1. Roma nella crisi dell’urbanistica
La crisi dell’urbanistica italiana ha avuto dagli anni ’90 molte risposte. In assenza della legge quadro nazionale le regioni hanno tentato ciascuna per proprio conto di innovare la legislazione e i comuni hanno continuato a pianificare sulla base di quelle leggi. Le due maggiori città italiane, Roma e Milano, hanno invece avuto l’ambizione di sperimentare modelli che si ritenevano estendibili all’intero territorio nazionale. Milano lo ha fatto nel modo conosciuto, e cioè cancellando esplicitamente l’urbanistica e sostituendola con una serie di progetti urbani ritagliati sulle grandi proprietà immobiliari mediante processi basati sulla discrezionalità. Più complesso il caso romano, dove si è avuta l’ambizione di tracciare una strada equidistante dallo schema derogatorio milanese e della pianificazione pubblica tradizionale.
Per delineare il nuovo modello, Roma aveva la necessità di sottoporre a critica i contenuti delle due polarità opposte e definire conseguentemente il nuovo percorso dell’urbanistica. La critica risultava abbastanza agevole nel caso milanese, dove non era difficile evidenziare le opacità insite nella contrattazione continua, condotta senza regole valide universalmente. Più difficile risultava la stessa operazione nei confronti dell’urbanistica tradizionale dove insieme a tanti casi criticabili si potevano trovare casi di buone pratiche pianificatorie[1].
Nei casi di difficoltà, come noto, il ricorso all’ideologia è provvidenziale. E in tal senso la complessa vicenda della pianificazione comunale viene dipinta con considerazioni di comodo, appiattita sotto giudizi di “estremismo”, di “rigidità e staticità”, di “subordinazione alla proprietà fondiaria”. Ad esempio: “Volendo essere schematici ma concreti, credo che per l’urbanistica italiana ci siano soltanto tre strade da percorrere. La prima è la più vecchia e nota, quella che abbiamo finora percorso e che oggi, però, non sembra avere sbocchi. E’ la strada scelta dai custodi delle regole del passato, secondo i quali l’unico piano possibile è quello rigido….. Questa è la strada di un piano che non è un piano, ma un’astrazione ideologica. La seconda via è, in fondo, uguale e contraria alla precedente; è la soluzione del rifiuto ideologico delle regole….La terza via d’uscita per l’urbanistica italiana è, invece, caratterizzata dalla coraggiosa serietà del riformismo: ed è quella scelta per il piano di Roma”[2].
Il caso romano va dunque analizzato proprio per questa sua ambizione. La sua affermazione avrebbe infatti rappresentato un fatto nuovo nel panorama nazionale. E le condizioni per una sua affermazione c’erano tutte. In primo luogo per i protagonisti politici dell’operazione che sono stati in ordine di tempo il sindaco Francesco Rutelli, in carica tra il 1993 e il 2000 e Walter Veltroni, in carica fino al 2008, quando, a causa dell’anticipato scioglimento del Parlamento, decise di candidare nuovamente il suo predecessore alla carica di primo cittadino, consegnando così alla destra la guida della città. Alla carica di sindaco si sono succeduti per quindici anni due dei principali artefici del “rinnovamento” del fronte progressista, il primo leader della Margherita e il secondo primo segretario del Partito democratico costituitosi nel 2008. Era dunque inevitabile che anche sul terreno delle città e del territorio si giocasse una partita più complessa e i due protagonisti del centrosinistra abbiano utilizzato il governo della città per stabilire rapporti con il sistema di potere e di interessi che gravita intorno al mondo dell’edilizia.
La seconda condizione derivava dal clima di attesa che circondava l’azione del governo di centro sinistra (1996-2001) inizialmente presieduto da Romano Prodi per approvare una nuova legge per il governo del territorio[3].
La terza condizione era relativa al fatto che furono i vertici stessi dell’Istituto nazionale di urbanistica ad assumere la guida dell’urbanistica romana. Il nuovo corso urbanistico romano ha infatti avuto come indiscusso protagonista il suo presidente onorario, Giuseppe Campos Venuti, che fino alla fine ne ha difeso l’impostazione culturale ed anche l’attuale presidente nazionale, Federico Oliva, ne è stato uno dei protagonisti
L’ultima condizione per la riuscita del tentativo era quella di essere sostenuti da un convinto consenso mediatico. Operazione agevole a Roma, per il fatto che i principali quotidiani della capitale sono di proprietà di attori economici con grandi interessi nel mondo dell’edilizia e proprietari di vasti compendi immobiliari[4]. Intorno al piano di Roma era stato insomma costruito un ambizioso tentativo di inaugurare un nuovo corso dell’urbanistica italiana.
2. Il Piano delle certezze e la nascita dei diritti edificatori e della compensazione
Questo insieme di motivazioni, di per se sufficienti a fornire una quadro molto favorevole, erano ulteriormente sostenute dalle caratteristiche della città agli inizi degli anni ’90, quando cioè inizia il corso della nuova amministrazione guidata da Francesco Rutelli. Nel 1993 siamo nel pieno del ciclone tangentopoli che aveva azzerato il personale politico del centrosinistra e anche parte del mondo imprenditoriale dell’edilizia. Il mondo delle costruzioni era sostanzialmente fermo e ci sarebbe stato tutto il tempo per voltare pagina e inaugurare la stagione di una nuova urbanistica come del resto era stato delineato all’interno del suo programma elettorale.
Vennero invece avviati due distinti provvedimenti in aperta contraddizione con le posizioni premiate dal risultato elettorale. Il primo fu il sostanziale svuotamento di una delle principali conquiste del movimento riformatore romano, e cioè la Variante di salvaguardia che aveva tagliato circa quaranta milioni di metri cubi di previsioni edificatorie, attraverso la redazione del Piano delle certezze. Nelle premesse teoriche di questo provvedimento non si riesce a trovare alcun motivo convincente che avrebbe reso indispensabile la revisione del piano precedente. Non c’era allora -come non esiste a tutt’oggi- nessun provvedimento della magistratura che avesse censurato la facoltà pubblica di cancellare espansioni in ambiti giudicati preziosi dal punto di vista ambientale. La redazione della Variante delle certezze non era dunque un provvedimento imposto dall’adempimento a sentenze della magistratura.
Nella relazione di piano vengono esplicitate due questioni. La prima afferma che uno dei suoi limiti era quello di non aver ancora concluso –insieme alla coeva Variante per il verde e i servizi- il proprio iter legislativo. Argomentazione singolare, poichè il comune di Roma aveva tutte le possibilità di sollecitare la Regione Lazio ad approvare i due strumenti, ma decise di scegliere la strada della redazione di un nuovo strumento[5].
La seconda questione affrontata nella relazione del piano delle Certezze è invece relativa al fatto che esso “non aveva interamente chiarito i rapporti tra pubblico e privato”. Ed è questa la questione cruciale. Siamo nel pieno della grande offensiva ideologica neoliberista che teorizza il declino della funzione pubblica e il passaggio di prerogative e poteri al privato. La variante di salvaguardia era dunque fuori moda. Si voleva dunque superare il rigore pubblicistico contenuto in quel provvedimento e non a caso proprio all’interno del piano delle certezze nacque la compensazione urbanistica: una parte delle previsioni edificatorie cancellate dalla variante di salvaguardia vennero recuperate, lasciando all’operatore privato la scelta di individuare un nuovo ambito urbano su cui poter realizzare le previsioni edificatorie cancellate dallo strumento di salvaguardia[6]. Per la prima volta nel panorama nazionale si afferma che la tutela paesistica non ha la facoltà giuridica di cancellare preesistenti destinazioni urbanistiche, né che attraverso i processi urbanistici si possa estendere la salvaguardia su aree precedentemente destinate all’edificazione. Nasce il concetto di “diritto edificatorio” che avrebbe accompagnato tutto il percorso dell’urbanistica romana.
Contro questa gravissima posizione che per la prima volta stabiliva l’intangibilità della rendita fondiaria, ci furono prese di posizione di grande autorevolezza scientifica che demolivano alla radice i cosiddetti diritti edificatori[7]. Anche questi suggerimenti, ovviamente, non furono tenuti in considerazione. Interessava evidentemente di più dare segnali di discontinuità con una consolidata cultura urbana progressista.
3. Il pianificar facendo e il trionfo dell’accordo di programma
Parallelamente alla Variante delle certezze fu avviata una vasta sperimentazione dei cosiddetti programmi urbanistici complessi codificati appena pochi anni prima dal Ministero dei Lavori pubblici, e cioè proprio di quegli strumenti basati sulla discrezionalità urbanistica che provengono dal filone culturale dell’urbanistica milanese. Quando nacquero i programmi complessi, oltre allo scontato consenso di coloro che ne sottolinearono il salto culturale, e cioè la sostituzione della logica del piano con quella del progetto urbano, ci fu anche chi ne accolse favorevolmente la valenza sperimentale. Di fronte alla crisi dell’urbanistica, si disse, una risposta possibile era anche nel pragmatismo e nel recupero della cultura del progetto.
Il limite dell’urbanistica romana è stato quello di non aver compreso il pericolo del loro uso sistematico e di averne fatto addirittura il simbolo del nuovo. Con questo secondo segmento di azione pianificatoria si afferma infatti il “pianificar facendo”. “Appare evidente il senso del pianificar facendo. Lo slogan esplicita in metodo dialettico di costruzione del piano: dal generale al particolare e dal particolare al generale. Definiti uno schema generale di riferimento………è stato possibile avviare progetti urbanistici considerati strategici…….In questo contesto appare evidente il ruolo giocato dalle cosiddette procedure innovative: dai programmi di riqualificazione e di recupero alla individuazione del progetto urbano”[8].
Emerge in modo evidente la contraddizione: mentre si affermava di voler cercare un altro percorso rispetto a quello milanese, si usano gli stessi istituti derogatori. Roma rende anzi sistematico l’uso della contrattazione urbanistica. Quello che Milano sperimenta in un limitato numero di aree, Roma lo applica sulla scala dell’intera città. Roma applica insomma il modello restauratore disegnato dalla legge Lupi, e cioè la proposta di variazione della legge del 1942, pensata da uno dei protagonisti dell’urbanistica milanese e fondata proprio sul concetto di continua contrattazione tra amministrazioni pubbliche e proprietà fondiaria[9].
La capitale istituisce addirittura un assessorato ad hoc, unico comune italiano in cui oltre ad un assessorato alla pianificazione si crea un assessorato alla deroga[10]. La giunta municipale romana con l’acquiescenza della Regione Lazio ha approvato negli ultimi dieci anni oltre cento accordi di programma in variante agli strumenti urbanistici vigenti (Prg 1962-65 e successive varianti) ed anche dello stesso piano in costruzione. Il piano regolatore non esiste più, con l’accordo di programma si può edificare dappertutto, su aree destinate a verde, a servizi pubblici o all’agricoltura.
Ma oltre al tema del rapporto tra piano e progetto, l’uso dei nuovi strumenti di intervento ha avuto una ben più grave conseguenza. I programmi complessi vengono infatti approvati non più attraverso la procedura di evidenza pubblica prevista dalla legislazione urbanistica nazionale, ma attraverso l’uso dell’accordo di programma, previsto dall’articolo 49 del Decreto legislativo 267/2000 con cui viene cancellato il processo di trasparenza democratica. La decisione sulla validazione delle varianti urbanistiche appartiene, come noto, ai consigli comunali dove esiste almeno dal punto di vista formale il controllo istituzionale e la partecipazione. L’accordo di programma viene invece approvato dalla giunta comunale e soltanto “ratificato” –pena la decadenza- dai consigli comunali. Si salta insomma un passaggio democratico e partecipativo fondamentale per l’esercizio delle prerogative democratiche delle amministrazioni locali.
4. Il capovolgimento della gerarchia legislativa: l’urbanistica prevale sulla pianificazione paesistica
Era prevedibile che alcune proposte di deroga urbanistica si sarebbero venute a trovare in aperta contraddizione con quanto previsto dalla pianificazione paesistica o dagli altri strumenti della tutela del territorio. E quando il rischio del blocco dei programmi di recupero urbano si è fatta più concreta, sono arrivate nuove norme legislative.
Nelle leggi 2 e 18 del 2004, la Regione Lazio ha stabilito che “…gli accordi di programma aventi ad oggetto programmi di recupero urbano di cui all’articolo 11 del dl 5 ottobre 93, n. 398 ed altri interventi di edilizia residenziale pubblica finanziati dalla Regione possano comportare variazioni ai Piani territoriali paesistici vigenti.”. Il comma successivo precisa poi che “gli accordi di programma aventi ad oggetto piani o programmi di intervento finalizzati all’acquisizione pubblica di aree ricadenti in aree naturali protette o con rilevante valore paesaggistico possono comportare variazioni a Ptp vigenti”. Per favorire la nuova urbanistica romana, la Regione Lazio capovolge un principio legislativo fondamentale: la gerarchia delle fonti che vede la pianificazione urbana subordinata a quella paesistica, viene capovolta. E’ la tutela ambientale ad essere subordinata ai progetti urbanistici.
L’urbanistica romana del primo dopoguerra è stata nella storia della disciplina un punto di riferimento per l’intero paese. Sono numerosi i piani regolatori redatti sull’esempio metodologico del piano del 1965. Anche in questo caso Roma diviene il modello di riferimento per tutta la nazione: sono innumerevoli le città che hanno seguito l’esempio dell’utilizzazione dell’accordo di programma come strumento per governare il territorio. E proprio in questi giorni, le intercettazioni telefoniche condotte dalla magistratura relative alla vicenda del piano strutturale fiorentino hanno finalmente mostrato all’intera nazione quali siano i meccanismi insiti nell’urbanistica contrattata[11].
5. Il carattere flessibile delle norme tecniche di attuazione
La sostituzione della pianificazione urbanistica con la discrezionalità insita nell’uso dell’accordo di programma ha comportato inevitabilmente un elevato grado di flessibilità dell’impianto normativo del piano. Il numero gigantesco degli articoli delle norme tecniche e della loro faticosa stesura, richiederebbe ampio spazio per un’analisi sistematica e non mancheranno occasioni maggiormente adatte[12]. In questa sede è sufficiente riportare le tre più vistose lacune dell’impianto normativo nei confronti dei tre principali ambiti in cui il piano urbanistico ha suddiviso Roma: la città storica; la città della trasformazione; l’agro romano.
Per la città storica la principale censura riguarda la sostanziale assenza di una vera tutela del patrimonio insediativo classificato “storico”. Se infatti occorre dare atto al nuovo prg di aver ampliato notevolmente gli oggetti da sottoporre a tutela storica fino a ricomprendervi alcuni recenti quartieri di edilizia pubblica, è altrettanto vero che la normativa di riferimento contiene formulazioni che contraddicono le stesse ragioni della tutela.
Due recenti esempi hanno svelato esplicitamente la vicenda: il compendio dell’ex Ministero delle Finanze all’Eur e l’edificio utilizzato quale museo del cinema a pochi passi dalla storica Porta Portese. In entrambi i casi la destinazione del nuovo piano era univoca: siamo all’interna nella città storica, dove la norma afferma che “gli interventi edilizi e urbanistici, nonché le iniziative di promozione sociale ed economica sono finalizzate alla conservazione e valorizzazione delle qualità esistenti, nel rispetto delle peculiarità di ciascuna delle componenti insediative”. Per entrambi questi immobili è stata invece ammessa la demolizione e ricostruzione sulla base di una possibilità offerta da altri articoli delle stesse norme tecniche. Una serie di rinvii, eccezioni e possibilità di deroga hanno reso infatti possibile ciò che apparentemente veniva rigorosamente vietato[13].
Analogo è il caso degli interventi di trasformazione urbanistica ammessi nelle aree periferiche. Lo strumento fondamentale individuato per la riqualificazione di queste aree, infatti, è il Print, programma integrato di intervento e la normativa di riferimento fissa in prima istanza i parametri urbanistici da rispettare. Subito dopo, però, lascia ampio spazio alla contrattazione. Si prevede anche il raddoppio delle volumetrie inizialmente definite attraverso le procedure di concertazione tra pubblico e privato. E’ del tutto evidente che nessuno è in grado di misurare in modo certo e univoco il dimensionamento del piano regolatore. Il numero dei Print previsti dal prg supera infatti il numero di 150: il dimensionamento di 70 milioni di metri cubi contenuto negli elaborati di piano è dunque soltanto un’approssimazione di larga massima, poiché tiene conto delle possibilità incrementali consentite dalle norme di piano.
Infine le aree agricole, l’ambito urbano che nelle dichiarazioni ufficiali appare come il fiore all’occhiello del nuovo piano. A leggere la normativa di riferimento si resta invece colpiti dal numero e dalla portata delle possibilità derogatorie che vengono create per aggirare il vincolo di destinazione agricola. Alcuni esempi. Tra gli usi consentiti nelle zone agricole sono previsti (art. 69): “ricettività all’aria aperta; attività ricreativo-culturale e sportiva a cielo aperto; discariche inerti; reti tecnologiche private; impianti di produzione di energia elettrica; attività estrattive e altre attività connesse, complementari e compatibili con l’uso agricolo”.
In buona sostanza se da un lato si afferma che l’agro romano è tutelato come categoria, dall’altro si consente la realizzazione di cava o di produzione di energia. Ad esempio, è molto attuale la produzione locaòe di energia solare e molti comuni italiani stanno favorendo la realizzazione di aree di produzione. La loro estensione supera di spesso le decine di ettari: occupano dunque molto spazio che sottraggono all’uso e al paesaggio agricolo. Il piano regolatore di Roma permette invece che si possono fare in zona agricola[14].
E’ un processo sostanzialmente analogo a quello lucidamente descritto sulle pagine di Contesti da Paolo Baldeschi riguardo ai contenuti del piano strutturale fiorentino. Nel sottolineare la vacuità, o per meglio dire il carattere di vero e proprio diversivo rispetto allo specifico disciplinare, di alcune affermazioni contenute nella normativa tecnica di piano, afferma:”Il Ps porta questa filosofia alle estreme conseguenze, presentandosi come un atto meramente politico, senza averne né competenze né poteri rispetto agli obiettivi proposti….Rimandando tutti gli aspetti urbanistici di governo del territorio al Ru e rendendo pleonastico lo statuto del territorio, l’amministrazione si lascia le mani libere sulle decisioni che saranno assunte nello strumento operativo.“[15]. La normativa del piano di Roma cade nello stesso paradigma. La flessibilità lascia infatti ampi margini di operatività nella fase della gestione urbanistica.
6. L’idea di città e il modello spaziale del nuovo piano
Il piano regolatore del 1965, come noto, delineava una fisionomia della città imperniata sulla realizzazione della “nuovacittà pubblica” nella periferia est della città. La realizzazione del Sistema direzionale orientale era infatti la chiave del rinnovamento urbano da raggiungere in primo luogo con lo spostamento delle attività ministeriali dal centro storico della città. Con il nuovo piano regolatore lo Sdo è stato cancellato. Vengono confermati i due comprensori terminali (Pietralata a nord e Torre Spaccata a est), ma l’idea strutturante viene sostituita con 18 ambiti destinati alla funzione di “centralità”. Il nuovo piano affida dunque le speranze di definizione della struttura urbana del terzo millennio a quasi due decine di poli sparsi a raggiera nel territorio romano senza alcun legame tra di essi.
Il primo gruppo delle centralità appartiene a quelle già esistenti alla data di redazione del nuovo piano: si tratta del secondo polo universitario di Tor Vergata ad est di Roma e quello della terza università di Ostiense a sud, già realizzati e funzionanti da molti anni prima della stessa elaborazione. Ad esse si aggiungono i due citati comprensori terminali dello Sdo. Le tre principali centralità, Eur Castellaccio (sud) e Acilia Madonnetta (ovest) e Anagnina Romanina (est) sono invece vecchie destinazioni a servizi pubblici del precedente piano: si passa con disinvoltura dal regime pubblico a quello privato confermando le cubature precedentemente destinate alla realizzazione di attrezzature pubbliche. In questa stessa categoria si colloca anche la centralità di Saxa Rubra (nord) nata a ridosso del centro di produzione Rai.
Due altre centralità sono state individuate su aree pubbliche Ponte Mammolo (est) e Santa Maria della Pietà (nord), ma mentre la prima è caratterizzata da una serie di vincoli morfologici e infrastrutturali tali da caratterizzarla come nodo di scambio della mobilità, la seconda è caratterizzata da un quadro storico-ambientale straordinario che non consente alcuna trasformazione. La Storta e Cesano (nord) e Massimina (ovest) sono riconducibili ad esclusivi obiettivi di valorizzazione di aree precedentemente destinate ad uso agricolo.
Cinque ulteriori centralità individuate sono infine eredità del “pianificar facendo”, sono cioè aree la cui trasformazione è stata decisa attraverso l’uso dell’accordo di programma: Alitalia-Magliana e Fiera di Roma (ovest); Bufalotta a nord; Polo tecnologico e Ponte di Nona-Lunghezza a est. Tre di esse sono caratterizzate dalla realizzazione dei numerosi centri dell’iperconsumo nati a Roma in poco tempo. In poco più di dieci anni, infatti, grazie alla disinvoltura dell’urbanistica romana, indotta anche nei comuni limitrofi sono stati costruiti 28 giganteschi centri commerciali diffusi in ogni quadrante urbano che si vanno ad aggiungere ai 4 di più modeste dimensioni preesistenti[16]. Calcoli prudenti parlano della chiusura in breve tempo di oltre tremila attività commerciali di vicinato: con il pianificar facendo è stata decretata la desertificazione della periferia romana.
E’ soprattutto nel caso del comprensorio della Bufalotta che si misura il fallimento della visione liberista del nuovo piano regolatore. Il contenuto della centralità era assicurato dalla articolazione funzionale del nuovo insediamento. Erano previste residenza per poco più di un terzo dei previsti 3 milioni di metri cubi (circa 12.000 nuovi abitanti), un altro terzo era dedicato alla realizzazione di terziario (la centralità, appunto). La restante parte era destinata alla funzione commerciale ed è stata la prima ad essere realizzata. Esaurita anche la costruzione delle residenze, era finalmente arrivato il momento di delineare il volto della centralità.
Ma i proprietari del comprensorio fanno infatti sapere al comune di Roma che conseguentemente alla crisi del comparto terziario non è dunque in grado di realizzare la prevista quota di uffici, e cioè la centralità. La giunta comunale non oppone alcuna resistenza, non cerca cioè di mantenere fede al programma sottoscritto richiamando il consorzio al rispetto della convenzione stipulata. Nel novembre 2008 vota una deliberazione che accetta di mutare le restanti volumetrie da terziarie a residenziali. Con il fallimento del progetto urbano della Bufalotta cade la convinzione principale su cui si è basata l’urbanistica romana, e cioè di affidare il destino della città al “mercato”. Una convinzione su cui è stato costruito il piano regolatore e su cui si è investito moltissimo in termini di immagine. A partire dal 2002, infatti, il comune di Roma è stato entusiasta attore nella fiera della speculazione immobiliare internazionale che si svolge annualmente a Cannes, il Mipin, Marché international des professionels de l’immobilier. Nel 2007, pochi mesi prima che iniziasse il crollo dell’economia di carta creata anche dagli stessi geniali devolopers registi del Mipin, Roma insieme alla regione Lazio aveva organizzato un padiglione di 800 metri quadrati in cui mettere la città in vendita.
E se la Bufalotta è un fallimento, l’intervento pubblico dimostra invece la capacità di essere ancora il motore delle trasformazioni. Le uniche vere centralità realizzate nell’ultimo ventennio a Roma sono infatti proprio due grandi progetti pubblici: le due università di Tor Vergata e di Ostiense che, pur nella diversità, rappresentano esempi concreti di come le amministrazioni pubbliche possono influire sul destino urbano.
7. La “nuova” urbanistica e il sacco urbanistico di Roma
Il 13 e 14 aprile 2008 il centrodestra vince con ampio margine le elezioni politiche anticipate causate dalla caduta del secondo governo presieduto da Romano Prodi. Candidato premier dello schieramento di centrosinistra era Walter Veltroni. Il 4 maggio la trasmissione televisiva Report manda in onda un servizio sull’urbanistica romana, I re di Roma, firmato da Paolo Mondani che rende finalmente evidenti le contraddizioni dell’urbanistica romana[17].
Nel ballottaggio delle elezioni amministrative svoltosi l’11 giugno 2008 il candidato della destra, Giovanni Alemanno diventa sindaco di Roma con il 53,7% dei votanti. Lo sfidante dello schieramento contrapposto, Francesco Rutelli, si ferma al 46,3%. Dopo quindici anni di ininterrotto governo di centrosinistra, Roma volta pagina.
Nei lunghi anni di governo urbano, la sinistra ha costruito una sconfitta culturale senza appello. Le speranze che avevano accompagnato le ambizioni della nuova urbanistica romana si sono dissolte progressivamente. Nel merito, in primo luogo. Il pianificar facendo ha fallito la sua sfida. Centralità, cura del ferro e tutela dell’agro erano gli obiettivi che si prefiggeva di raggiungere. Del fallimento delle centralità abbiamo già parlato.
Sulla “cura del ferro”, e cioè il legame tra le trasformazioni urbane e il sistema di trasporto pubblico si è di recente soffermato Walter Tocci, vicesindaco della città nel periodo di Francesco Rutelli e ideatore del potenziamento della rete di trasporto pubblico. Il giudizio espresso è senza appello: la cura del ferro è stata abbandonata[18].
Ed anche la salvaguardia delle aree agricole si sta dimostrando una chimera. Oggi a Roma vivono circa 2 milioni e seicento mila abitanti, eppure già nel 2002, il comune di Roma aveva misurato l’estensione dell’urbanizzato in 46 mila ettari poco meno di quanto previsto nel precedente piano, pensato per un popolazione due volte più grande. Segno evidente che l’urbanizzazione è sfuggita da ogni controllo, con la conseguente cancellazione di preziose aree destinate all’agricoltura e all’equilibrio naturale. Ma, per paradossale che possa sembrare, è oggi che si corre il rischio concreto della cancellazione della campagna romana. Il paradosso sta nel fatto che nonostante siano circa due decenni che Roma si sta spopolando, il nuovo piano regolatore prevede l’urbanizzazione di ulteriori 15 mila ettari, così da arrivare a cancellare oltre il cinquanta per cento della campagna romana. Quindici anni di nuova urbanistica hanno lasciato 70 e oltre milioni di metri cubi di cemento: il nuovo sacco urbanistico[19].
Ma il fallimento del disegno egemonico dell’urbanistica romana è rintracciabile anche nel quadro nazionale. La possibilità di veder approvata in tempi brevi una moderna legge quadro per il governo del territorio si è dimostrata vana. Nei cinque anni della prima esperienza governativa nazionale e nei due anni del secondo governo Prodi, il centrosinistra non ha avuto la convinzione di arrivare a quell’importante risultato. Eppure il 70 % dei comuni era amministrato dal centrosinistra e anche l’Anci, associazione dei comuni italiani era diretta dal sindaco di Firenze. Se non si è arrivati all’approvazione del provvedimento è perché si è preferita l’urbanistica contrattata. Oggi in discussione alla Camera dei deputati c’è la legge Lupi e una parte della stessa opposizione si è dichiarata pubblicamente a favore della sua approvazione.
L’Istituto nazionale di urbanistica vive dal canto suo un momento di evidente involuzione. Se occorre dare atto che ultimamente ha corretto i positivi giudizi espressi sulla legge Lupi, è al tempo stesso evidente il suo progressivo spostamento su una visione mercatistica della città, dimostrata dall’impegno profuso negli annuali appuntamenti “Urbanpromo”, dedicati al “marketing urbano e territoriale”, pallide emulazioni della più robusta fiera della speculazione di Cannes[20].
Solo un segmento dei quattro iniziali che hanno consentito il delinearsi dell’urbanistica romana ha conseguito in questi anni un trionfo: la proprietà immobiliare. I due quotidiani romani, Il Messaggero e Il Tempo, hanno potenziato le testate, capitalizzando evidentemente le immense plusvalenze conseguite con il pianificar facendo. In particolare Il Messaggero ha giocato una partita aperta durante le elezioni amministrative, schierandosi contro l’urbanistica del centrosinistra. Un paradosso apparentemente, se si pensa che in questi anni la proprietà fondiaria non ha trovato ostacoli a concretizzare ogni suo progetto. Ma inevitabile conseguenza della visione economicista che si è affermata: se la città è ridotta a mero fattore economico, è comprensibile che anche i suoi protagonisti principale, la proprietà fondiaria, cerchi in ogni modo di incrementare i suoi affari a prescindere dagli schieramenti in campo.
La parabola della nuova urbanistica romana sta nella sproporzione tra le ambizioni iniziali e i suoi esiti. Aver cancellato le regole in nome di una flessibilità senza scopo si è dimostrato un errore gravissimo. Le radici della sconfitta romana sono dunque culturali. Ed è soltanto con una coraggiosa opera di revisione critica delle sue posizioni sulla città che lo schieramento progressista potrà superare la sconfitta del 2008.
[1] La più significativa delle esperienze recenti è senza dubbio quella di Napoli negli anni 1993-97. Oltre alle numerose pubblicazioni del comune di Napoli, va segnalato il bel volume di Gabriella Corona, I ragazzi del piano. Donzelli editori, 2007.
[2] Giuseppe Campos Venuti, Il piano per Roma e le prospettive dell’urbanistica italiana, in Urbanistica n. 116-2000. Alcune altre citazioni: “E dal comune di Roma, che dopo 40 anni ha elaborato un nuovo piano regolatore, viene la risposta forse più significativa alla deregulation e alla passività, all’antipiano e all’estremismo”, Giuseppe Campos Venuti, Adottare il piano per Roma, Comune di Roma, 2002; “Mi sembra che l’amministrazione e i suoi consulenti rifiutino il vecchio modello del piano rigido e statico”, Giuseppe Campos Venuti, Urbanistica in evoluzione, in Capitolium, dossier Verso il nuovo piano regolatore, 1999; “Introduzione di meccanismo compensativi e la perequazione urbanistica, che superino l’impasse quasi ventennale dei meccanismi di apposizione dei vincoli preordinati all’esproprio e la subordinazione della progettazione urbanistica alla struttura della proprietà fondiaria”, Domenico Cecchini, relazione al Piano delle Certezze, Roma, 1997.
[3] Durante il 1998 la competente commissione della Camera dei Deputati aveva iniziato la discussione su un testo organico redatto principalmente da Guido Alberghetti, ex parlamentare e responsabile dell’urbanistica del Pds. Inerzie e divisioni all’interno della stessa maggioranza non consentirono l’approvazione della legge, ma furono numerosi gli interventi del gruppo degli urbanisti incaricati in cui affermavano che i contenuti del nuovo piano romano erano un’anticipazione di quelli della legge nazionale.
[4]Il più diffuso quotidiano locale, Il Messaggero, è di proprietà di Francesco Gaetano Caltagirone, titolare, tra l’altro, di una grande società di produzione di cemento e proprietario di molte aree ed edifici. Il quotidiano locale di destra, Il Tempo, è anch’esso di proprietà di un soggetto con rilevanti interessi immobiliari, Domenico Bonifaci. Nel consiglio di amministrazione del gruppo Rcs-Corriere della Sera, infine, siede Pier Luigi Toti, importante e autorevole costruttore romano.
[5]La variante di Salvaguardia fu adottata con delibera n. 279 del Consiglio comunale di Roma il 23-24 luglio 1991. Le controdeduzioni furono approvate il 21 febbraio 1995. L’approvazione da parte della regione Lazio si ebbe con deliberazione di Giunta regionale n. 596 del 17.5.2002. La variante delle Certezze fu adottata dal Consiglio comunale in data 29 maggio 1997. Il 9 novembre 2000 fu approvata la deliberazione di precisazione delle compensazioni ivi contenute. L’approvazione regionale si ebbe con dgr n. 856 del 10. 9. 2004. Va anche sottolineato che nei quindici anni di gestione urbanistica non sono stati difesi neppure i vincoli sulle aree pubbliche, poiché alla metà degli anni 2000 in alcune aree sottoposte a piano attuativo essi vennero di nuovo a scadenza. Da allora iniziò nuovamente lo stillicidio di richieste di edificazione sulle aree a vincolo scaduto. Molte sono state compromesse con il rilascio di permessi di costruzione, ma a differenza di quanto avvenne negli anni ’90 nessuno ha pensato di lanciare il minimo allarme all’opinione pubblica.
[6] “Infine il piano delle certezze introduce con una prima applicazione l’istituto della compensazione edificatoria….Già oggi con il piano delle certezze esso trova applicazione rispetto alle aree edificabili che vengono cancellate sulla base di criteri urbanistici e non sulla base di vincoli cogenti di inedificabilità”. E’ invece noto che la lottizzazione di Tormarancia, la cui edificazione fu cancellata sulla base dell’apposizione di un vincolo paesaggistico, insieme ad altri casi, furono ugualmente inserite all’interno dei comprensori da compensare.
[7] Vincenzo Cerulli Irelli, Edoardo Salzano. Relazione introduttiva al convegno di Italia Nostra sui diritti edificatori. Roma, 10. 1. 2003. Sulla rilevanza giuridica delle nuove formulazioni vedi Luca De Lucia, La perequazione nel disegno di legge sui “Principi in materia di governo del territorio” in La controriforma urbanistica. Alinea editrice 2005.
[8]Verso il nuovo piano regolatore. Le città di Roma. Comune di Roma, Dipartimento politiche del territorio. Roma, novembre 1999.
[9] Sulla legge Lupi si veda: La controriforma urbanistica, a cura di M.C.Gibelli, Alinea editrice 2005. Dall’inizio di questo anno (2009) la legge Lupi ha iniziato di nuovo ad essere discussa all’interno della competente commissione della Camera dei Deputati e, data l’assenza di una convinta opposizione, il provvedimento rischia di essere approvato.
[10] Dal 1999 al 2008 a Roma è esistito l’assessorato ai “Grandi eventi” che diretto ininterrottamente dall’assessore Claudio Minelli è stato l’ispiratore di decine di deroghe approvate mentre si redigeva il piano urbanistico.
[11] Le intercettazioni ambientali fanno infatti comprendere appieno il nuovo meccanismo. La costruzione della variante che intendeva trasformare nello stadio di calcio della Fiorentina e nelle strutture commerciali correlate la destinazione a parco pubblico preesistente, viene infatti decisa da incontri ristretti svoltisi in vari ristoranti della città dal sindaco Leonardo Domenici, dal proprietario dell’area, Salvatore Ligresti, e dal proprietario della squadra di calcio, Diego Della Valle. La città era all’oscuro di tutto.
[12] In questa sede è forse utile limitarsi a riportare le date delle numerose stesure formalizzate della normativa. Prima adozione di Gm. nel settembre 2000. Versione provvisoria del 19 aprile 2002. Stesura approvata dalla Gm. il 18. 6. 2002. Versione variata approvata dalla Gm. il 3. 12. 2002. Stesura adottata dal consiglio comunale il 19-20. 3. 2003. Stesura approvata in sede di controdeduzioni approvata il 5 dicembre 2005. Ad ogni stesura si introducevano notevoli mutamenti.
[13] La citazione riportata nel testo è tratta dall’articolo 20, Città storica, Definizione, obiettivi e componenti., comma 2 delle NTA. Al comma 5 del successivo articolo 21 si afferma ad esempio: “Nelle aree libere non gravate di vincolo di pertinenza a favore di edifici circostanti sono ammesse la nuova edificazione su singoli lotti liberi o parzialmente edificati interposti tra lotti edificati dello stesso isolato, e risultanti da demolizioni totali o parziali di preesistenti edifici”.
[14] Vezio De Lucia, Il nuovo Prg di Roma e la dissipazione della campagna romana. In Meridiana 4-2005. I dati sul consumo di suolo a Roma sono contenuti in Paolo Berdini, La cancellazione della campagna romana. In No Sprawl, Alinea editrice, 2006.
[15] Paolo Baldeschi, Il piano strutturale di Firenze, estrema torsione della politica toscana di governo del territorio. In Contesti, supplemento n. 2-2007.
[16] Nel quadrante nord sono stati realizzati i centri di Torresina; Bufalotta-Porta di Roma nord; Fiano-Capena; Sant’Oreste. Questi ultimi due sono ubicati in area metropolitana. Nel quadrante est sono stati realizzati i centri di Casal Bertone; Collatina; Casilina; Palmiro Togliatti; Cinecittà (preesistente); Lunghezza-Porta di Roma est; La Rustica (preesistente); Polo tecnologico; Tor Vergata; Romanina; Anagnina; Osteria del curato; Valmontone; Ciampino-J-F. Kennedy. Nel quadrante sud sono stati realizzati i centri di Navigatori; Granai di Nerva (preesistente); Euroma2; Laurentino 38; Tor Pagnotta 1; Tor Pagnotta 2; Mezzocammino; Castel Romano. Navigatori, Laurentino 38 e Mezzocammino sono in corso di completamento. Nel quadrante ovest sono stati realizzati i centri di Selva Candida; Aurelia; Pescaccio (preesistente); Portuense; Ponte Galeria-Commercity; Fiumicino-Da Vinci; Fiumicino-Leonardo.
[17] Uno dei meriti della puntata di Report sta nel fatto di aver infranto il muro del silenzio durato nei quindici anni di amministrazioni di centrosinistra. Nonostante in quegli anni non fossero mancati conflitti o studi, il controllo del sistema mediatico non aveva lasciato spazio alla città reale. Alcuni esempi. Il 14 novembre 2002 si svolge un corteo organizzato da numerosi comitati di periferia fino al Campidoglio. Sempre nel 2002 esce Lezioni di piano, per un altro piano regolatore di Roma, volume curato dal consigliere comunale alla partecipazione, Nunzio D’Erme. Nel 2006 esce Modello romano, l’ambigua modernità, Odradek editore, in cui viene evidenziata l’inconsistenza del modello romano. Non si contano invece le vertenze aperte da moltissimi comitati di cittadini che dal centro storico alla periferia hanno chiesto invano una inversione di tendenza dell’urbanistica romana.
[18] Italo Insolera, Domitilla Morandi, Walter Tocci, Avanti c’è posto. Donzelli editore 2008.
[19] Paolo Berdini, La città in vendita, centri storici e mercato senza regole. Donzelli editore 2008.
[20]Urbanpromo nel 2008 era giunta alla sua quinta edizione. Sulle vicende dell’Inu va segnalato il recente volume di Franco Girardi, Storia dell’Inu. Settant’anni di urbanistica italiana. 1930-2000. Ediesse, 2008.