L’ultimo libro di Franco La Cecla (Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, 2008) è una provocazione come non se ne vedono spesso. La chiave, in parte autobiografica, rende più efficace la critica: a circostanze, temi e prassi che riguardano l’architettura oggi. «Perché non sono diventato architetto», è il titolo del primo capitolo, argomentato anche con la testimonianza di Orhan Pamuk che, si scopre, ha cominciato a fare architettura per poi rinunciare, come l’autore, a seguito di esperienze banali come cercare casa, e decidendo di studiare «l’essenza propriamente narrativa di cui gli spazi sono fatti». Ma l’architettura delle nuove tendenze sembra ignorare questo. E così si condanna a non pensare più alla città come a un racconto, intreccio di esperienze di vita di generazioni, di sconosciuti che si incontrano, al senso dello spazio pubblico, al territorio con le sue risorse, alla convivenza. Una volta eliminato tutto questo rimane il «brand», quindi la riduzione di qualunque spazio di cui l’architettura oggi si occupi, a pura immagine, alla bidimensionalità patinata delle illustrazioni delle riviste: utilizzando il sistema comunicativo della moda - quello più efficace - l’architetto si dedica ad attrarre consensi, da utilizzare in modo disinvolto nei circuiti dell’informazione.
La Cecla afferma, insieme a Pamuk, che «fin quando le città e le pratiche messe in atto per comprenderla e trasformarla non rinunceranno alla carica del colpo di genio riformatore (...), fin quando non riprenderanno a essere innanzitutto narrazione, racconto della costellazione profonda e densa, della orizzontalità e verticalità esistenziali di cui le città sono fatte, saranno soltanto esercizi inutili, capricci di sedicenti creativi baciati in backstages asettici dalle parche della moda». Si spiega come in questo contesto dominato dallo star system, il dibattito sull’architettura sia destinato a rimanere inefficace ma in compenso molto spettacolare. Si ambisce a una modernità superata dagli eventi che però funziona sempre - come logo - a coprire deficit di contenuti dando spazio a chi promette di realizzare meraviglie.
Le maggiori critiche dell’autore, con un po’ di sano disincanto, sono rivolte a questo mondo che invece attrae molto pubblico. Quando cita polemicamente il pensiero di Rem Koolhaas: «Lo shopping è con tutta probabilità l’ultima forma restante di attività pubblica», rende evidente lo scarto fra le teorie e la conoscenza di differenti situazioni (la Sardegna ad esempio: qui Koolhaas e stato ospite di Festarch) raccontate brillantemente qualche giorno fa da Flavio Soriga su La Nuova: «A Seneghe lo shopping non è granché, ma scippi zero, neanche uno (...)», a proposito di mondi da vip e di distanze dalla realtà.
Il tono incalzante di La Cecla è persistente e si impone come una di quelle occasioni rare in cui le idee ci sono, argomentate con esempi e confronti. L’ esempio di Barcellona fa riflettere: «Se trasformi la tua città in un logo, prima o poi è meglio che vai a vivere altrove». Ma anche Palermo o quartieri newyorchesi come Harlem suggeriscono, senza dare certezze, una riflessione più accurata sul senso degli interventi - nelle città e oltre le città - a cui oggi stiamo assistendo.
Le responsabilità degli architetti. Ma ancora di più di quelli che gli attribuiscono un ruolo che in realtà spetta, in democrazia, ai procedimenti collettivi, ridotti invece a finzioni utili a suscitare molto clamore ma senza un dibattito vero. Così la differenza di mezzi impiegati fa la ragione. Si potrà obbiettare che è sempre stato così, che la democrazia ha le sue pecche, ma i piccoli e grandi esempi che l’autore propone depongono a favore di una revisione dello statuto formativo della figura professionale dell’architetto e non solo. Occorre riflettere con cura sull’invito esplicito di La Cecla ad andare oltre l’architettura per prendere finalmente sul serio la questione urbana e ambientale.
L’immagine che adorna la presentazione dell’articolo è stata disegnata da Elena Tognoni per eddyburg, sollecitata dalla lettura dell’articolo “ Il mattone col pennacchio” di Giuseppe Pullara