merito delle scelte di un’amministrazione.
Un autorevole urbanista qual è Francesco Indovina disse che il piano urbanistico è “l’espressione di una volontà politica tecnicamente assistita”: anche in questo caso, dunque, il problema è capire qual è la volontà politica che guida le scelte di un’amministrazione.
È infatti con una scelta tutta politica che si può concretizzare quella pericolosità dei “diritti edificatori” di cui si parlava all’inizio: il rischio è che un nuovo strumento, in barba a qualunque analisi del fabbisogno, nasca con una “dotazione” di metri cubi frutto di previsioni di piani precedenti mai attuate, “dotazione” che viene riproposta con la classica motivazione di non mortificare le aspirazioni di tanti proprietari che contavano sulla possibilità di poter costruire.
Il rischio è ancora più alto se si pensa che ormai quasi tutte le leggi urbanistiche regionali disciplinano la perequazione e con essa la possibilità di riconoscere, a certe condizioni, dei bonus di cubatura: senza voler demonizzare eccessivamente un tale strumento, non si può non preoccuparsi di fronte alla possibilità che questi “bonus” diventino delle mine vaganti capaci di mettere in discussione la certezza della disciplina che costituisce una delle ragioni dell’esistenza stessa di un piano urbanistico.
Ma, e leggendo la cronaca quotidiana dovrebbe essere ormai chiaro, per scongiurare rischi di questo tipo, purtroppo, né la tecnica, né il buon senso nè la giurisprudenza possono bastare.
Si vedano in proposito il parere pro veritate del prof. Vincenzo Cerulli Irelli, la relazione “ Forse che il diritto impone di compensare i vincoli sul territorio?”, di E. Salzano e l’articolo di eddyburg su Carta “ É una balla che il PRG attribuisca diritti edificatori".