Il testo che segue, nonostante il titolo e gli argomenti con cui esordisce, è lontanissimo da un approccio teorico-accademico, o anche semplicemente giornalistico-descrittivo. L’autore è infatti direttamente interessato al problema, in quanto architetto progettista di strutture commerciali, della cui genesi e problemi attuali restituisce quindi un quadro per niente esaustivo, ma che ha la rara qualità di essere allo stesso tempo ampio e “sporcarsi le mani” con temi molto pratici ed operativi. Ne emerge un quadro comunque sconcertante, e rafforzata - proprio dall’angolazione del progettista, per quanto intelligente e critico – l’impressione di un ciclo di sviluppo comunque in declino. La “dismissione commerciale” che interessa l’ambiente suburbano/autostradale non sembra, come la sua più nota cugina industriale, avere motivazioni concrete, almeno diverse da quelle di un inseguimento di tendenze di mercato e concorrenza transeunti, che riproducono in eterno lo stesso schema: crescita, spostamento, dismissione, nuova crescita e via dicendo. Il problema è che questo processo si lascia alle spalle un territorio desertificato, contenitori vuoti e inutili, infrastrutture non o sotto utilizzate, traiettorie sociali (fisiche e non) continuamente cangianti. Alcune delle soluzioni indicate dall’autore nell’ultima parte sono di interpretazione piuttosto difficile per il lettore non addentro al dibattito specializzato, ma resta comunque una impressione di “crisi” non passeggera, a cui appare ormai ridicolo rispondere con provvedimenti di facciata, quali secondo l’autore stesso si nascondono anche dietro l’accattivante sigla del New Urbanism .
E forse non è un caso se, in questo contesto culturale che sembra coinvolgere la quasi totalità degli operatori e dei progettisti, si manifestano tendenze sempre più forti a riprodurre all’estero il modello, in ambienti ancora poco consapevoli dei costi di lungo termine, e dei paralleli anticorpi, normativi, professionali, sociali. (fb)
Premesse
A partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento, lo schema tradizionale di sviluppo regionale, con le città ad accrescersi per aggiunte successive, secondo una forma urbana riconoscibile, lascia il posto ad una modalità più diffusa, dove piccole porzioni di territorio sono edificate in modo a sé stante, non connesso, che più tardi sarà denominato sprawl. Inizialmente questo modello si basa in modo quasi esclusivo sulla rete stradale esistente delle vie e strade di campagna, per servire gli spostamenti fra casa e lavoro, e per accedere a beni e servizi. Se è accessibile in auto, una località può essere edificata, e rapidamente di sviluppa un mercato per insediamenti residenziali suburbani.
Crescendo rapidamente in popolarità, con l’aiuto della disponibilità a basso prezzo di terreni e carburante per le automobili, lo sprawl scavalca in fretta i confini municipali, e la pianificazione regionale sembra assumere un atteggiamento quasi di laissez faire, con un’urbanistica tradizionale per le città che non appare più necessaria o applicabile, e la convinzione che si possano facilmente moltiplicare le infrastrutture stradali, ove necessario, per affrontare questa domanda man mano si presenta.
Per la prima volta nella storia della civiltà, un gran numero di persone viveva in un luogo e lavorava in un altro, con la necessità di spostamenti quotidiani su notevoli distanze, che si allungavano sempre più, e un numero sempre maggiore di queste persone potevano contare solo sulla rete esistente delle strade ex rurali per muoversi. Nonostante queste vie fossero rapidamente migliorate in qualità e nella sicurezza, con aggiunta di corsie per aumentarne la capacità, non si fece molto per anticipare i bisogni futuri e, molto spesso, prima che si pensasse ai potenziali vantaggi dell’istituzione di fasce di rispetto, gli stessi schemi di sviluppo dell’edificato le resero impossibili o proibitivamente costose.
Il risultato di tutto ciò, fu che un numero senza precedenti di persone ora si spostava regolarmente e quotidianamente su distanze ancora più lunghe, su un numero sempre minore di strade sempre più larghe.
Gli effetti sul commercio
Lo scambio di beni e servizi è vecchio come la civiltà stessa, e comprende virtualmente, in un modo o nell’altro, chiunque sul pianeta. Il modo tradizionale di facilitare l’accesso a beni e servizi era storicamente quello di localizzare le strutture commerciali in zone urbanizzate, come le città o i villaggi, che rappresentavano la più alta concentrazione di potenziali clienti. In questo modo, ai potenziali consumatori si assicurava un buon accesso per i bisogni quotidiano, e ai commercianti una quantità costante di clienti entro un mercato localmente disponibile.
In un modo o nell’altro il suburbio, col suo schema organizzativo diffuso e frammentato a bassa densità, rese quasi impossibile per i commercianti raggiungere un livello tradizionale di prossimità ad una base di clientela sufficientemente estesa per sostenere un ragionevole bacino commerciale, e rapidamente si rese chiaro come fosse necessario un diverso modello di commercio per rispondere a questa nuova domanda, nel nuovo ambiente. Ironicamente, lo schema stradale ramificato che era contemporaneamente simbolo delle origini del suburbio, e simbolo dei suoi futuri problemi, fornì una soluzione immediata, a portata di mano per il problema, e creò nello stesso tempo nuovi problemi.
Se i commercianti erano sinora andati là dove stavano i clienti – nel cuore delle città e cittadine – ora per la prima volta potevano posizionarsi strategicamente nel panorama suburbano e, quasi letteralmente, solo aspettare che i consumatori guidassero fin lì. E visto che un numero crescente di residenti suburbani faceva proprio questo, su strade sempre più rade ma sempre più larghe, crebbero insieme proporzionatamente le fortune e le dimensioni dei punti vendita suburbani. Suburbio e automobile creavano, in effetti, una nazione di consumatori liberi di andare dove volessero, come il mondo non aveva mai visto prima.
La Legge di Reilly
Nei primi giorni della suburbanizzazione, l’ancora implume industria dei centri commerciali si sforzava di definire i potenziali “bacini commerciali” rappresentati dai nuovi modi di organizzazione e uso del territorio. Il risultato, fu la Legge di Reilly sulla Gravitazione Commerciale, enunciata per la prima volta alla fine degli anni Trenta da William J. Reilly dell’Università del Texas di Austin, e spiegata così nel Manuale per la Progettazione dei Centri Commerciali dello Urban Land Institute: “Quando due città competono per il bacino commerciale dell’immediata zona rurale (suburbana), il punto di discontinuità nell’attrazione commerciale è più o meno direttamente proporzionale alla popolazione delle due città, e inversamente proporzionale al quadrato della distanza dell’area urbana di ciascun centro”.
Pur formulata nei primissimi tempi della suburbanizzazione (centrata sul trasporto ferroviario e in autobus, ma con crescente ruolo dell’automobile) e con riferimento al modello prevalente urbanocentrico del commercio regionale, si tratta di un’affermazione sorprendentemente valida a tutt’oggi, se adattata all’ambiente suburbano e alle dinamiche di mercato. Essenzialmente, questa “legge” afferma che, in un teorico e generico contesto di mercato (quello rurale in origine, quello suburbano oggi), e con tutte le altre variabili costanti, la maggiore concentrazione di offerta commerciale, sia totale che per categoria merceologica, tenderà sempre a spingere o trascinare fuori mercato una concentrazione simile, ma più piccola, inversamente proporzionale al quadrato della distanza.
È un fatto sorprendente, e spesso sottovalutato. Il manuale dell’ULI lo riassume così: “a ben vedere, quello che afferma questa legge è che le persone si spostano verso la concentrazione più grande e più facile da raggiungere”, e nel suburbio, almeno in teoria, tutte le località sono facili da raggiungere (specialmente se, tanto per cominciare, siete già in macchina e vi spostate su lunghe distanze).
Se siete un commerciante, la conclusione è ovvia e immediata: costruite la scatola più grossa possibile che possa mantenersi, e “vincerete” sempre in qualunque contesto di concorrenza. Questa singola intuizione è la forza propulsiva che sta alle spalle dell’apparentemente infinita escalation nelle dimensioni commerciali degli ultimi trent’anni, ed è stata indirettamente aiutata e coltivata dai sistemi stradali regionali, e dalla crescente dipendenza da una rete rigida di strade sempre più capaci ma rade.
Per la prima volta nella storia commerciale di questo paese – o di qualunque altro – la dimensione del contenitore non era dettata dalla densità o dal tipo dell’insediamento circostante, ma quasi esclusivamente dalla dimensione della strada che consentiva l’accesso.
Perché le dimensioni contano
Ci si potrebbe fare una domanda: “Bene, e allora? Perché contano, le dimensioni?” Beh, ci sono parecchie ragioni molto importanti, perché la dimensione conta, e le due principali si legano direttamente alla Legge di Reilly: l’effetto del commercio sovradimensionato su quello pre-suburbano o (nuovo) urbano, e la continuamente crescente dimensione dei bacini commerciali suburbani.
Con l’aumentare dell’importanza delle dimensioni stradali e del volume di traffico, nel determinare la scala del contenitore commerciale, altri formati e categorie merceologiche che prima avevano una dimensione calibrata sul quartiere, crescono a proporzioni regionali, e centri e contenitori regionali che prima si vedevano solo nei centri urbani improvvisamente spuntano negli ex incroci di vie rurali, diventati ora nodi di primaria importanza, ma popolati in gran parte con densità residenziali che solo poco tempo fa avrebbero fatto pensare a zone di campagna (Dadeland Mall a Miami, Florida, e Tyson’s Corner Mall a Tyson Corner, Virginia, entrambi centri commerciali di successo enormi e conosciuti a livello nazionale, hanno cominciato così, e vanno ancora benissimo).
dato che questi nuovi formati commerciali hanno la dimensione come principale strumento di primato competitivo, si localizzano dove possono trarre il massimo vantaggio anche dai sobborghi più esterni, ovvero il più lontano possibile lungo la ramificata corrente stradale, a catturare la maggior quantità di traffico prodotto dall’insediamento, e anche “prendere a prestito” notevoli quote di mercato dai più piccoli esercizi di generazione precedente, collocati verso l’interno dell’agglomerato, senza per questo essere esposti a future minacce di concorrenza “a monte” dei flussi di traffico.
Ma sfortunatamente “grosso” è un concetto relativo, qualunque dimensione non è “grossa abbastanza” per mettere al sicuro da minacce del genere. Gli insediamenti residenziali suburbani continuavano a crescere in dimensione e a diventare sempre più “introversi” e chiusi, e il sistema di connessione e permeabilità regionale era costantemente messo in crisi, con la necessità di arterie di capacità e dimensione senza precedenti, rafforzando e consolidando le dinamiche di mercato che avevano contribuito in prima istanza all’aumento di dimensioni dei contenitori commerciali.
Come risultato, scatole che sembravano enormi solo qualche anno prima ora subivano gravi svantaggi competitivi al crescere delle strade che avevano di fronte: e i commercianti e le loro scatole si affannavano a tenere il passo prima che nuovi concorrenti riuscissero a dare una risposta alla illimitata domanda di spesa rappresentata dal crescente flusso di traffico. Divenne presto usuale vedere generazioni successive dello stesso tipo di negozio, abbandonate in stretta successione in una corsa senza fine, come un cane che si morde la coda, per mantenere una supremazia di mercato, senza che si scorgesse un limite concepibile.
Questo era già abbastanza traumatico dal solo punto di vista fisico, ed economico (dopo tutto, che ve ne fate di un guscio vuoto che il precedente inquilino ha già provveduto a rendere obsoleto per sempre?), ma quello che è più preoccupante è l’impatto di questi contenitori sempre più grossi a scala regionale. Memori della Legge di Reilly, del diminuire dell’effetto attrattivo della dimensione commerciale in modo inversamente proporzionale al quadrato della distanza, e consapevoli delle ridottissime densità residenziali dei sobborghi più esterni, i commercianti di queste aree sono diventati ora per necessità negozi “ destination”, e la dimensione un fattore “nuota o annega”, dove o si domina la vasta zona suburbana, oppure si cessa di esistere.
Il risultato finale? Un facile e gradevole spostamento in auto di due minuti sulle strade locali per mezzo litro di latte in un insediamento di quartiere tradizionale, è diventato ora un’ardua faccenda di una ventina di minuti almeno su un’affollata superstrada multicorsie (insieme a tutti gli altri pigiati nella stessa barca) per la maggior parte dei residenti suburbani. Per ridurre al minimo la frequenza di questo trauma, i commercianti dei big-box hanno forzatamente aggiunto molte alte categorie commerciali alla loro già ampia offerta, per assicurarti che, anche se il tuo viaggio settimanale sembra ora una impegnativa spedizione, almeno potrai comprarti, contemporaneamente, anche cose di cui non avresti mai sognato di aver bisogno.
E certo, naturalmente, come risultato anche i contenitori diventano più grossi ...
Nella lotta infinita per proteggere il loro territorio, il già enorme grande magazzino a basso prezzo aggiunge un negozio di alimentari e una stazione di servizio, il già enorme negozio “locale” aggiunge una farmacia, una sezione di prodotti vari, un reparto video, la filiale di una banca, il chiosco di frittelle e il lavasecco, la farmacia “locale” aggiunge prodotti freschi, ricambi per automobili e ferramenta, prodotti in scatola ed elettronica di consumo. Fatevi un’idea.
Quadro regionale
Anche se è giusto pensare che esperienza sgradevole sia diventata la spesa, è più importante pensare cosa significa in una prospettiva regionale. Sempre più automobili si muovono verso destinazioni sempre più lontane, lungo sempre meno strade, solo per soddisfare banali bisogni quotidiani. I chilometri che percorriamo in automobile sono saliti alle stelle. Quello che un tempo era uno spostamento di un chilometro su strade locali, per fare la spesa della settimana, ora è di dieci o venti o più chilometri, a seconda della personale resistenza al dolore e a quanto si spera di “risparmiare” con una spedizione del genere.
E visto che tutti stanno facendo essenzialmente lo stesso viaggio sulle stesse strade, i nostri bisogni infrastrutturali sono cresciuti incommensurabilmente. Ora usiamo più carburante, produciamo più gas serra, asfaltiamo molta più terra agricola e spazi naturali, per soddisfare gli stessi bisogni elementari che soddisfacevamo un tempo con una frazione delle stesse risorse e fatica, in un contesto urbano.
Un fatto piuttosto curioso, è che non solo le grosse strade attirano e mantengono le grosse scatole commerciali, ma il traffico che queste generano spesso induce “miglioramenti e aumenti” nella capacità stradale, che spesso attirano scatole ancora più grandi (o incoraggia quelle che già ci sono ad aumentare di dimensione ovunque sia possibile). Questo circolo di auto-alimentazione tende a concentrare l’attività commerciale nelle localizzazioni suburbane attuali al punto che qualunque tentativo di attenuare i problemi di traffico o aggiungere usi diversi dello spazio, o aumentare la densità residenziale, o d’altra parte ridurre le dimensioni del bacino commerciale e le distanze di viaggio, diventa quasi inutile, e ogni introduzione di modelli comunitari più equilibrati e tradizionali (urbani) quasi impossibile da realizzare.
Come affermato nel Manuale dei Centri Commerciali dello Urban Land Institute: “Un centro commerciale non può generare un nuovo volume d’affari o creare nuovo potere d’acquisto ... invece essi attraggono clienti da distretti (commerciali) esistenti o catturano porzioni di nuovo potere d’acquisto da un’area in crescita. ... Possono causare una redistribuzione dei punti vendita e delle abitudini dei consumatori, ma non possono creare nuovi consumatori”. In altre parole, e nonostante la diffusa convinzione del contrario, nessun contenitore commerciale, indipendentemente dalla sua dimensione, è in gradi di creare concretamente un potenziale di spesa, semplicemente in virtù della sua grandezza. Ad ogni modo, essi sono certamente in grado di influenzare e redistribuire gli schemi di spesa del potere d’acquisto che già esiste all’interno di una determinata comunità, e con questi molto grandi contenitori questa influenza è sempre più avvertita a scala regionale.
Mentre le dimensioni delle scatole commerciali e i loro corrispondenti bacini (entro mercati di simile densità e reddito familiare, la dimensione del contenitore generalmente detta a grandi linee anche la dimensione del bacino) diventano sempre più grandi, i mercati di consumo che essi attirano trascendono i limiti municipali e di contea, e i loro corrispondenti ambiti fiscali. Qualunque contenitore o concentrazione commerciale che sia sovradimensionato rispetto alla capacità di spesa del proprio contesto immediato, dovrà necessariamente drenare da un mercato regionale più ampio, per mantenersi.
Il vasto e crescente sistema della rete stradale su cui è costruito lo sviluppo a sprawl aiuta e facilita questa concentrazione del commercio, così come descritta sopra, spesso di molto superiore alle capacità locali di sostenerla, e questa situazione può creare molte e pericolose dinamiche a scala regionale. Non è raro al giorno d’oggi trovare piccole cittadine o distretti rurali con superfici commerciali di molto superiori a quelle necessarie alle necessità dei propri cittadini, di solito sotto forma di contenitori delle maggiori catene distributive nazionali, con il resto della clientela risucchiato dalle comunità vicine, a spese dei rispettivi distretti commerciali.
Questo produce la “guerra commerciale” attualmente in corso, con schermaglie di confine dove ciascuna comunità lotta per acquisire le scatole più grosse, in una battaglia mortale dove “chi vince piglia tutto”, con la differenza che poi nessuno vince davvero, eccetto naturalmente le big-box corporations e i loro azionisti; i quali normalmente vivono a migliaia di chilometri dalle linee del fronte. Anche quartieri e città che farebbero anche a meno degli scatoloni, si sentono obbligate a cercarseli, se non altro per motivi di autodifesa.
Conclusioni
L’urbanizzazione tradizionale, in virtù della sua forma compatta, dell’uso misto dello spazio, della gerarchia di strade e densità residenziali, tende ad autoregolarsi in termini di formati e tipologie commerciali. I servizi di vicinato che si rivolgono a bisogni quotidiani stanno tradizionalmente a breve distanza dal quartiere e per altre spese, più rare e impegnative, che si fanno meno di frequente e richiedono una base di consumatori più vasta per mantenersi, ci si rivolge al centro città, dove risiede la più alta concentrazione di clienti, e dove è anche disponibile il servizio del trasporto pubblico. In questo contesto, il commercio per grandi contenitori sarebbe appropriato e benvenuto, e utilizzerebbe al massimo gli investimenti in infrastrutture della città.
In un contesto suburbano, dove la dimensione delle strutture commerciali non è determinata dalle densità e dalle caratteristiche del circondario immediato, ma in misura maggiore dal volume del traffico di passaggio, questa correlazione è stata del tutto eliminata. Il commercio place-based è stato sostituito (e nei casi migliori) da una attività place-making, dove sostanzialmente i centri commerciali suburbani sono concepiti per sembrare di essere ciò che non sono. Dunque diventa sempre più importante ricordare: in una prospettiva regionale, è la prima parte del viaggio commesso alla spesa, che conta di più, non gli ultimi venti metri, non importa quanto essi possano essere gradevoli.
Se il novantacinque per cento dei clienti ha guidato per 10 o 20 chilometri su larghe strade a molte corsie, attraverso quartieri monofunzionali a bassa densità, per farci la spesa, non importa gran che quale aspetto abbia, quando ci arrivi, è un centro commerciale suburbano!
Questo non significa che non si debbano disporre gli edifici secondo l’allineamento, o tentare di costruire un ambiente pedonale, che non si debba badare al tipo di edificio, alla dimensione, ai modi d’uso: solo, da molti punti di vista, si tratta di questioni marginali rispetto alle dinamiche più vaste che stanno alla base dell’insediamento suburbano odierno.
È anche molto difficile resistere alla tentazione di partecipare alla rissa, e arbitrariamente “ribaltare” i formati commerciali sia nei quartieri urbani, sia all’interno di altre “nuove” comunità urbane, interne ad un contesto altrimenti suburbano, anche solo come reazione difensiva ad una percepita sfida competitiva: una specie di “se non puoi batterli, unisciti a loro”. Ma sarebbe uno sbaglio. Non c’è attività commerciale in un vuoto di concorrenza, e ad un certo punto il contesto di mercato in cui sta il contenitore avvertirà l’onda di effetto di questa azione, e si sarà creata una dinamica suburbana con cui dovrà confrontarsi qualcun altro, in qualche posto più in giù lungo la strada (senza scherzi).
Un approccio più appropriato sarebbe quello di adottare un modello regionale di insediamento che comprenda un sistema integrato di trasporti, e un uso del suolo focalizzato su una crescita per quartieri strutturata sul lungo termine. Questo approccio aumenterebbe l’accesso locale, contro il bisogno di lunghi spostamenti, attraverso alcune tipologia stradali, i trasporti pubblici, e una struttura urbana che incoraggi formati commerciali di dimensione appropriata, collocati idealmente e compatibilmente rispetto al bacino di consumo.
Adeguare l’ambiente suburbano esistente è una sfida molto più impegnativa, e rappresenta una tentazione anche più forte di arrendersi allo status quo, sovradimensionando le capacità commerciali in previsione delle sfide competitive implicite in quel contesto (la mancanza di consapevolezza rispetto a questi problemi ha contribuito al fallimento di molti insediamenti commerciali New Urban Greenfield, producendo l’attuale frustrazione). Comunque, ancora, agire così, se può apparire un ragionevole e comprensibile espediente di breve termine, semplicemente allontana il giorno in cui si dovrà affrontare il problema in modo integrale, e soprattutto fa sembrare i New Urbanists degli ipocriti.
In realtà, la stessa natura generica dell’ambiente commerciale stradale suburbano, che ha reso possibile la rapida estensione nazionale dell’impresa di questo tipo, può rivelarsi causa del suo disfacimento, visto che qualunque commerciante là fuori vale solo quanto il suo ultimo “affare”. Quello che oggi è “evidenza di sviluppo economico” è spesso lo highway slum di domani, e questa tendenza è un cruccio sia per l’industria commerciale nazionale nel suo insieme che per le comunità i cui centri urbani sono stati desertificati da questi scatoloni, ora obsoleti. Questa comprensione, è quanto sta certamente dietro molta parte degli sforzi odierni per realizzare nuove zone commerciali con “base comunitaria”, ma questa strategia fornisce poca sicurezza sul lungo termine, se non si traduce in fatti, oltre che in parole. Ad ogni modo, un sovradimensionamento nei nuovi insediamenti commerciali urbani può essere appropriato, almeno nel breve termine, se è fatto nel contesto di una strategia più ampia per consolidare e razionalizzare lo sviluppo commerciale secondo efficaci schemi urbani e regionali. Un esempio di tentativo per iniziare un processo di questo tipo è lo SmartCode, ma si tratta solo di uno dei molti potenziali strumenti in grado di fornire un sostegno a questo sforzo. Comunque, è qualcosa che esiste, oggi. In ogni caso la prima cosa di cui preoccuparsi è di “non fare danni”. E questo significa: non creiamo altri problemi per risolvere quelli che abbiamo già.
Note: Il sito da cui è ripreso il testo è qui: http://user.gru.net/domz.
L’opinione che uno sviluppo suburbano e autostradale incontrollato avesse il degrado del road slum come unico sbocco finale possibile, non è certo nuova. Illuminante a questo proposito un testo del 1930 dell’ambientalista Benton MacKaye dal suggestivo titolo, The Townless Highway(fb)