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Gianni Belloni
Caserme dismesse. Come convertire una rete di guerra in una rete di pace
28 Ottobre 2009
Una grande occasione per il Friuli, e per molte altri luoghi; sapremo coglierla? I temi discussi in un convegno a Pordenone. Scritto per eddyburg, 28 ottobre 2009

Sono caserme, poligoni, magazzini, vasti piazzali, piccole postazioni di montagna, condomini: è di 100 chilometri quadrati l'area complessiva utilizzata in Friuli Venezia Giulia come suolo militare. Oltre 400 beni - cifra risultante da un'inchiesta della Procura di Padova ma non esiste una mappatura precisa - che dopo la caduta del muro di Berlino, l’apertura delle frontiere con la Slovenia nel 2004 e la fine della leva obbligatoria, sono stati abbandonati dall’esercito italiano.

Una parte consistente delle aree militari, in possesso della Regione, sono state cedute ai comuni. In alcuni casi assistiamo a strutture e superfici enormi in territori in carico a piccoli comuni, come a Visco, provincia di Udine, conta poche centinaia di abitanti e ospita una ex caserma che copre una superficie di ben 115mila metri quadrati. In altri casi le strutture non sono mai state cedute dal demanio e rimangono completamente abbandonate come nel caso di Chiusaforte, in provincia di Udine, dove da più di dieci anni, trenta palazzine, un tempo alloggi per ufficiali, cadono a pezzi nel centro del paese. Questa realtà è stata fotografata, per la prima volta, dalla fotoinchiesta “Friuli Venezia Giulia – un paese di primule e caserme” da Paolo Fedrigo e Fabrizio Giraldi. «Da quando è stato presentato a Pordenone, durante la rassegna di Cinemazero, «Le voci dell'inchiesta», a fine ottobre dell'anno scorso, la fotoinchiesta si è trasformata in un vero e proprio volano - racconta Paolo Fedrigo - in grado di richiamare l’attenzione, in regione e non solo, sulla delicata questione della riconversione militare». Una situazione, quella delle aree militari dismesse, che resta ancora in sospeso. Non sono chiare le intenzioni del governo né quelle della regione, e così gli interventi di riqualificazione, pochi e limitati a iniziative sporadiche, sono destinati ad essere rimandati per chissà quanti anni, segnando la rovina per centinaia di ex strutture militari ancora utilizzabili.

A Pordenone, giovedì 22 ottobre, sono stati invitati a parlarne nel quadro della rassegna “Storie di futuro», l'architetto paesaggista Juan Manul Palerm e Massimo De Marchi, geografo. Durante la serata come il tema della riconversione delle aree militari abbandonate attraversa una densa costellazione di problemi. Come affrontare la riconversione di aree così diverse e d'altronde, individuare un'idea complessiva e non procedere a spizzichi e bocconi? Quale governo del processo che possa garantire gli interessi collettivi a fronte di probabili interessi privati? Che ruolo le popolazioni insediate? Come approfittare della tutela che queste aree hanno comunque goduto dal punto di vista urbanistico? Gli insediamenti militari hanno rappresentato, a loro modo, dei nodi di un reticolo che aveva il suo senso nella logica della guerra fredda quando si temeva una possibile invasione proveniente dall'est Europa. Come pensare ad un nuova rete con intenti e logiche differenti e che, allo stesso tempo, combaci con le strutture esistenti?

La sfida compete alle figure professionali che si stanno misurando con il tema – come Renato Bocchi e Alessandro Santarossa dello Iuav di Venezia -, ma compete, in differente modo, agli abitanti della regione. Per proseguire nella strada della «scoperta» di questo nodo, Cinema Zero e il Laboratorio di educazione ambientale dell'agenzia regionale per l'ambiente, gli stessi soggetti che hanno sostenuto la fotoinchiesta, hanno pensato di aprire una sorta di «inchiesta partecipata». Attraverso il sito www.primulecaserme.it, operativo da una settimana, è possibile non solo prendere visione della mappa dei siti dismessi e delle immagini, ma anche inviare personali segnalazioni, storie e memorie legati ai siti. Per una popolazione come quella friulana che con la realtà militare ha convissuto a lungo è un modo di riprendere in mano i fili della memoria e partecipare ad un racconto collettivo del proprio territorio. Un momento propedeutico alla messa in moto di un processo di riconversione sensato e trasparente. L'alternativa ragionevole, come ha segnalato Juan Palerm, è quella di lasciare le cose come stanno e, intenzionalmente, incaricare le rovine di testimoniare il passato. Operazione certo più degna che lasciare a piccoli e grandi appetiti immobiliari il compito di sbranare un reticolo di manufatti e contrastanti memorie.

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