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Maria Pia Guermandi
La nottola di Minerva
8 Luglio 2008
Beni culturali
Due recentissimi articoli di tema apparentemente distante...

Due recentissimi articoli di tema apparentemente distante, esemplificano con grande chiarezza i due lati della stessa medaglia, intendendo come tale la situazione dell’archeologia in Italia, ma non solo.

Sulle pagine culturali del Corriere della Sera di domenica 8 giugno, un articolo dal titolo "Italia ad Atene: cent'anni in solitudine" si concludeva con un appello al buon cuore degli italiani di nobile sentire perchè intervengano a risollevare le sorti della centenaria Scuola Archeologica Italiana d'Atene, minacciata, già da qualche anno, dalla scure delle ultime finanziarie alla perenne ricerca di sacche di risorse da recuperare ed etichettata come ente inutile. In realtà la “gloriosa e benemerita” (binomio laudativo di prassi in casi consimili) istituzione rappresenterebbe un risparmio di scarsa entità, vivacchiando con un budget annuale di poche centinaia di migliaia di euro che consente a malapena di elargire la dozzina di borse di studio che giustificano la denominazione e permettono ad una ristretta lobby di professori universitari di gestire corsi di specializzazione non proprio classificabili come eventi culturali. Quanto agli scavi, un tempo attività di grande risonanza e ottimi risultati scientifici, probabilmente per le ristrettezze economiche, anche in questo settore sono lustri che la Scuola d'Atene non può annoverare risultati significativi: in tutto l'accorato articolo del Corriere che ne perora le sorti, uno dei pochi elementi a favore del suo mantenimento, oltre all'esiguità dell'onere finanziario e alla vetustà dell'istituzione (che si voglia vincolarla come reperto archeologico?), risiede nell'affermazione che esistono numerosissime scuole archeologiche straniere ad Atene e quindi sarebbe un'onta nazionale che sparisse quella italiana: una sorta di versione culturale della vicenda Alitalia, insomma. Effettivamente, come per le compagnie aree di bandiera, non tutte le Scuole Archeologiche straniere attraversano un’uguale fase di decadenza, anche se tutte hanno dovuto affrontare un radicale ripensamento del loro ruolo. Nate come coté culturale di politiche neppure troppo velatamente originate dall’ideologia colonialista, alcune hanno saputo diventare, nel tempo, centri di ricerca di primo livello e forniscono, ad Atene come a Roma, servizi culturali all’intera comunità internazionale degli studiosi. Altrettanto non è avvenuto per la Scuola Italiana d'Atene che, da alcuni decenni a questa parte, invece di affrontare questo passaggio cruciale, sta attraversando una lunghissima fase di stagnazione che l'ha resa molto simile ad un periodico buen retiro sia pure con motivazioni culturali, ormai totalmente svincolato dalle primigenie finalità di formazione per il personale dell'amministrazione statale e scosso periodicamente da querelles di basso potere accademico. Certo questa non è la sola italica istituzione culturale che vivacchia in dorato isolamento nelle lagune protette dell'erudizione e della ricerca per “specialisti”, tenendosi ben al riparo dalle maree della cultura contemporanea, ma come le altre “gloriose e benemerite” è un sintomo evidente di una incapacità dell'archeologia nostrana ad affacciarsi al mare aperto della ricerca e ad affrontare i molti nodi che ancora la confinano fra le discipline di erudizione. Per festeggiare il prossimo centenario non come una commemorazione un po’ funerea di passati splendori, occorrerebbe all’attuale Direttore che ha ereditato una così pesante situazione, prima che un aiuto economico, uno sforzo di ripensamento intellettuale, urgente e radicale per superare questa lontananza evidente e pericolosa dalla contemporaneità di una disciplina, quella archeologica, che in Italia appare ancora incapace, nel suo complesso, di proporsi come una scienza in grado di confrontarsi e interagire con la post-modernità e i suoi problemi.

L'altro, speculare sintomo di questa involuzione è ben esemplificato dalla rincorsa sempre più convinta agli aspetti più effimeri di tale modernità e quindi alla necessità di una visibilità mediatica: frenesia che si manifesta nella ipertrofica realizzazione di eventi in serie (dalle conferenze di stile holliwoodiano agli scoop giornalistici) in cui, nella grande maggioranza dei casi, l'antico viene utilizzato soprattutto per il suo potere di richiamo fascinoso ed esotico. L’ultimo, in questa direzione, ci viene preannunciato dall’odierna esternazione su la Repubblica dello studioso che da anatomo patologo dei primati, ha recentemente (post 13 aprile, per intenderci) ribadito l’assoluta neutralità ideologica della disciplina (“l’archeologia non è né di destra né di sinistra”). Andrea Carandini dunque, dopo aver rivendicato alle università italiane il possesso di un patrimonio documentale misconosciuto (e c’è da domandarsi come mai organi deputati alla diffusione della conoscenza abbiano sinora svolto così male uno dei loro compiti statutari), sprona l’attuale amministrazione capitolina ad abbandonare ogni timidezza (sic) e a lanciarsi nell’impresa del nuovo costituendo Museo della città di Roma, attraverso il quale la capitale d’Italia, finalmente allineata alle altre metropoli europee, riuscirebbe a raccontare la storia del proprio passato. Dall’articolo pare di capire che si tratti in primo luogo di un museo di storia dell’architettura (antica?) abbinato a un meno magniloquente museo della “vita quotidiana”. Un altro museo dunque, dai caratteri ancora non precisati, ma per il quale, in compenso esiste già una sede bella e pronta in via de’ Cerchi e come ognun può capire non mancherebbe certo, a Roma, il materiale archeologico per riempire le sale: dove sta il problema? Il problema sta esattamente nello strumento adottato, il museo, che alle nostre latitudini attraversa da anni una crisi di funzione testimoniata da una perdurante disaffezione di pubblico. Si vada a leggere il professor Carandini le cifre degli accessi ai tre musei citati nel suo intervento (Cripta di Balbo, Mercati di Traiano e della Civiltà romana), scoprirà che si tratta di luoghi disertati non solo dai grandi flussi turistici, ma incapaci di attirare se non poche migliaia di visitatori l’anno. In Italia, come ogni operatore culturale minimamente informato sa bene, escludendo pochissime eccellenze (in campo archeologico al di fuori di Pompei e il Colosseo, che non sono musei, solo L'Egizio di Torino e i Capitolini reggono dignitosamente), i visitatori non frequentano i musei e questi ultimi, specialmente in alcune realizzazioni recenti, sono diventati spesso cattedrali nel deserto destituiti di ogni impatto culturale, ridotti alla mera funzione conservativa e con costi di gestione proibitivi per la collettività. E’ assolutamente vero che esiste una domanda crescente di informazione da parte di flussi di visitatori sempre maggiori e che Roma e il suo passato meritano uno sforzo culturale in campo comunicativo. Ma che sia davvero innovativo: non solo e non tanto dal punto di vista tecnologico ( e certo in questo settore gli esempi stranieri non mancano), ma da quello intellettuale. Forse nel “basta Roma a raccontare sé stessa” di Salvatore Settis (pur se accusato di disinformazione, sic!) era contenuta una più profonda verità: Roma è essa stessa un museo a cielo aperto e come tale va “comunicata”, non allestendo l’ennesimo museo, ma magari collegando fra loro quelli che già ci sono (alcuni di recentissima realizzazione) e facendoli dialogare con i monumenti della città, con quel “tessuto continuo e cangiante dell’abitato” che Carandini cita, ma che, in quanto tale, non può certo essere confinato e spiegato per exempla nelle sale di un museo. Al contrario va fatto leggere nella fisicità originaria di un contesto unico al mondo.

Il museo, insomma, può essere uno strumento di una strategia culturale, uno dei tanti, non necessariamente l’unico o il più efficace…certo rimane uno dei più mediaticamente spendibili.

E così fra questi due estremi in fondo contigui e in taluni casi sovrapposti dell'isolamento accademico e iperspecialistico da un lato e della rincorsa all'evento in sè dall'altro, mi sembra che questa nostra disciplina si riveli spesso incapace di misurarsi con l'urgenza e la violenza dell'oggi che scortica e brucia, le scorie innanzi tutto, ma non solo, e che però è l'unica via possibile per superare il guado e tentare di traghettare il passato nel presente e nel domani. In questa situazione di impotenza culturale siamo in buona compagnia: in fondo, pur con qualche forzatura, questa condizione è assimilabile a quella che contraddistingue l'attuale vicenda della sinistra in Italia, fra radicalità attardata su modelli arcaici e con strumenti interpretativi tutti da reinventare e un riformismo disperso nella rincorsa di una modernità di facciata anche a costo di trasmutazioni genetiche forse irreparabili e in grado di cancellare identità storiche in cambio di maschere indecifrabili e labili.

Anche in questo caso vaghiamo dunque, alla ricerca di risposte, in una notte caliginosa: eppure, come ci ha insegnato Hegel, “la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”.

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